lunedì 25 giugno 2012

Considerazioni oziose


L’ozio è il padre dei vizi”, “il lavoro nobilita l’uomo”: sono riflessioni o battute?
 Entrambe hanno goduto di una certa popolarità, non so chi le abbia  pronunziate per primo, ma certo deve essere stato qualche antico moralista o probabilmente qualche prete, che vedeva il vizio dappertutto, o magari qualche economista o imprenditore che aveva bisogno di mano d’opera. Nella nostra Costituzione si parla molto del lavoro, a cominciare dall’art.1, dove afferma che la Repubblica è fondata sul lavoro. Con questi principi sono cresciute intere generazioni di donne e uomini, che hanno voluto “nobilitarsi”, non solo per vivere, ma proprio per un principio morale dell’impegno, per la volontà di rendere un servizio alla collettività. Senonchè questo modello è andato in crisi. Da alcuni anni si è fatta strada l’idea che quelle affermazioni non rispondano a verità, anzi siano completamente false. Si è affrontata una riflessione sull’ ozio, sul “diritto” all’ozio e sull’elogio del non fare e sul perché dover fare, sulla eventuale “produttività” dell’ozio.
Certo, parlare di ozio, di non far nulla, in un periodo di crisi economica, con tanti “oziosi per forza”, disoccupati, licenziati,ecc. risulta quanto meno difficile, oggi l’ozio può essere considerato un lusso per pochi. Perché parlarne allora? Perché vivo in una città che mi sembra la patria dell’ozio, dell’inerzia e del non  far niente, una città  non solo di pensionati, ma anche di persone rinunciatarie, che si accontentano di poco.
E, allora, inizio dallo stesso significato di ozio. 
Credo che il concetto di ozio sia antico quanto il mondo, l’ozio  inteso come il non fare nulla, l’inerzia totale, il non lavorare, per cui oziosi erano o sono  considerate quelle persone che non hanno o non svolgono una attività in qualche modo produttiva per la società: nella categoria sono stati compresi  anziani, disoccupati, i bambini e ragazzi, ma anche i filosofi, i poeti, gli studiosi in generale, i pensatori, ma anche attori, artisti in generale, sportivi, ecc. A tutti questi spesso si sente dire:” ma vai a lavorare….”  Con questa concezione, allora erano oziosi Omero e Socrate, Orazio e Leopardi, Michelangelo e Picasso, e tanti altri.
Evidentemente non è e non può essere questo la  giusta idea di ozio. 
Altra cosa è l’ozio dei pensionati, di quelli che, come si dice, hanno già dato,  oppure di quelli che interrompono le attività di lavoro: per alcuni di questi, l’avvicinarsi dell’età della pensione, ,l’interruzione anche forzata degli impegni di lavoro e di produzione, o meglio di quelle cose che si crede produttiva, fa quasi paura e vanno in crisi davanti alla prospettiva dell’ozio.
Legati al lavoro, lo stesso lavoro per 30/40 anni, lamentano di non aver mai tempo per sé, ma non hanno altri interessi, non sanno cosa fare, vanno in crisi, si deprimono, provano in tutti i modi a conservare il loro ruolo sociale e la loro identità, e spesso si vergognano persino di non fare niente..E’ a questi - e a quelli che lavorano senza tregua -, che rivolgo le considerazioni che seguono
 C’è un film con Totò, “Il comandante”, poco amato dalla critica, ma che – a mio parere – ci trasmette questa morale . Abituato al comando e al rispetto da parte di tutti soldati e ufficiali, un generale va in pensione. Dal giorno dopo, non lo salutano più, neppure il camion che innaffia le strade, che fino al giorno prima, al suo passaggio interrompeva il getto dell’acqua, adesso, invece, lo innaffia e passa avanti. Egli, oltre a scrivere le sue memorie, rifiuta la compagnia di altri pensionati, cerca un lavoro, una attività consona al suo ruolo, e pensa di averla trovata quando due truffatori, resisi conto del credito che il generale ha presso banche e finanziarie, lo nominano presidente di una loro società. L’ex generale si sente appagato, finalmente ha di nuovo l’autista, ha un ruolo dirigenziale,  gli accendono il sigaro, firma  ogni carta che gli mettono davanti, e così si ritrova turlupinato e truffato, e a dover rispondere anche con i propri risparmi delle losche attività dei due.
Il lieto fine è però garantito. L’ultima scena ci mostra l’ex ufficiale,  in compagnia con altri pensionati, ai giardini pubblici,  felice  di godersi il meritato riposo e di divertirsi con  poco.
Pochi hanno letto un libretto dal titolo “ Vivere con lentezza” di Bruno Contigiani, che non è né uno psicologo né un sociologo, ma un manager di grandi aziende, che  a un certo punto ha scoperto che il lavoro non è tutto. In una parte del libro, egli  dice “ Dobbiamo imparare a non avere paura della libertà, dei momenti di vuoto e di ozio, della nostra posizione di figli di un Dio minore che decidono di non seguire la corrente, e  di non avere riconoscimento sociale e istituzionale, e di non fare shopping o di non essere alla moda. Non dobbiamo avere paura di essere attori non protagonisti che però amano la vita, si divertono a viverla e sanno accontentarsi”  E’ provato – egli dice, e concordo con lui – che “ tornare ad apprezzare l’arte di non far niente o niente di speciale ogni tanto, ci regala qualche punto in più nel ramo salute e sul conto in banca”.
Largo perciò al non far niente o meglio, al fare quello che piace, se piace, quando e come piace, perciò leggere, studiare, imparare a suonare uno strumento, andare al cinema o vedere la TV, ascoltar musica, fare un viaggio, ma non di quelli avventurosi o stancanti, ritirarsi a vivere al mare o in montagna o in campagna, meditare, scrivere, e altro.
Siamo in pieno stoicismo.
Lo stoicismo era una dottrina filosofica predicata da Zenone di Cizio nel III secolo a.c. che, per dirla in poche parole, auspicava il distacco dalle cose terrene, l’autocontrollo: il saggio  deve disfarsi di condizionamenti della società in cui vive. Bisogna dimenticare le passioni e mirare alla virtù come sommo grado di perfezione morale e intellettuale. L’obiettivo dello stoico – che deriva da stoa - ,  che significa “portico”, il luogo dove il filosofo dava lezioni ai suoi allievi – deve essere quello di vivere con saggezza.
Egli ebbe molti allievi e seguaci in tutto il Mediterraneo fino a Roma.
E qui arriviamo all’idea romana di “otium”, e se ne deve assolutamente parlare poiché i Romani, oltre a essere stati guerrieri e dominatori, sono stati  maestri  di questo concetto e quindi potremo rispondere anche a una precisa domanda: ma l’ozio è produttivo?
L’otium presso i Romani racchiudeva molti significati:  il semplice ozio,  il riposo dagli affari, la quiete, la calma e la pace, ma anche un genere di attività diversa da quella abituale.
L’otium infatti, appariva positivo rispetto al “negotium”( cioè la particella negativa “ nec”e otium, non ozio), cioè gli impegni politici e sociali, gli affari. Nell’otium  rientravano perciò lo studio, cioè una disoccupazione studiosa., la scolè dei greci, la contemplazione, la meditazione, le discussioni filosofiche, oltre, naturalmente, tutte le attività del tempo libero, i bagni, i pranzi e le cene, il teatro ecc.
Questo  concetto di otium appare piuttosto “aristocratico”, e va sicuramente inquadrato in quel tipo di società, dominata dalla classe aristocratica dedita all’impegno politico istituzionale, al cursus honorum, con grandi latifondi e masse di schiavi che servivano da mano d’opera, gli equites che erano una specie di borghesia ricca che provava a raggiungere, e nel tempo ci riuscì, gli stessi obiettivi, poi c’erano i liberti, gli schiavi liberati, spesso ricchissimi, e infine la plebe, una specie di proletariato urbano, sena arte né parte.
In questa società, solo quelli che potevano permetterselo, i “boni viri”, o gli “equites”, potevano dedicarsi, anche solo provvisoriamente, agli studi e alla filosofia, alla vita contemplativa e quegli obiettivi di cui parlavano gli stoici.
Se vediamo infatti chi erano a Roma i seguaci, almeno quelli più famosi, di Zenone, troviamo personaggi di rilievo, come Cicerone, politico, oratore e avvocato, scrittore, molto ricco, con molte case a Roma e in provincia, Marco Aurelio, addirittura  l’imperatore, e soprattutto Seneca, anch’egli avvocato, politico,ministro di Nerone, ricchissimo,che elaborò il concetto di ozio scrivendo proprio il “ De otio “. .
Tra la vita reale di questi personaggi e le idee c’è ovviamente una contraddizione: la vita reale fatta di impegno pubblico, ricerca del potere, ricchezza, la vita ideale invece ala ricerca del distacco dalle cose terrene e della saggezza.
Seneca era spagnolo di nascita, di Cordova, ma venne a Roma fin da piccolo con la famiglia. Dopo gli studi, si dedicò alla carriera forense e politica.
Era un periodo difficile a Roma negli anni  30 d.c. I successori di Augusto si ammazzavano tra loro per salire al potere. Morto Tiberio, arrivò Caligola che non era proprio normale, e venne ucciso dai pretoriani che al suo posto misero Claudio, avvelenato poi dalla moglie Agrippina, che mise sul trono il figlio Nerone.
Seneca, per i suoi discorsi, risultava antipatico a Caligola che non lo fece uccidere solo perchè venne eliminato prima, mentre Claudio lo allontanò da Roma, in esilio in Corsica. Agrippina, la moglie di Claudio lo fece richiamare a Roma per fare da precettore al giovane Nerone.
L’ambiente non era tranquillo, ma con Nerone imperatore Seneca divenne la persona più influente a corte, accumulava immense ricchezze, possedimenti un pò dovunque, e venne accusato, già allora, di predicare bene e razzolar male. Egli cominciò a sopportare sempre meno i comportamenti di Nerone, che ormai fece uccidere la madre e altri oppositori o presunti tali. Anche Seneca riuscì a sfuggire a un tentativo di avvelenamento, e si ritirò a vita privata in una sua villa in Campania, a Baia, vicino Neapolis, dove scrisse, tra gli altri, il “De Otio”.e il “ De serenitate”. Coinvolto nella congiura dei Pisoni, che voleva abbattere Nerone, gli venne ordinato di suicidarsi, e così fece, tagliandosi le vene insieme alla moglie.
Era normale per i Romani benestanti andare in vacanza  a Baia e, in generale, nella Campania felix. A Baia aveva villa anche la madre di Nerone, Agrippina, che proprio lì subì uno degli attentati alla sua vita da parte dei sicari del figlio.  Tutta l’area dei campi Flegrei, della costa, Baia, Bacoli, Pozzuoli e le isole di Capri e Ischia, erano sede di sontuose ville e la stessa Neapolis era considerata luogo di piacere e ideale per l’otium e la villeggiatura, le distrazioni dalla vita pubblica: a Neapolis Nerone si era esibito nel teatro, a Capri l’imperatore Tiberio aveva vissuto i suoi ultimi anni, tra Pozzuoli e Napoli si svolge parte della vicenda del Satyricon di Petronio, Cicerone aveva  una villa un pò più a nord, nella zona di Formia.
Non si può non ricordare cosa diceva un napoletano dell’epoca, che scriveva alla moglie: “ Mi affanno a portarti in questa terra( la mia terra natale non è la Libia, né la barbara Tracia). La rendono temperata un mite inverno e una fresca estate, un mare tranquillo l’accarezza con le sue placide onde. Questi luoghi godono di una pace priva d’affanni, degli ozi di una vita distesa, di quiete mai turbata, e di sonni prolungati…..”. Papinio Stazio,( le selve,III,%,81/92)
Per tornare a Seneca e al concetto di ozio, egli sostiene che  la contemplazione è pure essa una azione, anzi è “ l’ azione “, perché contempla tutte le altre azioni  cioè osserva e le contiene tutte. Egli infatti dice che “ vive secondo natura,  chi la contempla e la venera ”
Egli è contrario all’otium pigrum,  cioè inattivo, il pigro far niente, al contrario di molti altri che, invece, concordavano con la vita condotta da un ex magistrato dell’epoca che veniva portata ad esempio di otium:  il ricco pensionato, lontano dagli intrighi, dalla politica, senza obblighi  o impegni, si godette la vecchiaia in un “indisturbato far niente”.
Trovo, qui, alcuni punti di contatto con la filosofia Zen e con la pratica della meditazione. Il tipo di meditazione praticato è naturale, semplice e rispettoso della nostra esistenza come è e non come vorremmo essere o apparire. Chi pratica questa filosofia ascolta se stesso, le sue sensazioni, i suoi stimoli,  agendo nel  rispetto di sé  e degli altri, per raggiungere la serenità.
Nel Buddhismo, secondo alcuni autori, la persona ideale è quella meno occupata, quello che non ha un posto preciso dove andare o qualcosa da fare.
Molti autori si sono cimentati – e si cimentano ancora oggi, ce ne sono tanti che è impossibile citarli tutti - con l’ozio, con libri, saggi, considerazioni e aforismi: “ l’ozio è uno dei maggiori consumamenti che possa avere uno spirito libero” cosi scriveva Annibal Caro, scrittore e poeta del XVI sec., mentre Oscar Wilde affermava che “ è una fatica da cani, oziare”. C’è un autore, Paul Lafargue che circa alla fine dell’800 scrisse un saggio intitolato” il Diritto all’ozio”, dove definiva pura follia l’amore, la passione esistenziale per il lavoro. E cosa dire dello scrittore satirico Jerome K.Jerome che scrisse “ Pensieri oziosi di un ozioso”? .
In  un libricino che mi fu regalato anni fa: “ Meditazioni per uomini che non fanno niente”, raccolte da un tal Lee Ward Shore, che – come chiarito nella quarta di copertina “possono aiutarci a eliminare ogni attività e qualunque decisione dalla nostra esistenza, conservando così la serenità”. Eccone qualche esempio: “ oggi, dammi la forza di non fare assolutamente niente”, “ Oggi non intaserò la mia mente con mille pensieri”, “ se senti bussare un’occasione, non andare ad aprire la porta”.
Qualche anno fa, fu elaborato dal sociologo D.De Masi il concetto di “ozio creativo”.
Egli : richiama il concetto del romano “otium” come tempo libero dagli impegni, nel quale era possibile aprirsi alla dimensione creativa. L'ozio creativo è il lavorio della mente, che avviene quando restiamo fermi fisicamente o dormiamo. Oziare significa non pensare secondo regole obbligatorie. L’ozio creativo è,secondo De Masi, il nutrimento dell’ideazione e chi riesce a unire fantasia e creatività può definirsi un genio..
Al di là di quanto asserito da certi autori e da certe filosofie, il non avere niente o poco da fare, oppure lo starsene senza far niente: sono considerati comportamenti negativi. Chi ha poco da fare, si sente a disagio, cerca “passatempi”, magari si vergogna di non essere indaffarato.
Ma è sicuro che chi sta “senza far niente” non è indaffarato?  Io credo che la mente - come dice De Masi -, la mente continua a lavorare, pensa, riflette, medita, osserva, ecc….
Bisogna provare a passare una giornata senza far niente, soprattutto chi è abituato a correre da una parte all’altra, e chi si è dedicato solo al lavoro: è una missione quasi impossibile. E necessaria una lunga preparazione, molta forza di volontà. Eppure possiamo imparare facilmente anche in casa nostra. Basta, infatti, osservare il comportamento del gatto di casa (o del vicino). Cosa fa il gatto? Dorme o fa finta di dormire, ozia ma la mente è sveglia, ce ne accorgiamo da come ci segue con gli occhi o da come muove le orecchie.  Mangia quando gli pare e quel che gli pare e se gli pare e poi si ferma e guarda il mondo intorno. Credo che faccia la cosa migliore per lui.
“ Non appena scrivo le prime frasi, improvvisamente sento che non sono più solo. Compaiono i quattro gatti che ho il piacere di avere con me e di cui scrivo spesso. Amano starmi vicino quando scrivo. A loro non interessa l'argomento, non interessa neppure se, come ora, sto parlando di loro. Per i miei gatti è questione di principio: amano guardare quelli che lavorano. E' un modo per gustarsi maggiormente l'ozio” (Erich Kastner - I miei gatti tratto da Impronte di Gatto di Detlef Bluhm).
 Il mio gatto, come tutti i gatti, ama guardare dalle finestre, e magari, vorrebbe anche farsi una passeggiata sui tetti.. Ma, prima di saltare sulla finestra che gli ho lasciata aperta, si siede, guarda con il suo sguardo enigmatico, sembra che rifletta sul da farsi, se gli conviene o magari è troppo faticoso,, si avvicina lentamente,, si siede di nuovo e poi si decide a saltare, ma si accomoda sul davanzale e sta lì a osservare, forse anche a meditare. Prendo esempio da lui per il suo vivere slow, lentamente, così come per lo slow food. Egli non si precipita sul cibo, ma ci va con molta calma, odora, mangia lentamente e subito dopo si allontana per poi fermarsi a un paio di metri di distanza dalla ciotola. Si siede, si lecca i baffi, si pulisce e poi  va a  stendersi per riposare.
Per concludere questo breve discorso sull’ozio  mi è arrivata  in questi giorni una comunicazione del FAI, Fondo Ambiente Italiano, al quale sono iscritto, che parla di:…..”Festival”  dell’ozio.!  In pratica si tratta di due giornate da trascorrere a  Luvigliano di Torreglia ( Padova) nelle quali si “ celebra l’ozio” “ Due giornate in cui si celebra lo spirito e la creatività di ognuno di noi” recita il manifesto. Si potrà fare un pisolino  al’aria aperta, passeggiare con l’aquilone alla mano , partecipare a laboratori  slow food, yoga tra i fili d’erba,  bookcrossing e giochi dimenticati”.
Da non credere !!

sabato 23 giugno 2012

cronache giudiziarie



 Poi dicono che la giustizia non funziona, e che le carceri sono sovraffollate.
 Ho raccolto tre episodi cosi come raccontati dal quotidiano di una piccola città di provincia. .
Ovviamente ho dovuto nascondere e modificare nomi e quanto altro può far identificare persone e cose, ma i fatti sono reali.
Lascio a chi legge la possibilità di giudicare e commentarli, secondo il proprio punto di vista.
Certo, non è normale essere arrestati e messi in carcere per due pezzi di formaggio, due arance e due bistecche, né mi sembra regolare che l’Arma dei Carabinieri venga impegnata alla ricerca di una gatta(!!), per giunta a casa di una persona incensurata.
Il primo episodio:
Occulta  2 pezzi di formaggio sotto il giubbotto: in carcere “.
Ha nascosto sotto il giubbotto due pezzi di formaggio del valore complessivo di 16 Euro che aveva rubato all’interno del banco frigo del supermercato Pincopallino di corso Garibaldi.
E’ stato arrestato M:F. 30 anni, cittadino straniero., A stringergli le manette ai polsi sono stati i poliziotti di una pattuglia della Squadra volante, chiamata dagli addetti alla sicurezza del supermercato.
Secondo la ricostruzione degli agenti, l’uomo si è presentato alla cassa pagando regolarmente altra merce che aveva preso.
Ma la cassiera ha notato che sotto il giubbotto stava trattenendo qualcosa. Così quando la dipendente  del Pincopallino gli a ha chiesto di far vedere cosa aveva nascosto, l’uomo è fuggito.
E’ stato rincorso da un cliente che poi è riuscito a fermarlo dopo un breve inseguimento.
A questo punto sono arrivati i poliziotti chiamati dalla commessa che lo hanno preso in consegna arrestandolo sul posto.
Il PM dopo aver convalidato il fermo, ha disposto la liberazione di M:F.
Premesso che un furto, o un tentativo, e sempre un furto, in questo episodio notiamo: prima di tutto il modesto valore della merce sottratta, 16 euro, poi la fuga dell’uomo e il fatto che un cliente del supermercato si lancia all’inseguimento, sprezzante di eventuali pericoli, mentre gli addetti alla sicurezza, pur pagati per fermare eventuali ladri, non si muovono, si limitano a chiamare la polizia.
La polizia non può far altro che arrestare l’uomo e, dove lo portano? In galera, mentre dovrebbero tenerlo in custodia in una camera di sicurezza. Per fortuna il P.M. lo libera subito. 
Il secondo episodio
:” Venti giorni di reclusione e 50 euro di multa all’anziana che rubò le arance al Supermercato ”.
Questa è la pena inflitta con la condizionale alla pensionata di 77 – settantasette ! - anni che aveva infilato nella propria borsetta due arance e un paio di bistecche sottratte dal bancone del Supermercato. Il giudice ha ridimensionato il capo d’accusa, da furto in tentato furto e ha applicato all’anziana il minimo della pena.
L’imputata dovrà risarcire …il Supermercato che si era costituito in giudizio come parte civile, l’avvocato che aveva rappresentato il Supermercato quattro mesi fa nella prima udienza ha però rinunziato clamorosamente al mandato non condividendo la “scelta sociale” di chi gli aveva affidato l’incarico.
……….il valore complessivo del tentato furto - due arance e le bistecche – è di 19 Euro, la richiesta del Supermercato era di 500 euro ed è stata ridimensionata  a 300!  Il giudice ha accolto la tesi dell’avvocato difensore concedendo all’imputato tutti i benefici di legge applicabili.
Ora comunque si andrà in Appello, il tutto per 19 euro! La giustizia funziona e i supermercati non badano a spese per punire i ladri! Commento finale di un addetto al supermercato “ subiamo ogni anno prelievi ingiustificati di merce per un valore complessivo di tre milioni di euro. Una cifra enorme che si riflette sul bilancio e necessariamente anche sui prezzi praticati al dettaglio”
Gli addetti al supermercato dovrebbero pensare alle vendite e agli sconti e avere un minimo di umanità soprattutto quando la merce sottratta viene subito recuperata. E certamente, non a costituirsi parte “lesa” per  19 euro. Per fortuna ci sono avvocati “umani” e giudici che fanno il possibile per ridurre i danni a una anziana di 77 anni, che comunque non andrebbe in carcere proprio per l’età .
Il vero problema è che polizia, tribunali e galere non dovrebbero perdere tempo con  queste sciocchezze.
Terzo episodio
Architetto nei guai per il ratto del gatto….”
La professionista è accusata di furto e la sua casa è stata perquisita. I aula sfilano 6 testimoni.
“ si chiama Amelia ed è una gatta gialla e nera. Per trovarla e restituirla alla donna che sostiene di esserne la “vera” proprietaria, il P.M…….non solo ha aperto una inchiesta per il furto del felino, ma ha anche spedito due carabinieri a perquisire l’abitazione di un’ architetto, ritenuta la ladra di Amelia. Ora del gatto non si sa più nulla ( poiché il gatto non è stato trovato), ma A..M.  – il nome della professionista – è imputata di furto della gatta e ne deve rispondere davanti al giudice.” E’ iniziato il processo e sono stati convocate  sei persone per testimoniare. “ la signora R.C., che ritiene di essere stat derubata di Amelia voleva anche costituirsi parte civile, ma l’avvocato è riuscito a bloccare l’iniziativa. Il processo è stato rinviato a settembre perche la asserita proprietaria non può presenziare al processo.
Sembra che tutto era iniziato un anno prima, il professionista aveva trovato nei giardini pubblici un povero gatto affamato e tremante, lo aveva preso, portato a casa, rifocillato e curato. Dopo un po però lo stesso gatto era sparito e A.M. aveva provato a cercarlo andando in giro e chiedendo a molti se lo avevano visto in giro. Come si sa, il paese è piccolo e la gente mormora, e la notizia di questo povero gatto sparito e la sua descrizione avevano fatto pensare a R.C. che fosse il suo gatto. Da qui era nata la denunzia e tutto il resto.
..Ma vi pare possibile che un Magistrato possa far perdere tempo ai carabinieri e spendere soldi per una inutile e ridicola perquisizione? Vi sembra possibile che una tale affermi di essere proprietaria di un felino e addirittura vuole essere parte lesa? E come farebbe a dimostrare che Amelia è sua?

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sabato 16 giugno 2012

La via del Sole e l'Anticaglia


La strada, poco più di un  sentiero, si inerpica sulla collina, ombreggiata da grandi pini marittimi,attraverso campi e orti..
Da qui si sale sull’Acropoli, dove sorgono gli edifici civili, per l’amministrazione della nuova città, e i siti religiosi .
Lì, sul luogo più alto e assolato, in una atmosfera quasi incantata, sorge il tempio del Dio protettore della città , Helios / Apollo: una facciata di otto bianche colonne corinzie e il frontone, sul quale è dipinto, con il suo carro del sole, il Dio il cui culto è caro ai Cumani, fondatori della città .
Più giù, verso l’agorà, stanno sorgendo altri templi, mentre sotto la cinta muraria, nel doppio muro, si scorgono stazzi per animali, pozzi e depositi di generi alimentari..
Da quassù si può vedere anche il mare e il  porto, navi panciute da carico all’ancora, triremi da guerra e altre  appena giunte con nuovi coloni, barche tirate a secco sulla spiaggia. A sinistra, il vulcano che incombe sul golfo .
Neapolis, la nuova città, sta crescendo e si sta sviluppando,  stiamo creando strade, tre grandi, in direzione est/ovest e altre che le incrociano in direzione nord/sud;come ci ha insegnato Ippodamo da Mileto.
Gli abitanti stanno aumentando: Cumani , Sanniti ,Osci, Pithecusani, Ateniesi,…dovremo creare nuovi spazi e nuove abitazioni e forse allargare le mura.
Si vedono in giro anche tipi strani,un pò rustici, grezzi,  cafoni, come diciamo noi, che vengono da nord, da un villaggio etrusco del Lazio, si fanno chiamare Romani, si atteggiano già a padroni del mondo; credo che tra qualche anno dovremo fare i conti con loro.  
Tra pochi anni, infatti,  Roma  si affaccerà sulle colline circostanti e prenderà la città.. 
Il sentiero  del Sole verrà man mano modificato e assorbito dagli edifici; poco tempo ancora e il tempio di Apollo, così come quelli degli altri Dei, verrà spogliato, derubato, sotterrato e inglobato da case e templi di un’ altra fede religiosa.



Quando ho saputo che “Visite guidate Neapolis itinera”, aveva organizzato un itinerario storico-culturale partendo dalla via del Sole non ho potuto rinunziarvi, e ho rimandato altri impegni già assunti.
Come potevo non andare,dal momento che lì ero nato, e lì avevo vissuto i primi 7/8 anni della mia vita.
Oggi , del “vicus Solis”, così come l’ho immaginato, è rimasto solo il nome - via del Sole -,  non è più quell’ antico sentiero, è invece una strada assolata, senza alberi, più larga dei vicoli adiacenti, che sale dritta verso il decumano superiore.
Sulla destra, salendo, l’antica caserma dei pompieri, oggi  un grande edificio vuoto e un enorme portone chiuso, dal quale una volta entravano e uscivano gli automezzi a sirene spiegate,…sulla sinistra, recintata, tutta la zona del vecchio Policlinico.
Guidati dalla simpatica dott.sa Roberta, il gruppo, di circa trenta persone, arranca sulla salita per arrivare all’inizio dell’Anticaglia, in via Sapienza.
Anticaglia è un nome stranissimo, la parola indica in genere o un oggetto o usi e costumi antiquati, assolutamente fuori moda. E questa strada è così chiamata proprio per l’esistenza sul suo tracciato di resti di murature di un antico edificio romano, identificato dagli archeologi come  parte dell’antico Teatro, che all’epoca sorgeva alle spalle del tempio dei Dioscuri, oggi basilica di S.Paolo Maggiore.
Ma la definizione più corretta di questa strada che porta almeno 4 nomi,  - la via Sapienza, la via Pisanelli, l’Anticaglia propriamente detta e via Santi Apostoli – è quella latina di Decumano superiore.
Non starò qui a ripetere la storia del  tracciato a griglia della città vecchia, di Ippodamo da Mileto, dei decumani e dei cardini, ma basta ricordare che a Neapolis i decumani erano tre, superiore, maggiore e inferiore, in direzione est/ovest, incrociati dai cardini, le strade più strette, in direzione Nord/Sud.
I più famosi e più conosciuti da turisti ma anche dai napoletani sono il decumano major , cioè via Tribunali, e ancora di più la cosiddetta Spaccanapoli, il decumano inferior. Quello superior, l’Anticaglia appunto è in genere dimenticato e poco conosciuto, ma è un grosso errore, poiché chi si avventura su l suo tracciato – diverso dagli altri due perché più articolato e non rettilineo come gli altri – può scoprire la storia della città fin dalla fondazione.
Subito dopo l’inizio di via Sapienza e prima di via Pisanelli, ci fermiamo nello slargo di Regina Coeli, che deriva dal nome della chiesa lì esistente.
Prima di entrare, la nostra attenzione viene indirizzata sul palazzo di fronte, che all’apparenza non ha nulla di particolarmente interessante,  è abitato da famiglie normali e si vedono panni stesi sui balconi.
Senonchè, in una nicchia nel cortile interno, visibile anche dall’esterno, è contenuto un busto di un tale con elmo e corazza. Si tratta di un guerriero aragonese, cioè del periodo del regno napoletano degli Aragona dal 1441 al 1503. Probabilmente, quel guerriero apparteneva alla famiglia che costruì il palazzo, i Bonifacio, di cui non si hanno molte notizie. Gli storici parlano di una tal Dragonetto Bonifacio,che nel 1460 aveva avuto la castellania di Aversa e fu padre di 4 figli, 3 maschi e una femmina. Questa si chiamava Carmosina, ed è lei che abitò in questo palazzo.
Qualcuno penserà: ma chi se ne frega, ma chi è ‘sta Carmosina, e perché ci mostrano questo palazzo? Ha ragione, questo palazzo non ha storia, e  Carmosina non fece nulla di rilevante.
Il vero motivo per cui  Carmosina viene ricordata è per una presunta e non provata storia d’amore con il poeta napoletano Jacopo Sannazzaro (1456/1530)e per alcuni versi che questi scrisse per lei.
Ci fu chi disse che non  dovesse “ passarsi sotto silenzio il palazzo che fu dimora della casa Bonofacia e dove abitò Carmosina di questa prosapia, tanto vagheggiata da Giacomo Sannazzaro, il Virgilio napoletano, celeberrimo poeta latino e toscano”( “ I PALAZZI DI NAPOLI del 1845 di Luigi Catalani ( Roma 1809, Napoli 1867, architetto municipale di Napoli).  “Toscano” è da intendersi come italiano, o meglio “ volgare” poiché all’epoca il toscano stava prendendo il sopravvento sugli altri volgari.
Jacopo Sannazzaro, nato a Napoli nel 1457 e morto sempre a Napoli nel 1530, poeta e umanista, è rimasto famoso sia per le Egloghe, poesie bucoliche di ispirazione virgiliana, sia per l’Arcadia, romanzo pastorale in prosa e versi.
Si racconta che Jacopo era innamorato, e ricambiato, di Carmosina Bonifacio, che era diventata anche la sua maggiore ispiratrice; non si conoscono, però, molti elementi per provare questo legame, se non qualche epigramma, come:  “ charmosinem quisquis seu vir, seu foemina vidit, deperit”, cioè qualsiasi uomo o donna abbia visto Carmosina, se ne innammorò perdutamente.
Iacopo, diventato uomo di corte di re Federico III di Aragona(1451/1504), lo segui in esilio quando nel 1503 a Napoli arrivarono gli Spagnoli, e tornò nella città solo dopo la morte dei Federico avvenuta nel 1504.
Ma, quando egli tornò, Carmosina era morta, e non restò altro che dedicarle un epitaffio.
Secondo alcuni ( V.Gleijeses, la Storia di Napoli, ed SEN 1974 pag.556), Carmosina sarebbe morta “appena quattordicenne”.  Possibile? Nel 1504, quando tornò a Napoli, il nostro Jacopo, se la data di nascita è quella del 1457, aveva più di 50 anni. E la ragazza sarebbe morta tra il 1503 e il 1504, a 14 anni. A me sembra  che qualcosa non quadri, e lascio a chi legge eventuali commenti.     
Di fronte al palazzo Bonifacio c’è la chiesa di S.Maria Regina Coeli, che da il nome anche alla piazzetta.
Regina Coeli è una delle tante chiese di Napoli. In questa città ci sono più chiese che a Roma: da un conteggio approssimativo ce ne sono almeno 350/400.
La costruzione di edifici religiosi, compresi i monasteri, prese piede con il regno Angioino molto legato al Papato, al quale Carlo I° d’Angiò doveva il regno. Era stato infatti chiamato dal Papa Urbano IV, per combattere contro gli eredi dello scomunicato Federico II, e  conquistarne il regno.
Il legame tra il Papa e gli Angioini, fece sì che la città, diventata capitale del regno al posto di Palermo, si riempisse di conventi e chiese, di frati e monache tutti gli ordini religiosi e che fosse introdotta l’Inquisizione.
Fu una vera e propria frenesia quella di edificare chiese e monasteri, che durò anche con i successivi governanti, Aragona,  Spagnoli e Borbone: furono sfruttati tutti gli spazi ancora disponibili entro  e fuori le mura, distruggendo campi, orti e giardini,  torri e porte di accesso, senza alcun rispetto per la storia della città, buttando giù antiche costruzioni e depredandone materiali e arredi.
Con tutti questi edifici religiosi e di conseguenza le sovvenzioni  economiche reali e quelle degli ordini religiosi, fu abbastanza naturale che tutti i maggiori artisti, napoletani e non, architetti, pittori scultori, per secoli furono chiamati  a lavorare per abbellirli ed è per questo che, se ancora oggi si vogliono vedere opere d’arte  bisogna visitare le chiese della città.
Tornando a Regina coeli, quante volte negli anni sono passato per questa piazzetta senza accorgermi di questo edificio, soprattutto perché sempre chiuso, sempre anonimo.
Oggi è aperta perché è il maggio dei monumenti, malgrado monaci, monache e preti, facciano di tutto per scoraggiare i visitatori;  naturalmente sono vietate le foto e si sprecano i controlli.
La chiesa, con annesso monastero, è gestita da suore di un ordine, per me sconosciuto – suore della carità secondo alcuni, per altri suore del’ordine di s. Agostino - , che ci seguono e ci controllano, come Cerberi, passo, passo.
 Secondo Gennaro Aspreno Galante nel suo Le Chiese di Napoli,  “ questa chiesa è una delle più belle di Napoli, e le proporzioni sono elegantissime”.
Regina coeli  fu edificata nel 1594 dall’architetto Francesco Mormando, e costituisce un importante esempio di arte rinascimentale e barocca
La facciata è molto semplice, una ampia scala e un portico ci conducono dentro.  L’interno è composto da una unica navata e da cappelle laterali:  è un tripudio di legno, marmi, di quadri e affreschi.
Il soffitto è di legno a cassettoni  Al centro, la rappresentazione della nascita, l’annunciazione e assunzione di Maria sono dipinti da Massimo Stanzione, mentre le virtù ad olio sono di Micco Spadaro, si ammirano poi i dipinti di Luca Giordano raffiguranti scene della vita di s. Agostino .
Le monache sono gelose anche del chiostro, la cui entrata principale è in via S.Gaudioso, questo chiostro a mio parere, non presenta nulla di particolarmente  e artisticamente rilevante, al centro c’è una fontana pozzo del XVI secolo, in marmo circondata da sfere e obelischi,  mi ricorda altri che ho già visto, come quello delle monache di S.Gregorio Armeno.  

Usciti dalla via S.Gaudioso, ci incamminiamo verso l’ospedale degli Incurabili. L’ospedale fu fondato nel 1520 /22  e si chiama così perché era riservato a pazienti affetti da malattie che, all’epoca, erano considerate “incurabili”.
Dicono che sarebbe interessante visitarne la  Farmacia, ma la nostra guida ci informa che non è stata data l’autorizzazione.
Chi è riuscito a visitarla parla di un vasto salone rivestito di legno di noce, diviso in scaffalature e vetrine, nelle quali sono esposte bottigliette e bicchieri, che servivano per contenere medicinali, vetri di Murano e di Boemia o lavorati a Napoli e centinaia di vasi di maiolica. Il salone è abbellito da dipinti del XVI sec. e di epoche successive.
La nostra attenzione viene attratta, sotto l ‘ospedale, da alcuni ruderi: sono i resti delle mura greco-romane che come si sa, correvano  lungo l’attuale via Foria. Le mura, quelle che ancora vediamo in piazza Bellini, dicono gli studiosi, si prolungavano lungo l’attuale via Costantinopoli, giravano a destra in direzione di via Foria, e deviavano all’incirca lungo la attuale via S.Giovanni a Carbonara, scendendo verso la zona di Forcella, dove ci sono tracce ancora visibili in piazza Calenda; da qui si dirigevano verso la spiaggia, che all’epoca si stendeva lungo la strada detta il Rettifilo, risalivano il dislivello di via Mezzocannone, e, lungo la direttrice di P.za S.Domenico e via S.Sebastiano, si ricongiungevano a piazza Bellini.
Proseguendo lungo il percorso, ci si ritrova all’interno della porta S. Gennaro. Questa è una delle quattro. porte della città vecchia rimaste in piedi, insieme a port’Alba, porta Nolana e a quella che io considero la più importante, porta Capuana.
Fin dalle epoche più antiche, in questa zona – via Forìa -, lungo il percorso delle mura, c’era sicuramente un torrione o due, e una porta, dalla quale si snodava uno dei percorsi settentrionali di collegamento con la zona collinare di Capodimonte: sul largo antistante – oggi piazza Cavour -  c’erano alberi di pino, che diedero poi il nome al luogo, di Largo delle pigne.
La  posizione attuale della porta è quella del 1537, quando il vicerè don Pedro de Toledo allargò le mura, e fu cosi chiamata perché portava  alle catacombe di S. Gennaro, sulla collina di Capodimonte.
Il Santo è ricordato anche nell’affresco dipinto sulla porta. Risale al 1656, durante una gravissima pestilenza e fu dipinto da Mattia Preti, pittore calabrese
Mattia , che sapeva usar la spada come e meglio del pennello, era fuggito da Roma, nel 1648,  per avere ucciso in duello non si sa bene se il marito della sua amante o un altro pittore che aveva criticato un suo dipinto.
 Inseguito dalle guardie pontificie, era arrivato alle porte di Napoli, che però erano chiuse da un cordone sanitario a causa della pestilenza. Le guardie napoletane perciò gli avevano impedito l’ingresso in città. Ma Mattia, infuriatosi, tirò fuori la spada, uccise una guardia e violò il divieto di ingresso.
 Ricercato e catturato, fu condannato a morte. La sua fama di artista però gli salvò la vita, la sua condanna infatti fu tramutata in “ lavoro coatto”, fu cioè condannato a dipingere tutte le porte della città che aveva violato. Così tutte le porte ebbero il loro affresco, e quello di porta S. Gennaro è l’unico ancora abbastanza visibile. Ma… sicuramente meriterebbe un restauro.  
Mentre il gruppo prosegue, il mio itinerario finisce qui, per altri impegni personali. Spero di poterlo portare a termine un’altra volta.


sabato 2 giugno 2012

VOMERO




“ Jesce sole, jesce sole, nun te fa cchiù suspirà, siente maje che li’ figliole hanno tanto da prià”
( Canto delle lavandaie del Vomero:  una preghiera al Sole – esci Sole, esci….non farti pregare tanto.. ) Secondo alcuni risalirebbe al XIII° secolo.
Ci si riferisce ai lavatoi pubblici e alle lavandaie, che sembra fossero  di casa al Vomero. Il loro compito,secondo una testimonianza del XVIII° sec.  ” è di lavare i panni, ciò che fanno con tanta esattezza e religione che a rendergli belli e bianchi, invece del venefico sapone, usano la schietta calce viva finamente spolverizzata”.  Lavatoi pubblici esistevano ancora a fine ‘800. .

Non vi è altro luogo in città, come quello degli spalti di castel S.Elmo, da cui si possa avere la visione generale dell’intero golfo di Napoli, del Vesuvio, delle isole, delle catene di monti che formano l’orizzonte, ed avere allo stesso tempo la sensazione meravigliosa di librarsi quasi in aria e cogliere d’un colpo la vista della grande metropoli”. ( M.Rosi, Napoli entro e fuori le mura,N.C. Editori 2003).
S.Elmo è la parte più alta della collina del Vòmero. La collina  fa parte di un più vasto sistema che va da Capodimonte, all’Arenella, ai Camaldoli, fino a Posillipo, e che circonda tutta la città.
Il Vòmero, oggi, è un rione della città, grande e popoloso, insieme all’Arenella e al Vòmero alto, ed è il più giovane, essendo stato fondato appena nel 1885; per questo alcuni sostengono che è soltanto un quartiere residenziale, e soprattutto “ senza storia”. Certo, non è Toledo, né la Vicarìa, non è la città vecchia, ma che sia senza storia mi sembra, come vedremo, una affermazione quanto meno azzardata.
Il Vòmero prende probabilmente il suo nome, secondo gli storici, dal “vòmere”, l’organo principale dell’aratro, e dovrebbe far riferimento alla natura antica del luogo, dove c’erano poderi e masserie, campi coltivati e quindi contadini.
Del Vomero – secondo gli storici - si inizia a parlare appena nel medio-evo, poiché in epoca romana, la collina veniva chiamata “Paturcium”, e in epoca ancora più antica veniva indicata, insieme a tutto il sistema collinare, “Pausilipon”,(Posillipo), - pausilipon -, parola del greco antico che significa pausa, che acquieta, il dolore, che libera dagli affanni.
Tutta la zona era indicata, infatti, per l’aria buona e per l’ ”otium”- il riposo dalla vita pubblica, e la meditazione -: al villaggio del Vomero ci si andava, da sempre e fino agli inizi del XX secolo, per la villeggiatura nei poderi e nelle case di campagna, ma anche per gite giornaliere e per mangiare nelle trattorie paesane..“ Maggio. Na’ tavernella ncopp’Antignano” così scriveva Salvatore di Giacomo, ai primi del ‘900, cosi anche Rocco Galdieri nel  “Vommero sulitario: “ mmiez’a friscura, a ‘o Vommero p’è strate ‘e S.Martino”.  
Ma già  alla fine dell’800, all’inaugurazione del nuovo rione, erano iniziati i danni al paesaggio, sia con la costruzione delle funicolari – Montesanto e Chiaia -,  poi con quella “centrale”, e  con la costruzione delle Vie Scarlatti e via Luca Giordano e le strade vicine; furono costruiti quei palazzi e quelle abitazioni, che oggi definiamo d’epoca, e che ancora vediamo fino a piazza Vanvitelli e oltre, mentre l’Arenella era ancora un villaggio, e la piazza Medaglie d’oro era solo un’ idea.
E’ del dopoguerra, dalla fine degli anni ’50 in poi, l’assalto alle colline, l ‘ occupazione di zone ancora rurali e la costruzione di condomini sempre più grandi, e un vero e proprio esodo di  intere famiglie che, dal centro storico, andarono a popolare, quasi novelli coloni, i nuovi rioni.
La conseguenza fu che, insieme ai nuovi  residenti,  sorsero tutti i servizi e  le varie attività commerciali, e perciò scuole, banche, negozi, bar,uffici comunali, uffici postali, ospedali ed altro..
Come non ricordare il bar “Sangiuliano” a piazza Vanvitelli, e poi anche a piazza Medaglie d’oro, e “Imperatore”, friggitoria, bar e trattoria, in via Scarlatti prima del ponte di via Cilea, luoghi di ritrovo della gioventù dell’epoca,  e il bar Daniele a via Scarlatti, .la famosa pizzeria “al Ragno d’oro”. Non ci sono più, e resistono soltanto l’antica pizzeria ”Gorizia” e la friggitoria “Vomero”, meta degli studenti delle vicine scuole, di impiegati e casalinghe.
Di dieci sale cinematografiche, oggi se ne sono salvate quattro, il Vittoria a piazza Arenella, l’Arcobaleno in via L.Giordano, il Plaza in via Kerbaker, e l’America  su a S.:Martino. Diventato oggi “America hall”. L’Ideal, in via Scarlatti, fu  il primo a sparire sostituito da un grande magazzino, seguito poi dagli altri; mentre un paio, Diana e l’Acacia si sono trasformati in teatri.
Il Vomero voleva diventare il “quartiere bene” della città, e chi andava ad abitarvi riteneva di avere quasi un titolo si superiorità: il “ vomerese” credeva - e ancora oggi crede - di distinguersi dai residenti di altri quartieri,  e raramente “scende” a Napoli. Oggi il rione è una città con una popolazione di circa 700/800 mila residenti, collegata con il centro storico non solo con le funicolari e gli autobus, ma da qualche anno, con la Metropolitana.  Le vie Luca Giordano e Scarlatti costituiscono ancora il centro del Vomero, sono diventate zone pedonali  frequentatissime, con le loro boutique e i caffè.
E miracolosamente, ancora esiste e, soprattutto, resiste agli assalti della “civiltà”, uno spazio verde: è la villa ”Floridiana”, uno dei posti più belli non solo del Vomero, ma della città..
Entrare dall’ingresso di via Cimarosa – ce n’è un altro dalla via Aniello Falcone – significa lasciarsi alle spalle grida, rumori e traffico, e immergersi in un’altra dimensione: piante, prati inglesi ben curati,  e viali alberati degradanti, nel silenzio interrotto soltanto dal canto degli uccelli e dalle voci dei bambini che giocano e delle madri che li accompagnano. Si va giù per la collina fino ad arrivare a una terrazza panoramica da dove si gode lo spettacolo di tutto il golfo, dalla punta della Campanella al Vesuvio, a Capri di fronte, e fino a Posillipo.
Oggi, però, i visitatori  – in verità da un paio d’anni almeno –, sono stati privati di questa visione. Non si può arrivare alla terrazza perché è tutto transennato: “ è vietato oltrepassare le transenne  per pericolo di crollo alberi”.   
Perché si chiama “Floridiana”?  E’ presto detto: si chiama  così dal titolo della duchessa di “Floridia”, la siciliana Lucia Migliaccio, che ne fu la proprietaria.
Ferdinando di Borbone ( 1751/1826), re di Napoli dal 1759, soprannominato “ il re Nasone” o il re “ lazzarone “ era sempre stato molto sensibile al fascino femminile e non si lasciava scappare occasione per portarsi a letto tutte le donne che voleva, senza alcuna distinzione  sociale, popolane, nobili, borghesi. Basti pensare che ebbe 17 figli, di cui 10 però morti ancora bambini. Aveva sposato Maria Carolina d’Austria, figlia di Maria Teresa l’imperatrice, e sorella di Maria Antonietta, la regina di Francia ghigliottinata, insieme al marito Luigi XVI, durante la rivoluzione.
Tra le altre amanti, Ferdinando fu però particolarmente preso dalla signora Migliaccio, duchessa di Floridia, già vedova di un principe e madre di ben cinque figli, e nel 1814, alla morte della regina, egli a 63 anni, volle sposarla morganaticamente.
Il matrimonio morganatico era quella forma matrimoniale, utilizzata a quell’epoca da nobili ma soprattutto da regnanti, con donne di diversa estrazione sociale o comunque non nobili né di livello reale, che non dava diritto né al titolo né alla successione, neanche per i figli.
.Come regalo di nozze, Ferdinando regalò alla sposa una villa posta sulla collina del Vomero, poco più di una casa di campagna, e ne affidò la ristrutturazione all’architetto toscano Antonio Niccolini ( 1772/1850).
Niccolini faceva parte di quella folta schiera di artisti che venivano a lavorare alla Corte napoletana, come erano  stato Vanvitelli, Hackert, e Van Pitloo e altri. Egli aveva lavorato nella natia Toscana e quindi si era trasferito a Napoli dove, tra gli altri lavori, ristrutturò anche la facciata del teatro S.Carlo dopo l’incendio del 1816..
L’edificio fu rifatto in maniera eccellente: “ la facciata dell ‘edificio si apre – a dirla con C.De Seta -  su uno dei più bei panorami della città, la grande scalinata di marmo s’adagia sul crinale della collina e diviene essa stessa parte del paesaggio”. Si racconta che Ferdinando, quando tutto fu pronto, come un qualsiasi innamorato, “ per il suo compleanno invitò la duchessa a far colazione alla villa, e nel tovagliolo le mise l’atto di donazione”( H.Acton, I Borbonr di Napoli).
La villa restò in proprietà privata degli eredi della duchessa fino a quando, nel 1919, fu definitivamente acquistata dallo Stato: il palazzo fu destinato nel 1920 ad accogliere  le collezioni  di ceramiche, porcellane, maioliche e produzioni minori in vetro, smalti, coralli e avori di Placido di Sangro, duca di Martina.
Oggi la villa è ancora proprietà dello Stato – stranamente nessun ministro “creativo” ha pensato ancora di vendersela – ed è aperta al pubblico gratuitamente, fino al tramonto.
Quel che sembra essere immutabile è “Antignano”. Da quanto mi ricordo non è cambiato il reticolo stradale, c’é la stessa pavimentazione in basoli - lastroni squadrati di pietra vulcanica-, con i suoi negozi di alimentari, macellerie, pescherie, salumerie e panetterie, con un vecchio chiosco di acqua e bibite nel largo omonimo –  oggi definitivamente chiuso –, e soprattutto per il suo mercato ortofrutticolo.
Antignano, tanto per smentire quelli che parlano del Vomero come di un luogo senza storia,  ha invece  una storia antichissima.
 Fin dai tempi della fondazione e poi in epoca romana, dalla città  alla collina, e viceversa, si andava a piedi o a dorso di mulo per  vari sentieri:  dalla  salita del Petraio, o dalle rampe di S.Antonio a Posillipo e da lì, attraverso sentieri si arrivava al Vomero, o dai Ventaglieri dietro Montesanto, o dall’Infrascata ( oggi Via Salvator Rosa e Conte della Cerra), o dalla cosiddetta “pedemontana “ che arriva fino a S.Martino , o per la calata S.Franncesco, che scende dalla via Belvedere e arriva fino a Chiaia.
Dalla collina, si poteva proseguire verso  Agnano,  per poi raggiungere Pozzuoli  e Cuma. La via più frequentata era quella dell’Infrascata, ed era detta  “ via per montes”:  fu utilizzata, dicono gli studiosi,  come unica strada fino alla scavo  della “crypta neapolitana – oggi la galleria di Piedigrotta – che consenti di arrivare a Fuorigrotta e quindi immettersi sulla strada costiera di Pozzuoli e successivamente sulla Domiziana , costruita poi nel 95 d.c.dal nome dell’imperatore Domiziano che si originava da Sinuessa ( Mondragone),dalla antica via Appia.
Sulla base di ritrovamenti archeologici, gli studiosi hanno tracciato il percorso “ per montes”: partendo da Neapolis, dalla porta sita più o meno nella zona tra piazza Dante e lo Spirito Santo, il sentiero, costeggiando corsi d’acqua e tra  pini e querce, si inerpicava su per i Ventaglieri o il Cavone giungendo nella zona di piazza Mazzini. Da qui si saliva per l Infrascata, - via Salvator Rosa e via Conte della Cerra - per arrivare nell’ area di piazza Artisti e quindi attraverso Antignano, raggiungeva probabilmente la via Case puntellate – il cui nome è tutto un programma  –, e quindi iniziava la discesa all’altezza della Pigna, per giungere verso la Loggetta, e quindi dirigersi verso Agnano.
Intorno alla strada, sorsero sicuramente case e casali rustici, poderi e masserie, ma anche un mercato, “cauponae”, taverne e luoghi di ristoro  per mercanti e viaggiatori,  militari e corrieri e almeno un villaggio. La strada, dopo qualche tempo, cominciò ad essere chiamata “Antiniana” e così il villaggio “Antignano”:  sull’ origine di questo appellativo sono state fatte molte ipotesi che qui non cito, per brevità. Ma concordo con quella che mi sembra l’unica accettabile, e cioè che la parola Antignano, sulla strada che va ad Agnano deriverebbe da “ ante Agnanum” cioè prima di…Agnano...
Da qui, si racconta,  passò, nell’anno 305 d.c., il corteo che portava il corpo del Santo patrono di Napoli, Gennaro, decapitato a Pozzuoli, per deporlo nelle catacombe omonime, e si racconta anche che il famoso miracolo della liquefazione del sangue sia avvenuto qui per la prima volta.. Per questo motivo sorse nella zona una “ecclesia  S.Ianuarii” poi demolita, e per questo motivo esiste oggi la chiesa di S.Gennaro a Antignano.
Tra bancarelle di frutta e verdure, un occhio attento riesce a vedere un antico edificio con un bel cortile interno. Sulla parete dell’ingresso una lapide costruita dall’architetto regio Antonio de Simone per ordine di  Ferdinando I re delle due Sicilie nel 1818, è dedicata a Giovanni Pontano, poeta, letterato e umanista. Questa era la sua villa, costruita nel 1472. Era nato in Umbria, a Cerreto di Spoleto nel 1429, si trasferì a Napoli, dove oltre all’interesse per la letteratura e la poesia, fu ministro del re  Ferrante d’Aragona, e soldato e precettore dell’erede Alfonso. Nel 1494 si ritirò a vivere qui a Antignano, e  vi morì nel 1503.
Poco distante dalla villa fu posto il dazio del regno;  ancora oggi,  sul muro dell’ antico edificio doganale, dove  oggi c’è una tabaccheria,  c’è una vecchia e scolorita lapide che dice : “Qui si paga per gli regj censali “
Lasciata Antignano, dopo aver percorso, via Luca Giordano e via Scarlatti, superata la piazza Vanvitelli, arriviamo alla funicolare di Montesanto. Siamo in una delle zone più tranquille di questo rione, e la strada che percorriamo – via Morghen e via Tito Angelini – ci porta lì dove avevo iniziato questo racconto, al castello di S.Elmo, e alla Certosa di S.Martino.
A Napoli non c’è angolo di via che non ti sorprenda con un colpo d’occhio originale su monte S. Elmo, su Posillipo, sul Vesuvio. In fondo a qualunque strada della città si scorge a mezzogiorno il Vesuvio e a tramontana S.Elmo”, così nel 1816 Stendhal – nel suo diario di viaggio” Roma,Napoli e Firenze” -, descriveva una  classica cartolina di Napoli, dove appunto appare in alto sulla collina, visibile da ogni parte,  S.Elmo,  cosi come già appariva nella tavola Strozzi, dipinta nel 1472.
Nel 1325, sotto il regno di Roberto d’Angiò, era iniziata la costruzione del  monastero dei frati Certosini, quella che oggi è la Certosa di S.Martino, con il suo magnifico chiostro.
Proprio a fianco del monastero, sulla parte più alta della collina, detta allora di Belforte,  sulle rovine di un vecchio torrione di vedetta , d’epoca normanna, ma forse anche più antica, il re, considerata la posizione strategica del luogo, dispose l’edificazione di un “ palatium sive castrum”, cioè non solo un castello di osservazione e difesa, ma anche un palazzo per abitarvi.
Oltre al castello, sulle pendici  della collina, sorgevano già ville e casali,  e  alcuni palazzi immersi nel verde.
 Insieme a Castel nuovo –o Maschio Angioino -, a Castel Capuano e Castel dell’Ovo, al castello del Carmine, e ai Forti di Ischia e Baia da un lato e ai Torrioni di vedetta di Torre Annunziata e Torre del greco e di Stabia dall’altro, il sistema difensivo del golfo era  completo.
 Come dal nome di Belforte si sia giunti a Sant’Elmo è difficile dirlo, e anche qui tra gli studiosi si è accesa una discussione, peraltro stucchevole, sul nome “Elmo” dal momento che non esiste come nome proprio, né esiste alcun santo con lo stesso nome: sembra che nel posto esistesse una  antica chiesa dedicata a S.Erasmo, ed il luogo veniva probabilmente già indicato  comunemente con questo nome.
Da Erasmo, probabilmente, si arrivò presto a una deformazione nel linguaggio comune, passando prima a Ermo e poi a Elmo.
Ovviamente il castello subì nel corso dei secoli varie ristrutturazioni e, da abitazione e castello, come era stato progettato, diventò una vera e propria imponente fortezza, un esempio di ingegneria e architettura militare cinquecentesca, voluta dal solito Don Pedro di Toledo, l’unico vicerè  che invece di  sfruttare le ricchezze della città e di mangiarsi tutto, pose mano a una seria ristrutturazione di tutta la città, non per niente ancora oggi c’è la via Toledo.
Don Pedro fece allargare tutta la murazione della città, salendo anche sulle colline e raggiungendo S.Elmo. Il castello fu munito di quei bastioni altissimi che vediamo ancora oggi e intorno furono creati fossati e altre fortificazioni e postazioni di artiglieria. Per accedere al piazzale dove oggi c’è l’ingresso della certosa  si doveva attraversare una porta che era inserita nelle nuove murazioni appena erette.
Il castello, così sistemato, risultò assolutamente imprendibile anche in tempi più recenti.
S.Elmo fu ovviamente, fino a qualche anno fa, in uso alle autorità militari, mentre oggi è aperto al pubblico ed è sede di manifestazioni culturali.
Intorno al castello, sulla stradina che porta alla Funicolare, oltre a bei palazzi d’epoca e meravigliose ville, sorgono anche i “ bassi “, quelle tipiche abitazioni napoletane site al piano stradale.
Alla fine di questo breve excursus, non resta altro che affacciarsi dal piazzale antistante l’ingresso della Certosa e ammirare la sottostante città vecchia, distinguere sulla sinistra Capodimonte e la Reggia, riconoscere Spaccanapoli e il tetto verde di S.Chiara, e allungare lo sguardo verso la Stazione e poi lungo la costa, e infine sul Vesuvio, il “ formidabil monte Sterminator Vesevo” ( G. Leopardi, La ginestra). .