Alla
ricerca del fiume perduto
Sulla presenza a Napoli, in epoche antiche, di corsi d’acqua, non
sembrano esserci dubbi. Ne parlano antiche cronache, ne parlano poeti come
Virgilio e il napoletano Papinio Stazio e, molti secoli dopo, Giovanni
Boccaccio; ne parlano i nomi di strade e quartieri della città come l’Arenella, sulla collina, San
Carlo all’Arena e l’Arenaccia nella zona orientale, derivanti tutti dalla
“rena”, quella specie di sabbia o di terriccio che si può trovare sul greto di
fiumi; ne parlano inoltre i “ponti” della Maddalena e di Casanova nella zona
orientale della città, che presuppongono il superamento di corsi d’acqua. I
dubbi e le domande senza risposte riguardano invece il fatto
che non ci sono più, sono spariti chi sa come e perché, si dubita sul loro percorso,
da dove nascevano, dove scorrevano e dove finivano. E, perfino sui nomi, ci
sono dubbi: Sebeto, Rubeolo o Clanis? Il primo è generalmente il nome più noto
e più utilizzato. Viene infatti nominato già riferendosi all’assedio romano alla città, quando il console Publilio Filone, nel 326 a.C., accampò il suo esercito fra Neapolis e Partenope,
alla foce del Sebeto. Lo citarono poi Virgilio nel libro VII° dell’Eneide e
Stazio nel libro I° delle Silvae. E allora, gli
altri nomi? Cosa erano il Rubeolo e il Clanis? Erano altri fiumi? E dove
scorrevano? Le teorie sono tante. Il fiume, secondo l’opinione più seguita, nasceva dalle sorgenti della Bolla, sul Vesuvio, poi attraversava le campagne di
Casalnuovo, Volla e Ponticelli, e, giunto nell’area
napoletana, scorrendo dalle colline di Capodimonte e del Vomero, probabilmente
si divideva in due rami principali: uno scorreva impetuoso e dritto verso la pianura che oggi è via Toledo e sfociava nella zona tra piazza del Municipio e
Plebiscito; l’altro ramo andava a Oriente per sfociare fuori
porta Capuana verso il Ponte della Maddalena. C. De Seta
ritiene che acque “a carattere torrentizio” scendevano dalle colline a valle,
defluendo “lungo via Foria che nella zona dell’attuale via Cirillo si divideva
in più rami dando origine, con il corso del Rubeolo, a una vasta zona paludosa.
Dall’altra parte il limite dalla zona urbana era segnato dal corso del
Sebeto, un piccolo fiume dall’andamento abbastanza regolare che scorreva lungo
le attuali via Pessina, Sant’Anna dei lombardi, Medina e finalmente sfociava
nella piana dove oggi è piazza Municipio”. Altri raccontano che, a occidente, la foce era sotto il
promontorio del monte Echia e Pizzofalcone, che allora era circondato dal mare;
c’era, secondo questa teoria, una deviazione a monte che girava verso est e si
congiungeva con un altro corso d’acqua, detto “Clanis”, sfociando a
Oriente, nella palude. Secondo
alcuni storici, il nome “Rubeolo”, più che un vero nome, era solo un diminutivo
che indicava un “piccolo rivo”.
Secondo altri, a
Occidente scorreva invece sul percorso già indicato, un corso d’acqua che fu chiamato “Rubeolo”, che poi, solo dopo il XIV secolo, per intervento
di Boccaccio, Pontano e Sannazzaro, fu chiamato Sebeto. Mario Napoli, archeologo, parla di acque
sotterranee che “durante tutta la vita di Neapolis” furono chiamate Sebeto e
che, quando sparì, fu chiamato così un modesto fiumicello detto Rubeolo che
scorreva ai piedi del Vesuvio nella zona orientale di Napoli.
Nella anonima trecentesca Cronaca di
Partenope si narra di un fiume che scorreva tra “monte Sant’Erasmo e lo monte
di Patruscolo” (oggi S. Elmo e Vomero), che era perfino navigabile. Era il
Sebeto? Alcuni dicono che il Sebeto nel
massimo del suo splendore era ricco di acque limpide, pescose e anche navigabile, cosi come erano, e sono, il Garigliano,
il Tevere ed altri fiumi famosi.
Come si vede le teorie sono tante e
girano tutte intorno ai tre nomi. E poi il mitico Sebeto, o Rubeolo, o
Clanis, lentamente sparì. Probabilmente le acque dalle colline smisero di
alimentarlo, la lenta attività sismica della zona portò alla modifica della
linea di costa che interrò la foce occidentale, mentre le paludi orientali
furono bonificate in epoca angioina, quando Napoli divenne capitale del Regno.
Diventò così leggenda e fu dimenticato. Giovanni Boccaccio, napoletano
d’elezione lo cercò inutilmente, così come anche Francesco Petrarca, che trovò solo un rigagnolo che
scorreva tra i palazzi.
Probabilmente
del Sebeto non si sarebbe più sentito parlare se non fosse stato cantato dai due massimi
esponenti dell’Umanesimo napoletano, Giovanni Pontano che nella prima delle “ Eclogae” ,rifacendosi a modelli
classici, canta il matrimonio della sirena Partenope e Sebeto, che
rappresenterebbero la città e il fiume; e Jacopo Sannazzaro, che nell’Arcadia, cita il “ placidissimo Sebeto” che scorre per “ la erbosa
campagna e poi, tutto insieme raccolto, passa sotto le volte di un piccolo
ponticello e senza strepito alcuno
ricongiungersi col mare”.
Se è vero che il fiume scorreva in due
direzioni, una verso occidente e un’altra a oriente, i due alvei di scorrimento
e di contenimento delle acque piovane
divennnero fogne a cielo aperto che
convogliavano verso il mare acque reflue
che scendevano dalle colline di Capodimonte, della Sanità e del Vomero,
raccogliendo rifiuti di ogni tipo. Si erano successivamente prosciugati e
quando nel 1532 arrivò a Napoli il Viceré Pedro di Toledo, dei fiumi non c’era
più traccia ma solo leggende. Perciò quei percorsi erano pronti per essere
trasformati in due strade: una oggi è via Foria e l’altra è la più nota via
Toledo.
Il mito del fiume
andò sempre più crescendo: a metà del 600’ il viceré de
Fonseca commissionò a Cosimo Fanzago una fontana che lo rappresentasse.
Oggi si trova a Mergellina, al largo Sermoneta.
Ma, secondo una ulteriore ipotesi, il fiume non è mai
scomparso e scorre ancora oggi nelle viscere di Napoli e spesso si mostra in
superficie provocando allagamenti.
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