domenica 13 novembre 2022

TROTULA

 

C’era una volta una fanciulla di nobile e ricca famiglia che fu chiamata Trota, che indicava il comune pesce di fiume, ma che simbolicamente era di buon auspicio e significava “fortuna” per chi forse lo portava o lo sognava. Nacque intorno al 1030/1040 a Salerno, la famiglia si chiamava Ruggiero o de Ruggiero, era annoverata tra le famiglie aristocratiche della città.

 Salerno era, in quell’epoca, capitale di un principato longobardo dal 774, da quando cioè il duca di Benevento Arechi II, considerata la vastità del suo Stato che comprendeva i territori del Sannio, di Capua, del Cilento, della Calabria settentrionale e della  Puglia fino a Taranto, vi trasferì la Corte. Il periodo era complicato e instabile, conflitti e lotte per il potere, epidemie e carestie, Stati che si formavano e poi cadevano. Nell’800 a Roma era stato creato il Sacro Romano Impero con Carlo magno, a Oriente continuava il millenario Impero romano di Costantinopoli, le coste italiche subivano continue incursioni dei Saraceni.  A Napoli sopravviveva il piccolo Ducato, mentre Salerno dall’839, si era resa autonoma da Benevento.

Nell’anno di nascita di Trota era “princeps” di Salerno Guaimaio IV al quale, nel 1052, successe il figlio, Gisulfo II. Era il tempo dei Normanni che, arrivati come mercenari, si stavano prendendo tutto il sud. Nel 1077 Salerno fu conquistata da Roberto d’ Altavilla, detto il guiscardo, l’astuto, che tolse di mezzo il principe Gisulfo, ne sposò la sorella Sichelgaita, e fece della città la capitale del suo Ducato di Puglia e Calabria.

Nella città, in quel periodo, era attiva una famosa Scuola medica (vedi miniatura allegata), che aveva due particolarità: era, prima di tutto, un miscuglio di culture diverse, “magistri” greci, ebrei, arabi e latini esercitavano la medicina e la insegnavano; in secondo luogo, fatto davvero eccezionale per l’epoca, era aperta alle donne che avessero voluto frequentarla.

E Trotula, la piccola Trota?  Aveva fratelli, sorelle? Può darsi, ma non se ne sa niente.

Studiò e seppe leggere e scrivere, ma non sfuggì al destino di sposa giovanissima di un uomo scelto dal padre, come era l’usanza: si trattava di Giovanni Plateario, noto medico salernitano,magister” della Scuola medica. Probabilmente fu questo matrimonio che le aprì le porte della medicina e la fece diventare famosa. I suoi maestri furono lo stesso marito e perfino l'arcivescovo della città, Alfano. Alfano di Salerno, vissuto tra il 1015/1020 e il 1080, non fu solo monaco, abate e arcivescovo, ma fu anche scrittore e  un importante esponente della Scuola medica salernitana.

Con questi maestri, Trotula, diventata nel frattempo, madre di due figli Giovanni e Matteo che seguiranno le orme del padre e della madre, si dedicò alla medicina e fu il primo professore di medicina di sesso femminile.

Gli studi e l’attività di Trotula si si concentrarono sulla ginecologia, l’ostetricia e la puericultura e anche sulla cosmesi.  Non c’erano specialisti in certe materie, le donne non avevano il coraggio di confessare i propri problemi intimi a medici uomini, le donne che partorivano erano tutte molto giovani e spesso morivano dopo il parto, la mortalità infantile era al 40/45% delle nascite.

 Le cause principali erano la cattiva o precaria alimentazione e lo scarso  igiene. Nella sua epoca non era sola, sua “collega” e contemporanea fu Sichelgaita, la principessa longobarda sorella di Gisulfo II, l’ultimo principe di Salerno e, come avevo accennato, moglie di Roberto il guiscardo, il conquistatore della città. Alla morte del marito si dedicò alla medicina.

 

A Trotula sono stati attribuiti vari scritti di carattere medico sulle donne, ma secondo F. Bertini  in “Medio Evo al femminile”,  queste opere “ pur contenendo elementi ascrivibili, in tutto o in parte, al suo insegnamento, in realtà non furono materialmente scritte da lei”.

In essi si parla delle malattie delle donne prima, durante e dopo il parto e sulle cure da farsi. In uno di questi si raccontano le pratiche di alcuni medici salernitani del XII secolo, tra i quali viene citata anche Trota, definita come “magistra (insegnante) “et sanatrix” (guaritrice). Le viene attribuito anche “De ornatu mulierum”, un trattato di cosmesi che insegnava alle donne come conservare, migliorare ed accrescere la propria bellezza e come curare le malattie della pelle.

Trotula o Trota morì a Salerno nel 1097. Fu vera questa storia o soltanto una favola?  Leggenda o realtà? Cosi venne raccontata, forse esagerando, da un anonimo autore francese del XIII secolo: visse a lungo (vivere a lungo a quei tempi significava verso i 50/60 anni, infatti si dice che morì nel 1097),  fu assai bella in gioventù, e dalla quale i medici ignoranti traggono grande autorità ed utili insegnamenti, ci svela una parte della natura delle donne. Una parte può svelarla come la provava in sé; l’altra perché, essendo donna, tutte le donne rivelavano più volentieri a lei che non a un uomo, ogni loro segreto pensiero e le aprivano la loro natura”.

Una descrizione che secondo alcuni sembra fatta proprio per creare una leggenda.  In epoca tardomedievale si pensò invece che Trotula era solo una invenzione, compreso un nome così particolare, e che i testi a lei attribuiti dovevano essere in realtà opera di un uomo. Opinione, secondo me, poco credibile, basata su una diffusa misoginia dell’epoca.

Secondo altri una donna di nome Trota sicuramente visse a Salerno e fu medico in quella importante Scuola, brava e capace di curare donne e anche e uomini senza essere considerata una strega. Il ricordo di questa donna fece, poi, nascere un racconto leggendario.

 

 

 

 

martedì 16 agosto 2022

L'ultimo Duca

 

Napoli, ottobre 1137

Lì, vicino al monastero di San Marcellino, si elevava il grande Palazzo Pretorio, il posto di comando, la residenza del Duca. Da secoli quel palazzo rappresentava la sede del potere ducale, il luogo dove "reipublicae Neapolitanae negotia agebantur".

M. Schipa ne descrive la posizione:” sorgeva quest'edificio sul ciglio di Monterone, nella regione di Nilo, dove oggi si elevano l'Università, il Salvatore e S. Marcellino. Lo allietava la vista del mare e lo splendido e vasto orizzonte, e gli stavano da presso, ad ornamento, un ampio portico, il detto monastero di San Marcellino e la diaconia di s. Giovanni e Paolo; a sicurezza, fra l'altro, le forti munizioni di porta Ventosa”. ( vedi la ricostruzione nell’immagine pubblicata).

 La grande porta Ventosa chiudeva tra le mura quel canalone (oggi Mezzocannone) che raccoglieva le acque di scarico provenienti dalla collina di Caponapoli e finivano in mare. Più avanti, le mura del porto del “Vulpulum” con le porte di Massa e quella del pesce con gli edifici doganali. Sui moli, si poteva osservare un buon movimento di barche e uomini, marinai, soldati, pescatori e personaggi variamente vestiti e di lingue diverse, mercanti bizantini, perfino alcuni con turbanti bianchi forse indiani o arabi.

Affacciato sulla loggia del palazzo, Sergio guardava il mare e la spiaggia sottostante, ascoltava lo schiamazzo dei gabbiani che svolazzavano intorno alle barche dei pescatori, il sole stava nascendo dietro il Vesuvio, sul mare navigava lentamente una piccola galera militare per la sorveglianza della costa. Anni fa, pensava Sergio, il mare arrivava fino a qui sotto, ora si è ritirato.

Sergio era nato in quel palazzo e aveva trascorso l’infanzia con il fratello e due sorelle tra cortili, tra porticati e giardini sorvegliati da “uomini con spade e bastoni”.

Suo padre era Giovanni, duca di Napoli, sua madre si chiamava Anna (o forse Eva ), era di Gaeta.  Sergio era diventato alto più della media, aveva capelli neri e non portava la barba perché non gli piaceva, il fratello Giovanni era morto da piccolo, le sorelle erano state usate, come sempre, per matrimoni combinati e alleanze politiche, non aveva figli. La sua famiglia governava questo Stato da circa tre secoli, costretto a barcamenarsi tra nemici potenti che volevano impadronirsene.

Il territorio del Ducato si era ridotto praticamente alla sola città, a una striscia litoranea da Torre del Greco a Pozzuoli e alle isole di Ischia e Procida.

Sergio era successo al padre nel 1123 e aveva aggiunto al suo nome il numero sette.

Resosi conto che il momento era difficile, forse per attirare a sé l’aristocrazia della città, aveva promulgato un editto, che riconosceva alla città di Napoli, un regime di tipo comunale, e garantiva alcune prerogative e libertà ai “boni homines” e una specie di loro partecipazione al potere cittadino.

Sapeva comunque che era già tardi, quei banditi mercenari normanni si erano ben inseriti nelle guerre tra Signorotti locali e Bizantini, si stavano spartendo il sud Italia, proclamandosi conti, duchi e anche principi.

E nel 1130, quel parvenu di Altavilla, Ruggero, così si chiamava, questo contadino appena ripulito, si era fatto proclamare dal papa, addirittura Re in Sicilia. E in più era padrone di Calabria, Puglia, Abruzzo e Campania, tranne Napoli.

Napoli (vedi la pianta nella ricostruzione del Capasso) era stata uno dei tanti Ducati creati in Italia dai Bizantini dopo la vittoria sui Goti del 554. Dipendente da Costantinopoli e dall’imperatore romano d’oriente, disponeva all’inizio di un discreto territorio che andava da Caserta a Sorrento, dal Garigliano alle isole.  Da circa tre secoli era diventato indipendente con un Duca ereditario appartenente ai Sergi, una famiglia aristocratica che aveva la contea di Cuma. Essi non potevano competere sul piano militare con queste bande mercenarie pur disponendo di “una bellicosa e valorosa milizia, che offrì ai duchi di Napoli un sostegno “sicuro (G. Galasso).

Avevano sempre comunque agito con astuzia e diplomazia, ma questa volta non funzionava. L’opposizione a Ruggero era cresciuta, è diventato padrone di quasi tutto il sud, gli manca solo Napoli che, se nessuno lo ferma, sarà la prossima conquista. I grandi Stati come la Francia, l’imperatore tedesco del sacro romano impero, il nuovo papa, l’impero romano di Costantinopoli, Signori longobardi e normanni spodestati come Rainulfo, conte di Alife, della famiglia Drengot, tutti erano preoccupati dall’arroganza di questo brigante, e si chiedevano chi era e cosa voleva questo reuccio di Sicilia e cosa fare. Ad ogni buon conto Sergio era andato già a rendergli omaggio, ma subito dopo si era aggregato all’opposizione che aveva schierato un potente esercito guidato da Rainulfo Drengot, peraltro cognato di Ruggero avendone sposato una sorella.

 Il 24 luglio 1132, l’esercito ribelle guidato da Rainulfo si scontrò, nell’area di Scafati, con quello siciliano e lo sbaragliò. Ruggero fuggì in Sicilia, ma non era tipo da arrendersi. Un anno dopo tornò sul continente improvvisamente prendendo gli avversari impreparati e, tra assedi, repressioni e vendette, s’impadronì di nuovo di quel che aveva perduto. Molti si arresero, Benevento si sottomise, il Principato di Capua fu occupato da milizie siciliane, e Sergio di Napoli, pur di salvare l’indipendenza, con una bella faccia tosta, andò di nuovo a ossequiarlo. Sergio però stava giocando una partita pericolosa. E cosa poteva fare, consegnargli Napoli e ritirarsi?  Quando qualche mese dopo si parlò di malattia del re e addirittura si sparse la voce della sua morte. La rivolta si riaccese il sud in fiamme, le truppe di occupazione aggredite.  Ma altro che morto! Forse la notizia non era stata accertata. Il creduto morto sbarcò a Salerno.  Si racconta che Ruggero si era espresso chiaramente affermando che “Mai più perdonerò a Rainulfo e al farabutto di Napoli”.  I ribelli fuggirono e tutti chiusero a Napoli.  Sergio li accolse e predisposero la difesa. Le mura erano solide e così anche le porte, nessuno era riuscito a superarle con la forza ma le truppe regie posero comunque l’assedio, era il 1134. Questo bandito è fortunato, pensavano i ribelli, ha subito due sconfitte, una malattia e una presunta morte, ma riesce sempre a farcela.  Macchine d’assedio di ogni genere, assalti furiosi da terra e per mare, vigilanza strettissima, unite alla fame e alla disperazione del popolo, non riuscirono sconfiggere la città. Furono due anni di tormenti inauditi. con continui assalti e tregue e soprattutto stenti della popolazione, fame, sete e altro.   Bisognò arrendersi, Rainulfo Drengot riuscì a fuggire in Puglia mantenendo viva la rivolta. Sergio invece dovette rassegnarsi, non poteva più usare le astuzie del passato, dovette accettare lo stato di vassallo del Re di Sicilia e perciò dovette fornire a Ruggero assistenza militare partecipando alla spedizione contro il suo ex alleato Rainulfo che non si era dato per vinto.  In cuor suo però sperava in una ulteriore sconfitta di Ruggero. E così fu. Lasciata Napoli e il suo bel palazzo, al comando della milizia napoletana si diresse verso la Puglia, riunendosi con il grosso dell’esercito reale. Alcuni cavalieri e molti soldati mugugnavano per questa unione, e alcuni passarono al nemico che però era il loro ex alleato. Il 30 ottobre 1137, a Rignano di Puglia, i due eserciti si scontrarono, Sergio e quel che restava della sua piccola milizia, si batté con valore contro i reparti ribelli. Il figlio del re batté l’ala sinistra del nemico ma finì per ritirarsi. Rainulfo di Alife era sicuramente un grande condottiero se il suo esercito sconfisse per la terza volta quello siciliano e costrinse Ruggero alla fuga. E Sergio?  Ritrovarono il suo corpo sanguinante tra i suoi soldati morti. Era vissuto cercando di salvare il salvabile, e aveva creduto di farcela a salvare Napoli ed era invece morto combattendo per l’uomo che aveva odiato. La sua morte metteva fine al plurisecolare Ducato napoletano.  In città non si sapeva cosa fare, si provò a organizzare un governo provvisorio di tipo repubblicano, che durò poco e fu un fallimento. Il papa Innocenzo, al quale ci si poteva rivolgere per consigli e protezione, era prigioniero dei Normanni a Benevento. Qui, nel 1139, arrivò una delegazione napoletana che si sottomise a Ruggero e consegnò le chiavi della città. Napoli perdeva la sua indipendenza per diventare una semplice provincia del regno siciliano. Nel 1140, Ruggero II d’Altavilla, imponente sul suo cavallo, “alto, biondo e forte”, entrò a Napoli e prese possesso della città.  Il palazzo, simbolo dell’indipendenza del Ducato, fu completamente distrutto.

Fonti:

M. Schipa, Il mezzogiorno d’Italia anteriormente alla monarchia, Ed. Laterza 1923

G. Galasso, Intervista sulla storia di Napoli, Ed. Laterza, 2019

B. Capasso, Topografia della città di Napoli nell’XI secolo, Ed. Forni Arnaldo, 2005

F. Capecelatro, Istoria della città e regno di Napoli, prima parte, Ed. A. Benvenuto, 1724

J. J. Norwich, Il Regno del Sole 1130-1194, EdMursia, 1971

 

martedì 14 giugno 2022

Giustiniano e l'operazione speciale

 

Nel 534 d.C. diventava regina dell’Italia romano-gotica Amalasunta, vedova, figlia di Teodorico e madre dell’erede al trono Atalarico, morto proprio in quell’anno a 18 anni, senza eredi. Per quell’epoca una donna al comando era un fatto assolutamente inconcepibile e Amalasunta, benché capace di governare da sola, fu costretta ad associare al trono il cugino Teodato,  uno dei più influenti esponenti della nobiltà gota, che sembrava apprezzare la politica della Regina.

Amalasunta , italiana perché nata a   Ravenna nel 495, di religione cristiana, donna di cultura che non solo conosceva greco e latino, ma sapeva anche scrivere e leggere, continuò, sul solco tracciato dal padre, una politica di buoni rapporti tra Goti e Italici, favorendo la nomina di elementi moderati alle maggiori cariche dello Stato, lasciando i comandi militari a ufficiali Goti. Intavolò, inoltre, negoziati con l’Imperatore Giustiniano I e cercò di mantenere buoni rapporti con Bisanzio.

Il regno si presentava economicamente a posto e in crescita, e buona era l’integrazione tra vecchi e nuovi abitanti della penisola.  Tutto questo non incontrava, però, il favore di molti Goti, e neanche di Romani più estremisti. Iniziarono così le prime dicerie, iniziarono le prime congiure e i tentativi di sottrarle il trono.

L’opposizione gota trovò la soluzione in Teodato, elemento debole e poco convinto della gestione di Amalasunta, al quale fu promesso il trono se fosse riuscito a toglierla di mezzo.



Teodato tradì, organizzò un colpo di Stato, la regina fu arrestata e allontanata da Ravenna, la capitale, e relegata  sull’isola Martana, nel lago di Bolsena. Furono allontanati e anche ammazzati i suoi ministri, ma la notizia si era già sparsa sia nei vicini regni, come in Gallia o in Spagna, e raggiunse perfino Costantinopoli da dove l’imperatore Giustiniano chiese subito spiegazioni su quanto stava accadendo.

In quel periodo l’imperatore aveva avviato una serie di “operazioni speciali”, come oggi si chiamano, cioè campagne militari di aggressione e riconquista di territori già romani che erano diventati, grazie ai “barbari”, Stati cristiani, economicamente fiorenti e ben organizzati. Il suo generale, Belisario, era riuscito  a conquistare il Regno vandalo nell’area  corrispondente all'attuale Tunisia e all'Algeria orientale, ma non ce l’aveva fatta contro quello Visigoto di Spagna e contro i Franchi della Gallia.


( testa di statua di marmo probabilmente Amalasunta)



Giustiniano sedeva sul trono imperiale di Costantinopoli dal 527, non era proprio giovane, aveva 45 anni, era un “barbaro” di Tauresium, un oscuro paese dell’Albania: viene descritto come mingherlino di corporatura e malaticcio, ma ben istruito, ben educato e dai modi gentili. Aveva sposato Teodora, una cortigiana di umili origini che però, sul trono, dimostrò grandi capacità di governo e di sostegno al marito. Giustiniano era un fanatico dell’antica Roma, con le sue leggi e i suoi molteplici territori. Pensava, o forse sognava, la Roma augustea dei primi tempi imperiali, perché quella che c’era nel VI secolo d.C. era solo un ammasso di rovine sulle quali sopravviveva alla meno peggio una popolazione di poche anime, e assumevano sempre più potere Papi, preti e turbolente classi aristocratiche.  

Una delle sue prime iniziative fu quella compilazione omogenea delle antiche leggi romane, il “Corpus iuris civilis”, che, ancora oggi, viene studiato nelle facoltà di giurisprudenza delle Università.

Aveva ricevuto ambascerie e doni da parte dei sovrani dei regni romano-barbarici che cercavano di mantenere buoni rapporti, compresi quelli provenienti dall’Italia. Egli guardava alla penisola, convinto che quel territorio era romano e che la popolazione soffriva il dominio dei Barbari e non aspettava altro che un “liberatore”. Anzi, nessuno avrebbe opposto resistenza.

Giustiniano, insieme ai suoi generali, non pensava a una vera guerra ma solo a una operazione “speciale”, semplice e di breve durata, e che la popolazione latina avrebbe applaudito l’intervento militare e il ritorno dei cugini “romei”. L’ unico problema era trovare una giustificazione valida per iniziare le ostilità.  E questa si presentò subito, nel 535.

Giustiniano aveva chiesto spiegazioni sull’allontanamento da Ravenna della regina Amalasunta, ma nessuno gli aveva risposto. Ai primi di maggio del 535 giunse a Costantinopoli la notizia che la ex regina, quella che aveva condotto all’integrazione tra italici e goti e aveva migliorato i rapporti con l’Impero, era stata assassinata. Il regno d’Italia, secondo quello che gli raccontavano gruppi di fuorusciti, era allo sbando, c’era pericolo per la popolazione italica.

 Era il casus belli che Giustiniano aspettava. Organizzò l’esercito di invasione che di romano non aveva nulla, e neanche di greco, perché composto da vari popoli guerrieri come Unni, Longobardi, Persiani, Balcanici, Isauri e altri asiatici, tanti mercenari attratti da possibili saccheggi e premi. Al comando dell’operazione fu posto Belisario, il migliore dei generali del momento. Partecipava alla spedizione come segretario del generale anche Procopio di Cesarea, storico, grazie al quale sappiamo tutto della guerra che seguì.

L’esercito orientale sbarcò in Sicilia e tutto apparve facile.  Fu opposta scarsa resistenza e fu semplice la conquista dell’isola, facilmente Belisario attraversò lo Stretto e risalì per la Calabria proseguendo verso Napoli. Tutto sembrava andare secondo le previsioni di Giustiniano.

Ma la passeggiata finì davanti alle mura di Napoli. Davanti alla città partenopea tutto cambiò e niente andò più come si pensava. Belisario si trovò davanti a una inaspettata e imprevista resistenza. Allora dovette fermarsi e porre l’assedio. Iniziò una vera “grande guerra” che durò per circa vent’anni.

Napoli stava cercando di ricostruirsi, manteneva l’antica struttura greca di decumani e cardini, antichi templi erano stati spogliati e depredati per costruire altri edifici, lo stesso era successo per l’antico teatro, ridotto a pascolo per pecore e mucche.

Il vescovo della città si chiamava Pomponio che, un paio d’anni prima, aveva fondato, sui resti di un antico tempio dedicato al culto di Diana, la Dea protettrice delle donne, degli animali selvatici e della caccia, la Chiesa che chiamò, e ancora oggi si chiama, della Pietrasanta, sull’attuale via Tribunali. Oltre le mura, nell’area a occidente, c’era un castello in “insula maris”, l’antico castrum lucullanum, l’attuale castel dell’ovo, dove qualche anno prima, nel 476, era stato rinchiuso Romolo augustolo, l’ultimo imperatore romano d’Occidente. Nessuno era riuscito ad abbattere o a superare le antiche mura, esse erano intatte e tanto alte che le scale costruite per l’assalto erano troppo corte. La difesa era affidata a
reparti Goti e alla milizia locale. Il grosso dell’esercito orientale aveva posto l’assedio a oriente, in una area paludosa, probabilmente davanti a porta Capuana, mentre altri reparti si erano accampati nella vallata sottostante alla Sanità. L’assedio si trascinò per molto tempo, il territorio circostante fu stravolto dalle orde barbariche orientali.



 La città fu poi presa per caso, con l’inganno, attraverso dei pozzi sotterranei che sbucavano all’interno delle mura.  Il massacro che ne seguì fu tale da provocare l’intervento del Papa: secondo M. Schipa, il generale Belisario fu aspramente “rampognato a Roma dal pontefice Silverio per gli eccidi commessi nella città”.  Una fonte dell’epoca racconta che, dopo l’assedio della città, l’intero territorio di Napoli rimase spopolato. Papa Silverio, adirato, disse a Belisario di riparare il danno. Per risolvere il problema, il generale decise che bisognava solo “portare a Napoli le popolazioni dei casali vicini, come Trocchia, Chiaiano, Piscinola, Liburia, Somma e altri villaggi “. I casali erano piccoli agglomerati di case coloniche all’interno della campagna napoletana. Alcuni nomi li conosciamo ancora oggi.

La guerra continuò al nord fino a Ravenna e oltre. Teodato fu eliminato e assassinato, e sostituito da Vitige, un capace generale che non poté far molto, fu fatto prigioniero e inviato a Costantinopoli, dove poi morì.  Belisario fu richiamato in patria e sostituito da Narsete, un cortigiano imperiale, arrivato in Italia con rinforzi. Procopio di Cesarea scrisse la storia di una guerra fatta di vittorie e sconfitte, di massacri, violenze, distruzioni, crisi economica, migliaia di morti e feriti tra soldati di entrambi gli schieramenti, carestie e epidemie e “moltissimi – narra - caddero vittime di ogni specie di malattie...
Nel Piceno, si parla di non meno di 50.000 tra i contadini, che perirono di fame, e molti di più ancora furono nelle regioni a nord del golfo Ionico... Taluni, forzati dalla fame, si cibarono di carne umana
“.

Nel corso della guerra che coinvolse tutta la penisola, qualche anno dopo, Napoli fu assediata di nuovo ma questa volta dalla resistenza Gota, che voleva riprenderla, e fu costretta ad arrendersi per fame: alla resa non seguì però alcuna violenza, anzi, il Re Totila risparmiò e sfamò la popolazione e fece anche accompagnare il presidio orientale con cavalli e uomini, senza toccarli, fino a Roma. Che differenza con il massacro compiuto da Belisario e i suoi! Chi erano, allora, i barbari?

I Goti non erano sconfitti, essi difendevano quella che ora era la loro patria, da una aggressione straniera, ma la guerra proseguiva tra alti e bassi, tra il Nord e il centro Italia, e diventava sempre più difficile. Erano in allarme i Franchi in Gallia, e Alemanni e Svevi, pronti a intervenire in soccorso dei Goti.  Era diventata una “grande” guerra durante la quale, tra le altre cose, a Montecassino era stato istituito un monastero da un certo Benedetto da Norcia che, da quanto si racconta, incontrò anche il Re Totila.  Totila fu ferito in battaglia e morì, al suo posto fu scelto un giovane ufficiale di nome Teia. La guerra si spostava ora più a sud verso il Vesuvio e i Monti Lattari dove il terreno impervio del luogo poteva proteggere la resistenza gota dagli attacchi nemici. I Goti erano alla fine, lo sapevano, lo immaginavano, ma non si arresero se non nell'ottobre del 552, dopo una ennesima disperata battaglia che ebbe luogo nel territorio che oggi è tra Angri e S. Antonio Abate.

Teia mori in battaglia e fu l’ultimo re dei Goti italiani. L’operazione speciale di Giustiniano, presto trasformatasi in una lunga e costosa guerra senza quartiere, aveva sì recuperato Roma all’Impero, ma aveva ridotto paesi e città in macerie, aveva provocato migliaia di morti e distrutto l’economia. Buona parte della popolazione italiana fu decimata dagli assedi, dalle carestie e dalla peste. 

Restavano alcune sacche di resistenza soprattutto nel settentrione, dove si verificò una ribellione sostenuta da un esercito franco-alemanno che arrivava in soccorso. La guerra andò perciò avanti fino al 561, quando Widin, il capo della resistenza, fu catturato e messo a morte.

Il regno goto d’Italia era finito, al suo posto nacque una nuova organizzazione amministrativa che metteva la penisola in mano a Costantinopoli e ai suoi funzionari civili e militari con l’istituzione, da nord a sud, dei Ducati.  Ma la vittoria bizantina si dimostrò subito inconcludente ed effimera: pochi anni dopo, nel 568, arrivò da Est una nuova invasione  che spazzò via tutte le difese romano-bizantine.