Nel 534 d.C.
diventava regina dell’Italia romano-gotica Amalasunta, vedova, figlia di
Teodorico e madre dell’erede al trono Atalarico, morto proprio in quell’anno a
18 anni, senza eredi. Per quell’epoca una donna al comando era un fatto
assolutamente inconcepibile e Amalasunta, benché capace di governare da sola,
fu costretta ad associare al trono il cugino Teodato, uno dei più influenti esponenti della nobiltà
gota, che sembrava apprezzare la politica della Regina.
Amalasunta , italiana perché
nata a Ravenna nel 495, di religione
cristiana, donna di cultura che non solo conosceva greco e latino, ma sapeva
anche scrivere e leggere, continuò, sul solco tracciato dal padre, una politica
di buoni rapporti tra Goti e Italici, favorendo la nomina di elementi moderati
alle maggiori cariche dello Stato, lasciando i comandi militari a ufficiali
Goti. Intavolò, inoltre, negoziati con l’Imperatore Giustiniano I e cercò di
mantenere buoni rapporti con Bisanzio.
Il regno si presentava
economicamente a posto e in crescita, e buona era l’integrazione tra vecchi e
nuovi abitanti della penisola. Tutto questo non incontrava, però, il favore
di molti Goti, e neanche di Romani più estremisti. Iniziarono così le prime
dicerie, iniziarono le prime congiure e i tentativi di sottrarle il trono.
L’opposizione gota trovò la soluzione in Teodato, elemento debole e poco convinto della gestione di Amalasunta, al quale fu promesso il trono se fosse riuscito a toglierla di mezzo.
In quel periodo
l’imperatore aveva avviato una serie di “operazioni speciali”, come
oggi si chiamano, cioè campagne militari di aggressione e riconquista di
territori già romani che erano diventati, grazie ai “barbari”, Stati cristiani, economicamente fiorenti e ben organizzati. Il suo generale, Belisario,
era riuscito a
conquistare il Regno vandalo nell’area
corrispondente all'attuale Tunisia e all'Algeria orientale, ma non ce l’aveva fatta contro quello Visigoto di
Spagna e contro i Franchi della Gallia.
Una delle sue prime iniziative fu quella compilazione omogenea delle antiche leggi romane, il “Corpus
iuris civilis”, che, ancora oggi, viene studiato nelle facoltà di
giurisprudenza delle Università.
Aveva ricevuto ambascerie e doni da parte dei
sovrani dei regni romano-barbarici che cercavano di mantenere buoni rapporti,
compresi quelli provenienti dall’Italia. Egli guardava alla penisola, convinto
che quel territorio era romano e che la popolazione soffriva il dominio dei Barbari e non aspettava altro che
un “liberatore”. Anzi, nessuno avrebbe opposto resistenza.
Giustiniano, insieme ai suoi generali, non pensava a
una vera guerra ma solo a una operazione “speciale”, semplice e di breve
durata, e che la popolazione latina avrebbe applaudito l’intervento militare e
il ritorno dei cugini “romei”. L’ unico problema era trovare una
giustificazione valida per iniziare le ostilità. E
questa si presentò subito, nel 535.
Giustiniano aveva chiesto spiegazioni
sull’allontanamento da Ravenna della regina Amalasunta, ma nessuno gli aveva
risposto. Ai primi di maggio del 535 giunse a Costantinopoli la notizia che la
ex regina, quella che aveva condotto all’integrazione tra italici e goti e
aveva migliorato i rapporti con l’Impero, era stata assassinata. Il regno
d’Italia, secondo quello che gli raccontavano gruppi di fuorusciti, era allo
sbando, c’era pericolo per la popolazione italica.
Era il
casus belli che Giustiniano aspettava. Organizzò l’esercito di invasione che di romano non
aveva nulla, e neanche di greco, perché composto da vari popoli
guerrieri come Unni, Longobardi, Persiani, Balcanici, Isauri e altri asiatici,
tanti mercenari attratti da possibili saccheggi e premi. Al comando
dell’operazione fu posto Belisario, il migliore dei generali del momento.
Partecipava alla spedizione come segretario del generale anche Procopio di
Cesarea, storico, grazie al quale sappiamo tutto della guerra che seguì.
L’esercito orientale
sbarcò in Sicilia e tutto apparve facile.
Fu opposta scarsa resistenza e fu semplice la conquista dell’isola, facilmente Belisario attraversò
lo Stretto e risalì per la Calabria proseguendo verso Napoli. Tutto sembrava andare
secondo le previsioni di Giustiniano.
Ma la passeggiata finì davanti alle mura di Napoli. Davanti
alla città partenopea tutto cambiò e niente andò più come si pensava. Belisario si trovò davanti a una
inaspettata e imprevista resistenza. Allora dovette
fermarsi e porre l’assedio. Iniziò una vera “grande guerra” che durò per circa
vent’anni.
Napoli
stava cercando di ricostruirsi, manteneva l’antica struttura greca di decumani
e cardini, antichi templi erano stati spogliati e depredati per costruire altri
edifici, lo stesso era successo per l’antico teatro, ridotto a pascolo per
pecore e mucche.
Il vescovo della città si chiamava Pomponio che, un
paio d’anni prima, aveva fondato, sui resti
di un antico tempio dedicato al culto
di Diana, la Dea protettrice delle donne, degli animali selvatici e
della caccia, la Chiesa che chiamò, e ancora oggi si chiama, della Pietrasanta,
sull’attuale via Tribunali. Oltre le mura, nell’area
a occidente, c’era un castello in “insula maris”, l’antico castrum lucullanum,
l’attuale castel dell’ovo, dove qualche anno prima, nel 476, era stato
rinchiuso Romolo augustolo, l’ultimo imperatore romano d’Occidente. Nessuno era
riuscito ad abbattere o a superare le antiche mura, esse erano intatte e tanto
alte che le scale costruite per l’assalto erano troppo corte. La difesa era
affidata a
reparti Goti e alla milizia locale. Il grosso dell’esercito orientale
aveva posto l’assedio a oriente, in una area paludosa, probabilmente davanti a
porta Capuana, mentre altri reparti si erano accampati nella vallata
sottostante alla Sanità. L’assedio si trascinò per molto tempo, il territorio
circostante fu stravolto dalle orde barbariche orientali.
La città fu poi presa per caso, con l’inganno,
attraverso dei pozzi sotterranei che sbucavano all’interno delle
mura. Il massacro che ne seguì fu tale da provocare l’intervento del
Papa: secondo M. Schipa, il generale Belisario fu aspramente “rampognato a Roma
dal pontefice Silverio per gli eccidi commessi nella città”. Una fonte dell’epoca racconta che, dopo l’assedio della città, l’intero
territorio di Napoli rimase spopolato. Papa Silverio, adirato, disse a Belisario
di riparare il danno. Per risolvere il problema, il generale decise che
bisognava solo “portare a Napoli le popolazioni dei casali vicini, come
Trocchia, Chiaiano, Piscinola, Liburia, Somma e altri villaggi “. I casali
erano piccoli agglomerati di case coloniche all’interno della
campagna napoletana. Alcuni nomi li conosciamo ancora oggi.
La guerra continuò al nord
fino a Ravenna e oltre. Teodato fu eliminato e assassinato, e sostituito da
Vitige, un capace generale che non poté far molto, fu fatto prigioniero e
inviato a Costantinopoli, dove poi morì. Belisario fu
richiamato in patria e sostituito da Narsete, un cortigiano imperiale, arrivato
in Italia con rinforzi. Procopio di Cesarea scrisse la storia
di una guerra fatta di vittorie e sconfitte, di massacri, violenze,
distruzioni, crisi economica, migliaia di morti e feriti tra soldati di entrambi gli schieramenti, carestie e epidemie e “moltissimi – narra
- caddero vittime di ogni specie di malattie...
Nel Piceno, si parla di
non meno di 50.000 tra i contadini, che perirono di fame, e molti di più ancora
furono nelle regioni a nord del golfo Ionico... Taluni, forzati dalla fame, si
cibarono di carne umana “.
Nel
corso della guerra che coinvolse tutta la penisola, qualche anno dopo, Napoli fu assediata
di nuovo ma questa volta dalla resistenza Gota, che voleva riprenderla, e fu
costretta ad arrendersi per fame: alla resa non seguì però alcuna violenza,
anzi, il Re Totila risparmiò
e sfamò la popolazione e fece anche accompagnare il presidio orientale con
cavalli e uomini, senza toccarli, fino a Roma. Che differenza con il massacro
compiuto da Belisario e i suoi! Chi erano, allora, i barbari?
I Goti non erano sconfitti, essi
difendevano quella che ora era la loro patria, da una aggressione straniera, ma
la guerra proseguiva tra alti e bassi, tra il Nord e il centro Italia, e
diventava sempre più difficile. Erano in allarme i Franchi in Gallia, e
Alemanni e Svevi, pronti a intervenire in soccorso dei Goti. Era diventata una “grande” guerra durante la
quale, tra le altre cose, a Montecassino era stato istituito un monastero da un
certo Benedetto da Norcia che, da quanto si racconta, incontrò anche il Re
Totila. Totila fu ferito in battaglia e
morì, al suo posto fu scelto un giovane ufficiale di nome Teia. La
guerra si spostava ora più a sud verso il Vesuvio e i Monti Lattari dove il
terreno impervio del luogo poteva proteggere la resistenza gota dagli attacchi
nemici. I Goti erano alla fine, lo sapevano, lo immaginavano, ma non si
arresero se non nell'ottobre del 552, dopo una ennesima disperata
battaglia che ebbe luogo nel territorio che oggi è tra Angri e S. Antonio
Abate.
Teia mori in battaglia e
fu l’ultimo re dei Goti italiani. L’operazione speciale di Giustiniano, presto
trasformatasi in una lunga e costosa guerra senza quartiere, aveva sì
recuperato Roma all’Impero, ma aveva ridotto paesi e città in macerie, aveva provocato
migliaia di morti e distrutto l’economia. Buona parte della popolazione
italiana fu decimata dagli assedi, dalle carestie e dalla peste.
Restavano alcune sacche di resistenza soprattutto nel settentrione, dove si
verificò una ribellione sostenuta da un esercito franco-alemanno che arrivava in soccorso. La guerra andò
perciò avanti fino al 561, quando Widin, il capo della resistenza, fu catturato
e messo a morte.
Il regno goto d’Italia era finito, al suo posto nacque una nuova
organizzazione amministrativa che metteva la penisola in mano a Costantinopoli
e ai suoi funzionari civili e militari con l’istituzione, da nord a sud, dei
Ducati. Ma la vittoria bizantina si dimostrò subito
inconcludente ed effimera: pochi anni
dopo, nel 568, arrivò da Est una nuova invasione che spazzò via tutte le difese
romano-bizantine.
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