venerdì 20 maggio 2011

Porta capuana


Attraversata via Duomo e iniziata la seconda parte del decumano maggiore, via Tribunali, lo vedi già: Castel Capuano, sede da secoli di tutta l’attività giudiziaria del circondario di Napoli.
A sinistra, la strada gira intorno, e trovi la porta Capuana, il più antico, il più bello e importante ingresso alla città. Grandiosa, affiancata da due torri e, su un lato, ancora parte della antica murazione. Lì vicina, la chiesa di S. Caterina a Formello.
Il dipinto di metà ‘800, di Ercole Gigante, pittore napoletano della scuola di Posillipo, fratello del più famoso Giacinto, è una fotografia dell’epoca: la porta mastodontica appare affollata e circondata da banchi di vendita, carri e venditori ambulanti, palazzi appoggiati alle torri laterali e alle mura, panni stesi, sulla destra il campanile della chiesa di S. Caterina e sopra la torre, una specie di tabernacolo.
E così, più o meno, me la ricordavo. Quello che invece vedo oggi, con meraviglia, è un’opera ripulita e imbiancata, forse anche troppo, isolata da ogni lato, in mezzo a un giardinetto, vietato al traffico veicolare, peccato quei cumuli di immondizia.
Ma quel che si vede nel dipinto, e anche oggi, non è l’originale, che, da quanto si sa, non era neanche qui. Così il castello, tutto sembra tranne che un castello. E poi, perché “Captano”?
Per capirci qualcosa bisogna tornare indietro, ma molto indietro, al IV° o III° secolo a. c. e tentare di ricostruirne la storia, tenendo presente che la vita della porta e del Castello sono strettamente collegate.
La murazione originaria della nuova città, peraltro mantenuta intatta per secoli anche dai successivi dominatori, Romani, Goti, Bizantini, Normanni, passava in questa zona, seguendo l’andamento irregolare del terreno, che dall’attuale via Anticaglia – decumano superior – scendeva ( ancora oggi è così), verso quello inferior, cioè via Spaccanapoli e quindi verso il mare. Le mura allora dovevano costeggiare il decumano superiore parallelamente alla attuale via Foria, all’epoca il letto di un fiumiciattolo che veniva giù dalle colline circostanti, ripiegavano nella zona di via Carbonara, passando davanti all’attuale Castelcapuano e arrivavano in piazza Calenda, a Forcella, dove ancora possiamo vederne i resti.
Lì dove c’è il castello, arrivava il decumano maggiore (via Tribunali), che proveniva dalla zona occidentale.
Secondo Bartolomeo Capasso, studioso e archeologo della città, “…..ogni decumano aveva una porta alle sue estremità,……il centrale o maior aveva, ad oriente, la porta che menava a Capua….”.
Capua, città della Campania una volta “felix”, di origine etrusca del IX sec.a.c.; al momento della fondazione di Neapolis, era già, con il suo porto fluviale sul Volturno, un grosso centro commerciale e luogo di incontro tra le popolazioni locali, del nord e sud e del centro Italia e di altri popoli provenienti dal mare che risalivano il fiume.
“ Capuana “ perciò, da Capua o meglio, da una strada che dalla porta di una città di mare serviva per portare merci di ogni genere verso l’entroterra, al più vicino mercato e viceversa.
In verità, prima della conquista romana, non esisteva una vera strada. Nella zona fuori le mura scorreva, secondo gli storici, il fiume detto Clanis, che alimentava una vasta zona paludosa. Da un lato la palude era garanzia di sicurezza in caso di guerra, dall’altro però, in tempi di pace, ostacolava le comunicazioni tra costa e hinterland.
La strada per Capua quindi, all’inizio non era altro che un sentiero (o forse più) che si dirigeva verso l’interno, guadando fiumi e paludi. Solo dopo, arrivati i Romani, che dove andavano costruivano strade per e da Roma, fu costruita una strada che andava verso il sistema collinare di Poggioreale e Caput de clivo (oggi Capodichino), verso Atella e Frattamaggiore.
Per superare i fiumi furono costruiti poi alcuni ponti, e, a pensarci bene, le attuali denominazioni di alcune vie della zona, Ponte della Maddalena e Ponte di Casanova - che non è il famoso veneziano, ma solo una casa nova, una nuova costruzione – ricordano l’esistenza di fiumi e ponti d’ altre epoche.
Anche il nome di “Formello”, aggiunto alla chiesa di S.Caterina, ricorda la presenza di acque nella zona. Formello infatti deriva da formali cioè da forma , termine con il quale venivano indicate falde acquifere, doccioni e canali che portavano acqua alla città.
Tornando alla porta e alla sua ubicazione originaria, se è vero quel che racconta B. Capasso e considerato che il decumano maior è sempre quello, oggi via Tribunali, essa non era dove è oggi, ma in precisa corrispondenza di detto decumano, e inserita nelle mura della città, lì dove poi fu costruito il castello. E, a questo proposito, viene ricordata in genere un’altra testimonianza, di Pietrantonio Lettieri, architetto, del 1484, che partecipò al rifacimento del Castello e allo spostamento della porta. Ma ne parlerò più avanti.
Sicuramente, la porta doveva essere in legno robusto e resistente ad eventuali attacchi portati con l’ariete; per proteggerla, inoltre, c’erano mura e torri di guardia in legno e mattoni di tufo da dove potersi difendere e anche attaccare nemici, all’esterno un fossato.
Dopo la vittoria di Canne, racconta Livio, Annibale aveva idea di prendere la città, sia per riposare sia perché una città di mare offriva maggiori possibilità di ricevere da Cartagine rinforzi e per eventuali spostamenti sul mare.
Venendo giù da Capodichino, si fermò davanti a porta Capuana e inutilmente provò ad abbatterla e superare le mura, grazie anche ai difensori che, malgrado l’inferiorità numerica e la morte del loro generale, riuscirono a respingere gli assalitori. Così Annibale dovette ripiegare su Capua.
La murazione e la porta non subirono cambiamenti nei secoli successivi, con la “pax” romana probabilmente non occorreva neanche più chiuderla né difenderla.
Fuori dalle porte “….per cui si andava a Capua,( ma anche a Nola e a Puteoli), stazionavano veicoli da nolo per comodo di coloro che dovevano recarsi alle città vicine o anche a Roma…”B.Capasso( Napoli grecoromana .pag.5).
Oggi, negli aeroporti, nelle stazioni, si noleggiano aerei, auto, moto, barche, con e senza conducente.
Allora c’erano quelle che oggi chiameremmo carrozzelle, calessi, carri e anche cavalli.
Una testimonianza del I° sec.d.c. di Papinio Stazio, poeta napoletano, ci fa rivivere un viaggio in calesse da Roma a Pozzuoli (40 km da Napoli) che oggi si compie in meno di due ore: “ qui primo Tyberim reliquit ortu, primo vespere naviget Lucrinum”,cioè chi parte all’alba dal Tevere, al tramonto è già a Lucrino, un lago vicino Pozzuoli. Si viaggiava a quel tempo, sulla via Domiziana, inaugurata allora dall’imperatore Domiziano, e che ancora oggi porta questo nome, probabilmente su un carro leggero e veloce, una specie di cabrio dell’epoca detto “cisium”, per non più di due persone.
Tornando alla porta Capuana, leggenda vuole che da qui entrò in città S.Pietro, recandosi a Roma.
I bizantini, mandati dall’imperatore Giustiniano, in guerra con i Goti, entrati in città con uno stratagemma, rinforzarono i bastioni sopra e ai lati della porta costruendo una specie di fortilizio per una migliore difesa.
Ruggero il normanno - come raccontato da F.Capecelatro in “Istoria del regno di Napoli”-, “ raunati poscia suoi soldati andò a Napoli, ove fu lietamente accolto e a sommo onor ricevuto da cittadini come da cavalieri che, fuor della porta detta da Capua, in grosso stuolo erano usciti per incontrarlo”.
Il fortilizio bizantino fu sostituito nel 1154 con una costruzione collocata a cavallo delle mura, allo sbocco del decumano maggiore, dal figlio di Ruggero, Guglielmo: è questa, probabilmente, la data di nascita del castello che prese il nome dalla porta, Capuano.
Costruito in stile tipicamente medievale, costituiva un baluardo imprendibile; fu nel tempo modificato e ampliato e qualche volta utilizzato come residenza reale.
Ma in particolare fu destinato, quasi subito, a sede del governo e della amministrazione della giustizia, che era presieduta dal Vicario del re, per cui fu chiamato tribunale della Vicaria.
(Ascanio Luciani,la piazza della Vicarìa,con castel Capuano ai tempi di Masaniello,1647).
La sua funzione di giustizia fu confermata anche dai successivi dominatori, gli Angioini, che però, per la loro residenza, si fecero costruire il Castel nuovo, popolarmente detto il maschio angioino.
“ Currite, hanno miso n’u masto ‘ncoppa a colonna…..cu’o culo a fora…”. ( correte, hanno messo un tale sopra la colonna… con il culo scoperto). Era la voce che – così si racconta - che si spargeva per tutta la città, annunziava la pena cui era stato sottoposto chi non pagava i debiti.
Esisteva, davanti al Castello, una antica colonna romana, alla quale il debitore condannato doveva essere legato abbracciato, con i pantaloni completamente calati e cosi, tra gli squilli di tromba del banditore, doveva proclamare per una o più ore, di cedere ogni suo avere al creditore.
Il castello subi un grande ristrutturazione, perdendo ogni connotazione medievale e comunque di castello, quando il vicerè don Pedro di Toledo, che abolì finalmente anche quella pena della colonna, decise di trasferirvi tutti i tribunali e le corti di giustizia esistenti in città. Le funzioni giudiziarie sono così rimaste fino ai giorni nostri, e quel che vediamo, sia pure attraverso tutti i restauri successivi, è il risultato della trasformazione del XVI sec, cosi come appare nel dipinto seicentesco di Ascanio Luciani.
Adesso posso tornare anche alla porta e al suo spostamento, che avvenne verso la fine del ‘400. Pietrantonio Lettieri, che avevo già nominato, architetto,nel 1484, scriveva:” la porta capuana stava sopra lo fosso di ditto Castello ( cioè castel capuano ) corrispondente alla sua mità, et lo sopradetto Castello veniva stare mezo dentro la città, et, mezo fora, sincome se usava anticamente; quale porta, ad tempi nostri è stata derocchata, et in quel lloco nci è hoggi una cappelluccia nomine Sancta Maria”, oggi scomparsa.
La porta era stata quindi già trasferita dal suo sito originario a dove la troviamo oggi e ricostruita su disegno dell’architetto Giuliano da Maiano. Fu spostata li per ordine di re Ferrante di Aragona, che aveva deciso di allargare le mura della città a causa dell’aumento della popolazione cittadina. Il vecchio castello fu rinchiuso dentro le mura, di cui si vedono ancora i resti sussistere su un fianco della porta e le due torri a difesa, che pure vediamo nel dipinto di Gigante, e che furono soprannominate Onore e Virtù.
Anche sulla nuova porta Capuana, il pittore Mattia Preti aveva eseguito un affresco che oggi non esiste più, e che, come si narra, raffigurava i santi Michele, Gennaro , Rocco e Aniello in atto di preghiera alla Vergine.
Mattia Preti, bravo con il pennello ma bravissimo con la spada, era fuggito a Napoli da Roma dopo aver ucciso un nobile romano in duello. Arrivato proprio a Porta Capuana, gli era stato vietato l’ingresso in quanto la città era isolata da un cordone sanitario a causa della peste; il Preti con alle calcagna la milizia pontificia, forzò il blocco ferendo o ammazzando un soldato di guardia e fu arrestato e condannato a morte.
Ritenuto tuttavia “ excellens in arte”, cioè bravo pittore, il tribunale della Vicaria, aveva mutato tale condanna in obbligo di affrescare con storie di carattere religioso e di fede cristiana, e gratuitamente, tutte le porte della città. ( Porta Capuana, oggi)





notizie galeotte

Le carceri italiane in genere fanno notizia per il degrado, per le emergenze e il sovraffollamento, e purtroppo, anche per le morti, non proprio naturali, di persone in stato di detenzione.
Tuttavia spesso capitano anche notizie “curiose”.
Titolo di un giornale di una città che non nomino: “ Tentano di rimanere incinte con il seme donato dai detenuti”, sottotitolo: “ Gli uomini lo lanciano dalle finestre, racchiuso in un guanto, alle donne in attesa durante l’ora d’aria”.
E cosa è successo?
Negli istituti penitenziari , detenuti uomini e detenute donne sono ospitati in reparti separati e, generalmente, non possono avere contatti tra loro.
Ma nel carcere di cui sto parlando, un vecchio edificio dei primi del ‘900, un punto di contatto c’è, il cortile dove, in orari diversi maschi e femmine fanno “l’ora d’aria, sul quale affacciano le finestre dei distinti reparti.
Orbene, quando le donne sono nel cortile, l’uomo lancia dalla finestra un guanto di gomma o un altro piccolo involucro, di quelli in uso, contenente il proprio liquido seminale diretto alla detenuta interessata, che grazie alla collaborazione delle altre che distraggono le agenti di sorveglianza, lo recupera e corre in bagno.”per introdurre il materiale organico nel loro corpo – così si esprime chi ha scritto l’articolo - , le donne si sarebbero servite di cannule trasparenti ricavate smontando penne tipo “Bic”, utilizzate poi a mo’ di siringa”.
E perché questo traffico ? Non certo per un improvviso e irrefrenabile desiderio di maternità, ma perché alle donne incinte verrebbero concesse misure alternative alla detenzione.
Da quanto si è appreso, sarebbe stato trovato anche un apposito manuale con le istruzioni, predisposto da due detenuti, un uomo e una donna, ovviamente, già individuati, e distribuito in tutte le camere; non viene detto, ma immagino che dietro ci sia anche qualche interesse di carattere economico o d’altro tipo. E immagino che da quelle finestre al cortile si verifichino anche altri tipi di contatti, comunicazioni e lanci di altri oggetti. In quel carcere questo problema è antico, ma come risolverlo? “Abbiamo proposto di installare alle finestre reti a maglie fitte, tipo zanzariere, ma non è stato possibile, sia per mancanza di soldi sia perché alcune disposizioni non lo consentono”, così il direttore del carcere. Comprendo l’imbarazzo e capisco anche che non esiste una soluzione accettabile, ma non si possono trasformare le camere in pollai.
L’edificio che ospita il carcere è una antica struttura al centro città, circondata da condomini privati e da strade trafficate. Quello che non riesco a capire è che per circa dieci anni, da quanto è dato di sapere, sono stati spesi miliardi di vecchie lire per ristrutturarlo e sistemarlo, ma non si è risolto quello che era un antico problema, delle comunicazioni fraudolente interne. Soldi pubblici buttati per una semplice operazione di facciata.
Tanti anni fa, uno spazio adiacente al carcere si era liberato ed era stato espropriato per pubblica utilità. Dopo un po’, in quello stesso spazio, è sorto un parcheggio privato di otto piani.

castello aragonese




Tutte le sere alle sei, più di una barca parte per Ischia, vogliono dieci carlini,se ne danno tre o cinque al massimo.
S’ arriva alle sette del mattino: andare a Casamicciola, prendere alloggio da un contadino; gli si danno due o tre carlini al giorno, la moglie cucina; prendere un asino e andare a Forio,città di ottomila anime; il giorno dopo andare alla villa che sovrasta la cittadina, fino a che non ci si trova dirimpetto Capri.
Stendhal,” Roma,Napoli e Firenze”,1817.


A Ischia ci si va per fare i bagni, quelli di mare, ma soprattutto quelli termali: sono note dall’antichità le sue acque termali, riscaldate dalla continua attività dei focolai vulcanici sotterranei .
Ischia è dominata dall’Epomeo, un vulcano di circa 800 metri. sul livello del mare. Secondo il mito degli antichi colonizzatori, Zeus, il padre di tutti gli dei, avrebbe imprigionato il gigante Tifeo, che con i suoi contorcimenti avrebbe provocato terremoti e eruzioni. Sull’isola, chiamata Pitecusa, era già attivo, intorno al IX sec.a.c., un emporio commerciale da coloni Eubei, provenienti secondo lo storico e geografo Strabone provenivano dalla città di Calcide ed Eretria. Egli scrive anche che a causa di terremoti e eruzioni e di “acque bollenti”, derivava il mito” secondo cui Tifeo giacerebbe sotto quest’isola; quando egli si agita farebbe venir su le fiamme e le acque e talvolta anche piccole isole con getti d’acqua bollente”. Sono proprio questa acque che poi hanno fatto conoscere l’isola e ne hanno fatto la fortuna di centro termale.
Arrivando a Ischia dopo aver superato Procida e l’isolotto di Vivara, il visitatore attento può scorgere, sulla sinistra, su una enorme roccia sorgente dal mare, confusi tra roccia e vegetazione, torri, merli e cupole.
E’ il castello Aragonese.
La sua è una storia millenaria: inizia, secondo gli studiosi del sito, nel V sec. a.c, nell’epoca in cui la penisola italiana e il Mediterraneo occidentale erano dominati da Etruschi e da Cartaginesi, ed entrambi si contendevano le colonie greche della Campania e della Sicilia .
L’isola, che all’epoca veniva chiamata Pithecusa, secondo alcuni l’isola delle scimmie da “pìthekos”, scimmia, fu quasi subito conquistata dallo Stato più importante della zona, Cuma.
Nel V sec. 474 a.c., in una battaglia navale nello specchio di mare compreso tra Cuma e l’isola , Gerone I, signore di Siracusa, chiamato in soccorso dai Cumani, inflisse una pesante sconfitta alla flotta etrusca e insediò un presidio sull’isola.
Fu in questa occasione che, secondo la tradizione, su uno scoglio emergente dal mare per oltre 100 metri, Gerone fece costruire una fortezza.
Probabilmente, l’originale murazione, di cui non resta nulla, era in blocchi di tufo, e seguiva l’andamento irregolare del luogo, mescolandosi e confondendosi con la roccia .
Alla fortezza si accedeva via mare, per una scala esterna scavata nella pietra , ancora oggi visibile in parte, poiché lo scoglio era separato dall’isola maggiore e non c’era alcun ponte di collegamento.
Nella cosiddetta casa del Sole, una antica costruzione posta all’interno del castello, sono oggi esposti, oltre a opere di arte moderna, resti di secoli passati, e si ammirano pregevoli strutture architettoniche risalenti a diverse epoche.
Con la progressiva crescita di Neapolis e la decadenza di Cuma, Pithecusa e le altre isole vicine entrarono nell’orbita della città emergente e ne seguirono le vicissitudini e la storia.
L’antico nome fu poi sostituito con Aenaria, termine più vicino al latino, e successivamente da Iscla, da cui Ischia, che secondo i glottologi, sarebbe il risultato della evoluzione della parola latina “insula”.
Tutte le dominazioni successive, Romani, Goti, Bizantini, Normanni, Svevi, Angioini apportarono alla fortezza di Ischia modifiche e trasformazioni secondo le diverse esigenze e diversi stili architettonici, allargandone il perimetro a tutta l’area disponibile, di circa 50.000 mq., che si avviò a diventare una vera e propria cittadella.
I maggiori interventi furono effettuati nel XIV sec. con gli Angioini, le mura furono ricostruite in stile romanico tipico dell’epoca, con alte torri merlate: una antica torre di avvistamento è ancora oggi visibile.
Il castello assunse quindi il carattere di cittadella fortificata, pronta ad accogliere la popolazione del borgo sottostante e anche dell’isola, per difendersi dalle incursioni dei pirati saraceni; all’interno sorgevano abitazioni, servizi e soprattutto chiese, come era nella mentalità degli Angioini, che avevano riempito anche la capitale del regno, di chiese e conventi.
Venne costruito il Maschio, la torre più alta, per ospitare il re e la famiglia, e naturalmente la sede vescovile . Risale all’epoca angioina , circa il 1300 , quello che resta della cattedrale dell’Assunta nello stesso stile romanico, sopra la vecchia cappella normanna, che venne trasformata in cripta gentilizia. La cattedrale era di due piani: quella superiore presentava tre navate di stile romanico con sovrapposizione di stile barocco, le due laterali coperte con volte e a crociera, fu distrutta dai bombardamenti effettuati dal mare dagli inglesi nel 1809 durante il periodo murattiano.
All’inizio della navata c’è il fonte battesimale con vasca del tardo rinascimento sostenuta da tre cariatidi. Nella cappella a destra del presbiterio c’è una antica tavola lignea raffigurante la Madonna della libera, della seconda metà del sec. XIII, con le mani protese che arresta la lava per l’eruzione del 1301.
Fu in questo periodo che lo scoglio e il Castello, vennero collegati all’isola maggiore con un ponte di legno di circa 200 metri, e fu creato un piccolo porto per l’attracco delle navi.
Da quel ponte, il borgo sottostante prese il nome di Ischia-Ponte, come ancora oggi si chiama.
Del XIV sec. era l’abbazia dei monaci Basiliani, di cui si nota l’ingresso ad archi gotici.
Con Alfonso d’Aragona e i successori, dalla metà del XV sec., il Castello, che fu sede dell’ultima resistenza angioina, iniziò il periodo del suo massimo splendore, tant’è che, ancora oggi, viene chiamato “aragonese” .
Era un periodo di grandi mutamenti: nel campo militare il perfezionarsi e lo sviluppo di nuovi armamenti, le armi da fuoco di grosso calibro, avevano messo a dura prova gli architetti dell’epoca, per la facilità con cui venivano abbattute mura che avevano resistito per secoli.
I migliori ingegneri e architetti dell’epoca dovettero studiare e realizzare nuovi schemi architettonici per la difesa e l’offesa, con mura e bastioni capaci di resistere a un bombardamento.
Perciò, il vecchio castello angioino , caratterizzato da alte torri costruite per difendersi da assalti con scale e armi da lancio, non era più adatto, e fu completamente trasformato.
Furono perciò costruite torri cilindriche di grande diametro e murazioni massicce, dove era possibile porre cannoni e mortai, e con merli più grandi per difendersi da proiettili e schegge.
All’interno, vennero costruiti e rinnovati vari edifici, opifici, magazzini per rifornimenti, forni per il pane, cisterne e fu sistemato l’arsenale.
La rocca, che era stata da sempre imprendibile, lo divenne ancora di più.
Ne seppe qualcosa Carlo VIII, il re di Francia che nel 1494 era venuto a conquistare il regno di Napoli, ma dovette arrendersi davanti Ischia. Dell’episodio troviamo traccia nell’Orlando Furioso, di L.Ariosto, nel canto XXXIII, dove riporta anche la leggenda di Tifeo: “ vedete Carlo VIII che discende dall’Alpe e seco ha il fior di tutta Francia: che passa il Lirio e tutto il regno prende, senza mai stringer spada o abbassar lancia. Fuorché lo scoglio, ch’a Tifeo si stende su le braccia,sul petto e sulla pancia….”.
Vennero costruiti e rinnovati edifici religiosi, come la chiesa di S. Maria delle grazie a strapiombo sul mare, ampliata su precedenti cappelle verso il 1500, destinata alla congrega dei pescatori dell’isola .
La cattedrale fu rinnovata insieme alla sottostante cripta gentilizia; ancora oggi offre, malgrado gli scempi operati dal tempo e dagli uomini, alcuni spunti di interesse artistico che possono illustrarci gli stili ornamentali diffusi in area napoletana nella prima metà del 1600.
Il ponte di collegamento, in legno, venne sostituito con uno in muratura .
La padrona di casa fu per lungo periodo Vittoria Colonna, dal 1501 al 1536, moglie del governatore dell’isola, e poetessa , che riunì intorno a se un circolo culturale frequentato da poeti e letterati , come Iacopo Sannazzaro e Bernardo Tasso , Ludovico Ariosto e artisti come Michelangelo Buonarroti. Da qui nacque l’ispirazione dei versi: “ quando io dal caro scoglio guardo intorno la terra e ‘l mar, ne la vermiglia aurora, quante nebbie nel ciel son nate alora scaccia la vaga vista, il chiaro giorno”.
Nel periodo del vice –regno spagnolo , con il vicerè don Pedro de Toledo, insediatosi nel 1533, vi furono grosse ristrutturazioni, sia dal punto di vista urbanistico della città di Napoli, sia dal punto di vista difensivo, che coinvolsero anche tutte le piazzeforti del golfo, quella di Baia e Bacoli, quella di Procida e il castello di Ischia, come oggi lo vediamo.
Nel 1575, venne fondato sulla cittadella, il Convento delle monache clarisse, di cui oggi è visitabile il giardino e il cimitero.
Nel cimitero delle monache sono visibili gli scolatoi, cioè seggioloni in muratura sui quali venivano deposti, seduti, i corpi morti delle monache; si racconta di una macabra pratica di lenta decomposizione della carne, e della raccolta degli umori in appositi vasi, mentre solo dopo gli scheletri venivano ammucchiati nell’ossario.
Il convento fu chiuso nel 1810, durante la dominazione francese, dal re Gioacchino Murat e così finirono anche quelle raccapriccianti operazioni funebri .
Rilevante la chiesa dell’Immacolata, costruita su una precedente cappella del XV sec, presenta una pianta a croce greca, e la cupola è tanto imponente da essere notata da tutta la città di Ischia; la facciata esterna e le pareti interne sono oggi semplicemente intonacate.
Con l’avvento dei Borbone, il castello, passato al Demanio del regno e svuotato degli ultimi abitanti, fu trasformato in carcere per detenuti comuni e, successivamente, nel 1850, politici: ancora oggi il tragitto turistico indica un passaggio per “il carcere borbonico”, dove sono ancora visibili spioncini e cancelli.
Con l ‘ unità d ‘Italia, si continuò ad utilizzare il Castello come carcere, fino alla vendita a privati Oggi molti ambienti sono sottoposti a restauri e vengono utilizzati per attività culturali.


Bibliografia
TCI 2005: Napoli e dintorni
Valerio M.Manfredi : i Greci d’ Occidente ,Mondadori 1996
M.Torelli : storia degli Etruschi , Laterza 2001
V. Gleijeses : la Storia di Napoli , SEN 1974
C.De Seta :Napoli , Laterza 1981
S.E.Mariotti : Il Castello d’Ischia, Imagaenaria 2007(I°ed.1915)
L.Braccesi e F.Ravi, La Magna Grecia, Il Mulino 2008

martedì 17 maggio 2011

storia e storie





Perché “Storia e storie” e perché, a margine, un dipinto di una città facilmente riconoscibile da tutti, un’altra immagine rappresentante la giustizia e la legge ( particolare di un mosaico di M.Sironi, nel palazzo di giustizia di Milano), infine, una foto del mio gatto.
“Storia” perché chi scrive è da sempre appassionato e studioso dilettante di storia, soprattutto antica. In particolare, essendo poi nato in quella città illustrata nel dipinto, nella parte vecchia, nell’antico decumanus maior, non poteva non interessarsi che delle vicende di Napoli, fin dalle origini. La foto mostra la statua del dio Nilo posta all’inizio della via con lo stesso nome, che era uno dei cardini più importanti ai tempi antichi: il nome e la statua del Nilo perché abitata da immigrati egiziani.
Costretto ad andar via per lavoro e a viverne lontano, in questa città torna spesso e pensa ogni tanto di tornarci a vivere, ma è solo un’idea o meglio, un sogno, di impossibile realizzazione. Ciò, come dice Ermanno Rea in “ Napoli Ferrovia”: “ non toglie che io possa sognare di tornare a vivere a Napoli. Come no? Difatti lo sogno in continuazione”.
Laureato in Giurisprudenza, vinse un concorso presso il Ministero della Giustizia, come direttore penitenziario: ruolo che ha svolto per più di 30 anni e che lo ha portato a interessarsi e conoscere le problematiche non solo delle “patrie galere”, nei tempi peggiori delle rivolte, delle carceri speciali, delle emergenze, ma anche storie umane di errori, cadute e di riabilitazione, e, in generale della giustizia e dei processi penali ( carceri e giustizia che, da sempre, ma mai come oggi sono temi bollenti), della gestione delle risorse economiche e umane, e anche amministrative e burocratiche, di problematiche sociali, economiche e sindacali.
Perciò si troveranno “storie” di carcere e di giustizia.
E si troveranno anche racconti e notizie di amici a quattro zampe.

lunedì 9 maggio 2011

S.Angelo in formis





Da tempo , il mio amico Antonio mi invitava ad andarlo a trovare , perché voleva portarmi a visitare una antica chiesa , bella e interessante , a suo dire , sia per la storia e sia per l’ arte , situata nella zona di Capua .
Alla prima occasione , perciò , in una giornata grigia e un po’ piovosa , con un treno locale da Napoli , che , contrariamente a quanto si potrebbe pensare , è partito ed è arrivato in perfetto orario , sono arrivato in una stazioncina , persa in mezzo alla campagna .
Si chiama Falciano del Massico , centro agricolo noto per la produzione di latticini (le mozzarelle di bufale), conosciuto già ai tempi antichi per la produzione del rinomato vino Falerno, tanto caro ai Romani. Caro e anche costoso, se il poeta Orazio lamentava di non poterlo offrire ai suoi ospiti, quando invitava nella sua modesta casa, il ricco Mecenate .
A pochi chilometri, verso il mare, ci sono le cittadine di Cellole e di Mondragone, quasi disabitate di inverno, ma con una popolazione moltiplicata d’estate, come tutte le località di mare . Più avanti c’è Gaeta, da un lato il Volturno e da un altro il Garigliano. Non si può fare a meno di ripensare alla battaglia combattuta qui nell’ottobre 1860, tra truppe garibaldine e piemontesi e i resti dell’esercito borbonico, e all’assedio di Gaeta, episodio volutamente dimenticato o mal raccontato dai libri di storia.
Arriviamo a S. Maria Capua Vetere e a Capua, dove vediamo antichità e ruderi d’ogni tipo, archi, mura, ponti e soprattutto il bellissimo anfiteatro.
Siamo nella Campania, una volta “felix”, a Capua, antica città etrusca, rinomata nell’antichità per le rose e per i gladiatori: non a caso ebbe inizio qui la rivolta del gladiatore più famoso, Spartaco. Affiorano ricordi classici, gli otia di Annibale, che mise l’accampamento proprio lì, dove ci stiamo recando ,sotto il monte Tifata; il “ placito capuano “, quel documento che viene comunemente considerato l’atto di nascita della lingua italiana.
In pochi minuti, raggiungiamo un minuscolo centro agricolo, tutto in salita, situato ai piedi del monte Tifata : S.Angelo in Formis .
Qualcuno si chiederà subito: perché in “ Formis “? Che significa? La parola latina “forma“ - tra i vari significati attribuiti - indicava le falde acquifere o i doccioni, cioè tubi o canali per le acque, perciò acquedotti, allora esistenti nei pressi del monte Tifata: ”in o ad formas“ si riferirebbe, perciò, alla posizione del paese “ presso “ quegli acquedotti o sorgenti che portavano l ‘acqua, dal monte fino a Capua .
Arrivati a un incrocio, giriamo a sinistra e attraversiamo una porta, detta Arco di Diana .
Oltre l’arco, in un solitario piazzale, affacciato sulla pianura circostante, troviamo la chiesa di S. Michele Arcangelo, un bella costruzione romanica, con un portico ad archi acuti e fiancheggiata da un campanile a bifore.
Prima del tempio cristiano, su quello stesso posto, ne esisteva uno pagano del I° sec. A.c., intitolato alla dea Diana Tifatina, dal nome del monte, detto anche ad arcum Dianae : così si spiega anche il nome della porta che prima abbiamo attraversato.
Come accadded dappertutto, al momento del trapasso dalla religione pagana al cristianesimo, sull’antico tempio andato in rovina, fu edificata la chiesa cristiana, utilizzando i vecchi materiali preesistenti , marmi , colonne ecc.
La sua edificazione risale, secondo gli storici, al IX sec.: costruita in stile romanico, per conto di monaci benedettini, la sua gestione subì varie peripezie fino al 1073.
In quell’anno, Riccardo Drengot, principe normanno di Capua, la restituì definitivamente a Desiderio, potente abate della Abbazia di Montecassino, che la riedificò nelle forme che vediamo oggi .
La facciata è costituita da un portico di cinque arcate, sostenute da quattro colonne, due di granito e due di marmo cipollino, con capitelli di tipo corinzio.
In fondo all’arcata mediana c’è il portale di marmo bianco, classico, fiancheggiato da due colonne corinzie.
Sopra e intorno al portale si notano affreschi di grande interesse storico e artistico: una Madonna orante e, nelle lunette, la Tentazione di S. Antonio abate e S. Paolo eremita nella grotta, che a dire degli studiosi sono del XII e XIII sec.
Entrando si notano subito le colonne – 14 – che dividono le tre navate; esse sorreggono archi a pieno centro
L’interno si presenta oggi come un cantiere, per i restauri in corso: sul lato destro, infatti, è montata una specie di impalcatura che nasconde la parete. Anche il pavimento a mosaico appare malridotto
Sulla sinistra si vedono una acquasantiera formata, mi sembra, da un capitello medioevale, e il fonte battesimale ricavato da due colonne scanalate.
Un pulpito di marmo semplicissimo, è situato sulla sinistra, a lato dell’altare maggiore .
A destra, in fondo, entriamo nella sagrestia, ma è tutto sottosopra, per i lavori di restauro.
A sinistra invece, in una saletta, è sistemata ora una cappelletta, con un piccolo altare per le funzioni religiose, e alcune statue in legno, molto interessanti.
Le pareti della basilica sono tutte piene di affreschi, ma tutti hanno bisogno di restauro, alcuni sembrano persi, altri sono poco visibili: sulla parete interna della facciata, il Giudizio universale, in 5 ordini orizzontali, sulla navata sinistra l’uccisione di Abele, Caino che fugge, Noè, e altre.
Sopra l’altare tutte scene della vita di Cristo, nell’abside Cristo Pantocratore, circondato dai simboli dei quattro evangelisti.
Secondo studiosi dell’arte, gli affreschi sono stati avviati poco dopo la fondazione dell’edificio, nella zona absidale, e successivamente, estesi alle altre pareti.
L’abate Desiderio – futuro papa con il nome di Vittore III - aveva fatto ricostruire completamente l’ abbazia di Montecassino, nel 1071, ornandola di preziosi affreschi e mosaici. Egli fece venire da Bisanzio alcuni artisti, in particolare mosaicisti, poiché, si legge nella Cronica Monasterii Casinensis, da troppi anni, “ i maestri latini avevano tralasciato la pratica di tali arti “.
Questi artisti influenzarono, con il loro stile e la loro scuola, anche le botteghe di artisti locali . Costoro, chiamati a affrescare le pareti di S. Michele Arcangelo, dallo stesso Desiderio, si ispirarono a quei modelli bizantini presenti all’epoca a Montecassino .
Desiderio è nominato nella scritta latina presente sul portale: “ salirai al cielo se avrai conosciuto te stesso, come Desiderio che, ripieno di santo Spirito e osservando la legge, edificò un tempio a Dio per ottenere una ricompensa eterna “.
Gli affreschi, che erano stati ricoperti con stucco nei primi anni del ‘700, furono riscoperti solo nel 1868, e già restaurati. Da quel che ho visto, i restauri continuano.
Anche nel campanile, sono incastrati elementi risalenti al tempio pagano; nelle bifore si nota subito la colonna centrale di stile classico. Mi fa venire in mente il campanile romanico della chiesa della Pietrasanta, in via Tribunali, a Napoli, che presenta le stesse caratteristiche e fu costruita, anche lì, sul vecchio tempio dedicato alla dea Diana.
Dal piazzale antistante la basilica si coglie la visione di tutta la pianura del Volturno.
Anche questo paesino ha partecipato alla unificazione dell’Italia. Proprio qui , infatti , all’entrata di S.Angelo, si verificarono violenti scontri, nei quali fu coinvolto lo stesso Garibaldi.
Si racconta che egli, mentre cercava di raggiungere le sue linee, percorrendo in carrozza la strada tra S.Maria Capua vetere e S.Angelo, fu attaccato dai soldati borbonici che abbatterono cocchiere e cavallo. A stento era riuscito a salvarsi, correndo a piedi verso le proprie linee.
C’è un dipinto di Gerolamo Induno che ritrae il Generale mentre osserva la pianura del Volturno e Capua. Sulla sinistra del quadro, in basso, si può notare S.Angelo in formis. C’è anche un piccolo cimitero abbandonato, dei garibaldini. Quello che non capisco è perché non c’è neanche un posto per i vinti, per quei soldati borbonici che morirono nello stesso luogo, per difendere un’altra idea.



Per chi vuole saperne di più :


Q .Orazio Flacco , i Carmi .
Calonghi , Vocabolario latino-italiano
O.Morisani ,Gli affreschi S.Angelo in formis, Napoli 1962
Barry Strauss , La guerra di Spartaco , ed Laterza
Jerome Carcopino , la vita quotidiana a Roma , ed. Laterza
Gianni Granzotto , Annibale , ed. Mondatori 1980
Claudio Magazzini ,Breve storia della lingua italiana ,ed . Il Mulino
Pier Giusto Jaeger , Francesco II di Borbone , l’ultimo re di Napoli , ed Mondatori , le scie 1982
Gigi di Fiore , I vinti del Risorgimento , ed . Utet 2004

attualità

Fare il mestiere di direttore di carcere è difficile e pieno di responsabilità, richiede impegno quotidiano a tempo pieno, conoscenze giuridiche, psicologiche, amministrative e contabili, molta pazienza, capacità di organizzazione, disponibilità e reperibilità continua, a tutte le ore e in tutti i giorni; e non ti lascia il tempo per fare altro.
Almeno, era così quando quel lavoro lo facevo anche io.
Eppure c’è uno bravo, che riesce a fare, contemporaneamente, anche altro.
L’uomo, ambizioso, arrivista, arrampicatore sociale, ex fascista, già sindacalista contro i suoi stessi colleghi, quando parla non ti guarda dritto negli occhi ma di traverso e sembra aver ingoiato un vocabolario, mi sostituì anni fa alla guida dell’istituto che avevo diretto, quando lasciai quel lavoro.
Immediatamente mi fu interdetto l’ingresso, per paura che la mia presenza gli facesse ombra, e per qualche anno mi addossò ogni disfunzione e malfunzionamento, dichiarò alla stampa che la mia gestione era basata sull’ effimero, mentre lui avrebbe badato al concreto, mi negò perfino una fotocopia, a mie spese, di documenti necessari alla difesa in un processo cui ero sottoposto, manovrò per ritardare o non farmi riassumere nell’Amministrazione, si faceva passare per direttore, chiedendo sconti per se e famiglia anche quando andava dal barbiere.
Ebbene questo personaggio, da anni è tesserato a un partito politico ovviamente di destra, è stato assessore provinciale e ora è assessore comunale in scadenza, è vicecoordinatore regionale del partito e del laboratorio politico, portaborse del deputato locale del partito, attualmente sta partecipando alla campagna elettorale per le elezioni amministrative come candidato a presidente della Provincia, presente ogni giorno nei gazebo elettorali, è infine anche sindacalista, in verità con scarso seguito. Pare che, nel tempo libero o di notte faccia anche il direttore del carcere.
Poiché la normativa attuale prevede sì l’aspettativa - art.53 del DPR 24/4/1982 n.335 -, ma a domanda dell’interessato, che normalmente si presenta, se uno ha un minimo di correttezza o la si fa presentare. Ma se uno non ha correttezza istituzionale né rispetto delle minime regole di moralità ovvero se neanche dirigenti ministeriali compiacenti, ti invitano a far domanda, che succede ? Si fa tutto contemporaneamente, senza abbandonare nessun incarico. Ma siccome il nostro ha paura che qualche collega chiamato a sostituirlo gli rubi il posto o trovi questioni strane, o teme di perdere l'alloggio, che è gratuito, da intelligente e furbo cosa ha fatto? Ha chiesto il part-time, che ovviamente gli à stato concesso da megadirigenti incapaci. Sembra che, bontà sua, e bontà dei dirigenti ministeriali, ora sia in aspettativa per la campagna elettorale.
Deve essere veramente molto, ma molto bravo, preparato in tutto, quasi eccezionale.
Ma può un dirigente pubblico, peraltro in un settore così particolare, il cui contratto di lavoro è pari a quello di un prefetto o di un dirigente della polizia o di un magistrato, fare anche il dirigente di un partito politico, assumere incarichi politici e fare anche campagna elettorale, senza abbandonare almeno provvisoriamente, come fan tutti, quel lavoro per cui è pagato dallo Stato?
E quanti stipendi prende? La Corte dei conti, così pronta e attenta, ha svolto qualche accertamento? Può un dirigente dello Stato, e in un settore che riguarda la sicurezza, fare il part-time? L’attività partitica non è in conflitto con l’attività della pubblica amministrazione?
L’art. 51, 3° comma della Costituzione afferma che chi è chiamato a funzioni pubbliche ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro.
Perciò è stato creato l’istituto della aspettativa anche senza assegni, che il datore di lavoro, pubblico o privato, è tenuto a dare, a domanda.
La Costituzione, art. 97, dice che la Pubblica amministrazione deve assicurare l ‘imparzialità; l’art.98 dice che i pubblici impiegati sono a servizio esclusivo ( cioè tempo pieno) della nazione e che” si possono stabilire per legge limitazioni al diritto di iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari e i funzionari e agenti di polizia, per i diplomatici”.
La legge 27 luglio 2005 n.154. e il successivo decreto legislativo 15/2/2006 n. 63 che regola l’organizzazione dei dirigenti penitenziari non parlano di questo, ma è assolutamente implicito il richiamo alle norme di quelle altre categorie, in particolare alla lege 121/81 per la polizia di stato.
Lo dice lui stesso peraltro in una intervista rilasciata al giornale locale: “…Se non vengo eletto, infatti scatta la norma che riguarda i dirigenti delle forze dell’ordine e che prevede,…..il trasferimento nella sede analoga più vicina,…… per un minimo di tre anni..”. Mai previsione fu più azzeccata: non eletto, si viene a sapere che è stato stranamente, dopo anni, trasferito alla sede libera più vicina. Adesso però si legge che il batrace annunzia ricorsi e accampa le scuse più stravaganti per far "ripensare" il provvedimento. Il bello è che lo sapeva a cosa andava incontro e che lui stesso fece di tutto, da sindacalista e politico, per far passare una legge che parificava la categoria dei direttori a quella della Polizia di stato. Ora, se sai a cosa vai incontro, sapendo di non avere alcuna speranza di essere eletto in un partito che non ha numeri, o pensi che non ti succeda niente oppure, dopo, non puoi lamentarti.Un pò di decoro!
Ho letto che una collega di una città molto più importante è stata chiamata a far l'assessore nella nuova giunta comunale. Contrariamente agli indegni comportamenti del nostro soggetto e, molto più corretamente, ha annunziato che, per questo, lascerà l'incarico.
Ma al di là di questo, può un dipendente pubblico, a servizio esclusivo della nazione, essere imparziale, se iscritto a un partito politico, alla cui vita partecipa attivamente e pubblicamente?

Pompei















Da Baia, 9° giorno prima delle Calende di settembre, del 79 d.c., ora 7ima, (24 agosto, circa le 13 odierne):

“…..., una nube si innalzava ( non appariva bene da quale monte avesse origine, si seppe poi dal Vesuvio), il cui aspetto e la cui forma nessun albero avrebbe meglio espressi di un pino. Giacchè, protesasi verso l’ alto con un altissimo tronco, si allargava a guisa di rami perché ritengo, sollevata dapprima da una corrente d’aria, e poi abbandonata a se stessa per il cessare di quella o cedendo al proprio peso, si allargava pigramente. Talora bianca, talora sporca e chiazzata a causa del terriccio e della cenere trasportata..…..”.

Così l’inizio dell’eruzione narrato da Plinio il giovane nella prima delle due lettere inviate allo storico Tacito circa 20anni dopo. Testimone oculare della tragedia, in quanto ospite a Baia dello zio Plinio il vecchio, uomo di scienza, naturalista e all’epoca, comandante della flotta militare di stanza a Misero, e morto nel tentativo di prestare soccorso con tutte le navi disponibili.
Pompei, Ercolano, Oplonti, Stabia, tutte le case e gli edifici della zona furono distrutte e ricoperte da cenere e lapilli,oltre che da un violento terremoto e maremoto.
Una apocalisse: pochissimi i superstiti, tra esseri umani e animali; l’eruzione fermò la vita e il tempo, in quei giorni di agosto, ricoprendo tutto ma, paradossalmente, conservando tutto per i posteri.
Il 6 novembre 2010, non una nuova eruzione, né un terremoto, ma, da quel che si è appreso dalla stampa e dalle dichiarazioni dell’ineffabile Ministro della cultura del tempo, solo un po’ di pioggia fuori dal normale, ha fatto crollare la domus dei gladiatori,la “ schola armaturarum”.
Inevitabili le polemiche e le strumentalizzazioni politiche sulle varie responsabilità che come sempre vengono scaricate ad “altri…”, e che comunque sono facili da individuare: interventi di manutenzione inefficaci e anzi dannosi, soldi già ridotti e sprecati, tecnici ed esperti evidentemente impreparati, sia in questo caso come anche in altri, disinteresse per la storia e per l’arte. Da non dimenticare inoltre le note dichiarazioni di emergenza, l’abitudine ormai vecchia, di nominare commissari per le emergenze che nulla combinano, se non sprecare soldi pubblici, politici, imprese e malavita che si spartiscono affari miliardari.
Eppure non è una novità, perché di edifici pericolanti e/o crollati ce ne sono dappertutto, non solo a Pompei; ma, visto che di questa città si sta parlando, leggevo tempo fa di Alexandre Dumas, lo scrittore francese, padre dei Tre moschettieri, del Conte di Montecristo e anche di una “istoria dei Borboni di Napoli, pubblicata pe’soli lettori dell’Indipendente”, nel 1862.
Arrivato a Napoli con Garibaldi, ai primi di settembre del 1860, ricevette l’incarico di direttore dei musei e degli scavi nella zona vesuviana: ebbene, egli chiedeva soldi per la manutenzione e accennava alla “ Porta di Ercolano, crollata – a suo dire – “ per la stanchezza di sopportare diciassette secoli ! “. Sembra inoltre che ricevette anche una visita che gli assicurava la protezione della camorra.
Tornando invece a quei giorni di settembre del 79 d.c., dopo la catastrofe, l’imperatore Tito, accorso sul posto per un sopralluogo, e per disporre i soccorsi, cosa fece? Manco a dirlo - in duemila anni non è cambiato molto -, nominò dei “commissari all’emergenza”, per prestare soccorsi e ogni aiuto possibile per la ricostruzione !
Ma i “ curatores ”, anche allora politici - infatti si trattava di senatori -, effettuarono piccoli scavi per salvare il salvabile, forse statue, mobili, marmi, giudicarono la situazione ormai irreversibile e impossibile da recuperare alla vita precedente, si limitarono a fornire piccoli aiuti ai pochi superstiti e li alloggiarono in zone limitrofe.
Ieri - come oggi - i superstiti si arrangiarono da soli per recuperare oggetti domestici di uso familiare o anche affettivi e, non mancarono probabilmente neanche atti di sciacallaggio e saccheggio.
Così, di Pompei, di Ercolano e dei paesi vicini anche essi distrutti, non se ne parlò più e se ne perse anche il ricordo.
L’impero romano andò incontro ad altri problemi: decadenza, invasioni barbariche, trasformazioni e mutamenti di ogni genere, caduta, governi e regni diversi, medioevo, disinteresse e inciviltà.
Certo ci saranno stati in tutte le epoche i tombaroli, sarà anche capitato di fare scoperte casuali, scavando la terra, ma non gli si dava alcuna importanza.
Era rimasto in piedi solo un piccolo insediamento di poche case, probabilmente anche senza nome.
Fu con il Rinascimento che le cose cominciarono a cambiare: scrittori, poeti e umanisti si rivolsero ai classici, e studiarono i testi latini e così scoprirono l’esistenza di una antica città chiamata Pompei.
Iniziò allora il dibattito sulla sua ubicazione, dov’era Pompei classica? E Ercolano? e le altre città ?
L’archeologia, come scienza non esisteva affatto, se c’erano scavi, erano condotti male e senza criterio; bisognò attendere un paio di secoli per arrivare a qualcosa di concreto, ai primi del ‘700, con l’illuminismo si sviluppò l’interesse per l’arte antica e per il collezionismo di oggetti antichi.
E’ in questo periodo che visse Johann Winckelmann, considerato il padre della archeologia che viaggiò in Italia, e visitò i primi scavi che venivano effettuati a Ercolano, nel 1738, quando si dette inizio ai primi scavi ufficiali e sistematici, voluti dal re Carlo di Borbone.
Da allora, gli scavi non si sono mai fermati dando luogo a scoperte inimmaginabili. Da sottoterra è resuscitata una intera città,che si credeva perduta.
A Roma, caput mundi, si vedono e si visitano gli spazi del potere imperiale; a Pompei si passeggia lì dove persone comuni di una comune città di provincia, donne e uomini passeggiavano, lavoravano, vivevano e i bambini giocavano. Non mancavano le domus di personaggi di rilievo, come la “casa del Menandro”, dal nome di un affresco intitolato al commediografo greco.
Era di proprietà di un tal Quinto Poppeo, parente di Poppea Sabina, la seconda moglie di Nerone.
Per fortuna, con gli scavi, molti affreschi, mosaici, statue ed altro, furono trasferiti nei musei, ma anche qui, non so fino a quando saranno visibili. Avrei voluto andare al Museo nazionale archeologico di Napoli nell’ultimo anno , ma per ben due volte ho dovuto rinunziare: l‘ 80% delle sale era chiuso per restauro!
E ora? “Con la cultura non si mangia”, aveva detto un altro ministro. Non ci sono parole per commentare questa bestialità. Intanto è cambiato il ministro, ma non in meglio.
Al momento Pompei è uscita di scena, non se ne parla. Spero che non vada persa di nuovo.

venerdì 6 maggio 2011

sansevero



SANSEVERO


Nel cuore del centro storico, all’angolo di una stradina dove difficilmente si fa vedere il sole, tra palazzi decadenti e panni stesi, c’è un vecchio portone, al quale nessuno fa caso, se non lo cerchi apposta. C’è solo un piccolo cartello turistico, di quelli gialli, un po’ piegato, neanche molto visibile.
Quel portone è il modesto ingresso di una piccola cappella, che non fa parte dei tradizionali itinerari turistici.
Eppure, lì dentro, a detta di molti storici dell’arte, si cela una delle più pregevoli opere barocche della città: è la chiesa di S. Maria della Pietà, detta anche “Pietatella”, meglio conosciuta come Cappella Sansevero. Un luogo straordinario, avvolto da leggende popolari e misteri, magie e simboli esoterici, un piccolo spazio che racchiude archi, marmi, stucchi, dipinti, colonne, affreschi e statue.
Nella zona dove sorge la chiesa, da quanto raccontano archeologi e studiosi di esoterismo, già in tempi molto lontani si tramandavano leggende e simboli relativi a templi pagani, e a un cosiddetto “centro cosmico”, un luogo dove ci sarebbe una particolare corrente di magnetismo e di energia. Lì doveva esserci un tempio contenente una statua “velata” di Iside e di Horus, Dei egiziani, poiché in quell’area abitavano immigrati alessandrini, come ancora oggi ricordato dal nome della vicina via Nilo.
Bartolomeo Capasso affermava che “...in fondo alla cella vi era l’immagine della Dea, che i filosofi credevano fosse il tutto, ciò che fu, è, e sarà: essa, dai soli sacerdoti e dagli iniziati poteva essere veduta….”.
Quasi una predestinazione! Due millenni dopo, un altro tempio - cristiano – accoglie statue “velate” e simboli, visibili dai soli iniziati o comunque da studiosi della materia, mentre a un qualsiasi visitatore, la visione della cappella, suscita comunque ammirazione e sconcerto, stupore e turbamento.
La sua storia ebbe inizio, a Napoli, alla fine del XVI sec. Fu fatta costruire, infatti, nel 1590 dal duca Francesco di Sangro, principe di S. Severo, come cappella privata annessa al vicino palazzo di famiglia; nel 1608 fu trasformata in chiesa, aperta al popolo, e destinata ad accogliere le tombe della famiglia.
Don Gennaro Aspreno Galante, prete e archeologo napoletano(1843/1923), nel suo libro: “ Guida sacra della città di Napoli”, così scriveva: “..la calata Sansevero a nostra dritta ci mena alla superba cappella della Pietà de’ principi di Sangro. Nel 1590 Francesco di Sangro, principe di Sansevero, l’edificò per voto, collocandovi l’immagine di S.Maria della Pietà, che era primamente nel contiguo giardino di suo palazzo e diede il nome alla cappella. Nel 1613 Alessandro di Sangro, patriarca di Alessandria e arcivescovo di Benevento la riedificò dalle fondamenta destinandola a sepolcreto di sua famiglia;verso il 1750 Raimondo di Sangro l’adornò di tali e tanti lavori d’arte, che ne venne chiamato fondatore. Egli costruì il cornicione ed i capitelli dei pilastri con un mastice da lui formato che parea madreperla…”.
Dal racconto emerge subito la figura, e un accenno a una invenzione, di un aristocratico personaggio, che fece la cappella così come la vediamo ancora oggi: Raimondo di Sangro, non solo principe di S. Severo, ma insignito di tanti e diversi titoli nobiliari, gran maestro della loggia massonica di Napoli, alchimista, inventore, studioso di anatomia, occultista, filosofo, ecc.
Nato nel 1710 a Torremaggiore, in Puglia, egli è probabilmente il napoletano meno conosciuto all’estero, forse perché fuori dagli schemi soliti e dai luoghi comuni: personaggio straordinario, tipico del ’700, del secolo dei lumi, protagonista dei misteri dei vicoli di Napoli.
Sulla sua vita avventurosa, le sue invenzioni, la sua attività e la stessa cappella SanSevero, sono state già scritti biografie e saggi, ai quali rimando per chi voglia approfondirne la conoscenza; qui solo qualche accenno agli avvenimenti e alle opere più famose, perché più delle parole sono le immagini, e possibilmente una visita, a dover parlare..
Nato in una famiglia tra le più antiche e nobili del regno, restò orfano di madre già all’età di un anno e, abbandonato dal padre, fu affidato al nonno, che lo mandò a Roma presso il collegio gestito da Gesuiti.
Dimostrò di essere un buon allievo, anche se insofferente alla disciplina: fu attratto soprattutto da studi scientifici, che poi lo segnarono per tutta la vita. Egli si appassionò, infatti, agli studi di alchimia e chimica, alla fisica, alla medicina, alla anatomia in particolare, e alla filosofia. Tornato a Napoli, nei sotterranei del suo palazzo, installò un laboratorio chimico, poi una moderna tipografia e una grande vetreria, realizzando invenzioni incredibili per l’epoca.
Poichè non ne spiegava mai i segreti, gli si creò intorno una inquietante leggenda di stregone e mago: il popolino che vedeva sprizzare dal suo palazzo, di giorno e di notte, bagliori di fornelli e sentiva stridori di macchine, vedeva gente strana che entrava e usciva, oggetti e opere straordinarie, mormorava di patti col demonio.
Egli scopri formule per costruire marmi colorati, gemme artificiali, stoffe impermeabili, colori particolari; costrui inoltre una” carrozza marittima”,
( probabilmente era un mezzo anfibio) con cui passeggiò nel golfo, e ne fece dono al re, e soprattutto le cosiddette “macchine anatomiche”.
“….si veggono due macchine anatomiche, o per meglio dire, due scheletri, d’ un maschio e d’una femmina, ne’ quali s’osservano tutte le vene e le arterie de’ corpi umani, fatte per iniezione…”cosi venivano descritti già nel 1766.
Procuratosi - non si sa con certezza come, ma anche qui non mancarono le dicerie - due cadaveri, un uomo e una donna, e con la collaborazione di un medico, aveva iniettato nel sistema venoso una sostanza di sua invenzione,a quanto pare ancora oggi sconosciuta, che aveva pietrificato vene, arteria e viscere. I due scheletri, con il sistema arterioso e venoso e le viscere pietrificate sono ancora li, da tre secoli.
Ce ne era abbastanza per ogni tipo di leggende e misteri sulla attività del principe , che, per giunta, era associato anche alla Massoneria e poi ne era divenuto gran Maestro. Egli di accuse e dicerie se ne infischiava, e proseguiva nelle sue attività: la sua alta posizione sociale glielo consentiva. Ovviamente entrò in contrasto con la Chiesa, che lo scomunicò.
Malgrado fosse preso da studi scientifici, egli non dimenticò di sistemare la Cappella, e, data la sua fama, studiosi e storici non poterono fare a meno di individuare simbolismi esoterici, massonici e perfino magici, in tutti i dipinti. le statue, le scritte e ogni opera in essa contenuta. A mio parere era soltanto uno scienziato in anticipo sui suoi tempi.
La cappella ha una unica navata: ai lati, lungo le pareti ci sono quattro archi a tutto sesto, nei quali sono posti monumenti sepolcrali, dedicati alla famiglia di San Severo.
L’affresco della volta è un’opera spettacolare di Francesco Russo, un artista locale di cui si hanno scarse notizie, che realizzò l’affresco nel 1749: denominato il “ Paradiso dei San Severo”, ancora oggi stupisce per la brillantezza dei colori che resistono alla azione degli agenti atmosferici. Ciò è stato attribuito a una particolare pittura detta “oloidrica”, inventata dal principe, ottenuta, pare, sostituendo la colla, normalmente usata per gli affreschi, con altre sostanze sconosciute di sua invenzione che, come sempre, egli si guardò bene dal rivelare.
La stessa pittura fu utilizzata da altri artisti, come il sorrentino Carlo Amalfi, che dipinse su un medaglione in rame, il principe in età matura, oppure la “Madonna con bambino”, di cui si erano perse le tracce e ritrovata appena nel 2005, realizzata e donata dal principe al Re, dall’artista romano Giuseppe Pesce nel 1757. Nè si possono dimenticare alcuni dipinti di Francesco de Mura, pittore barocco della scuola di Francesco Solimena e Luca Giordano.
L’altare maggiore,sovrastato da una cupoletta affrescata, è diviso dalla cappella da un arco: si presenta in uno stile barocco grandioso, con pilastri e cornicioni, fregi e capitelli in marmo, circondato da statue e gruppi marmorei. Il posto ne è pieno, ma limiterò questo breve intervento solo ad alcune di esse.
“ Educatio et disciplina mores faciunt”,il latino non è proprio quello classico di Cicerone, la frase è scolpita in una opera che rappresenta l’”educazione” che viene impartita al principe raffigurato da piccolo, attribuita forse a Francesco Celebrano, pittore e scultore napoletano, tra l’altro direttore della Real Fabbrica delle porcellane di Capodimonte.
Il veneziano Antonio Corradini era considerato, insieme al suo seguace Francesco Queirolo, un esperto di statue velate. Nato a Venezia nel 1688, dopo aver lavorato in mezza Europa, a Vienna, a Praga, a Pietroburgo, e a Roma, fu chiamato a Napoli già anziano, nel 1749.
Il Corradini realizzò, nel 1751, la “Pudicizia”, una figura femminile avvolta in un velo, dedicata alla madre di Raimondo,come si legge nella lapide:” a Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona, moglie del duca di Torremaggiore di Sangro”. Il velo, perfettamente aderente alla statua, oltre alla perfezione della scultura, trasmette una sensazione di fredda sensualità.
Il Queirolo scolpì, invece, la statua detta popolarmente del” Pescatore”, perché mostra una figura maschile che tenta di districarsi da una rete, che sembra appunto una di quelle usate per la pesca. In verità, la sua denominazione ufficiale è il “Disinganno”, ed è dedicata al padre di Raimondo, don Antonio, un personaggio descritto, anche da Benedetto Croce, come dissoluto e libertino, noto per eccessi di ogni tipo, raffigurati come una rete, dai quali, egli cerca di liberarsi. Al Queirolo è attribuita anche la “ Sincerità”, monumento funerario dedicato alla moglie di Raimondo, raffigurata anche in questo caso, come una figura femminile avvolta da veli.
In queste opere, dato l’alone di mistero del principe, si pensò,al momento, non alla eccezionale bravura degli artisti, che avevano scolpito velo e rete in un unico blocco di marmo, ma a una delle solite invenzioni diaboliche di don Raimondo, che avevano consentito la marmorizzazione di un vero velo e di una vera rete.
La stessa leggenda si diffuse per quella che è l’opera più famosa della cappella, e che ne costituisce l’immagine più nota: la statua del Cristo velato.
Ha lasciato scritto don Raimondo, “… sarà posta una statua di marmo a grandezza naturale, rappresentante nostro Signore Gesù Cristo morto, coperto da un sudario trasparente, realizzato dallo stesso blocco della statua…”. Non fu uno scultore famoso a realizzare l’opera, ma un giovane napoletano ancora sconosciuto all’epoca,( 1754), Giuseppe Sanmartino.
Secondo alcuni studiosi, la statua in marmo fu realizzata su un modello in creta lasciato dal Corradini, secondo altri invece anche l’ideazione fu del giovane Sanmartino.
Giuseppe Sanmartino era nato a Napoli nel 1720; quando fu chiamato dal principe Raimondo non era nessuno. La sua carriera ebbe uno slancio dopo aver lavorato al Cristo velato. Egli infatti lavorò per varie Chiese, e anche con Luigi Vanvitelli. Si dedicò inoltre anche alla creazione di statuette per il Presepe napoletano, alcune delle quali sono oggi esposte al Museo della Certosa di S. Martino.
La sua opera più importante, considerato un capolavoro della scultura europea del XVIII sec., è stata e resta quella della Cappella San Severo.
L’opera lascia senza fiato: la statua mostra nel marmo, con una eccezionale tecnica scultorea, l’affiorare di un corpo umano disteso, avvolto in un velo. Il lenzuolo che ricopre la statua aderisce perfettamente alle forme del cadavere e provoca un vero impatto drammatico, che fa ammutolire i visitatori.
Si racconta che uno scultore certo più famoso del Sanmartino, tal Antonio Canova, dopo una visita alla Cappella, aveva confessato che “avrebbe dato dieci anni di vita pur di essere lo scultore del Cristo velato”.



Per saperne di più
Bartolomeo Capasso : Napoli greco-romana, ED. Arturo Berisio 1978
Gennaro Aspreno Galante: Le chiese di Napoli, ED Solemar.2007
Antonio Emanuele Piedimonte: Raimondo di Sangro,principe di sanSevero,ED. Intramoenia 2010
Alessandro Coletti,:Il principe di Sansevero, ED. De Agostani 1988
Vittorio Gleijeses: La storia di Napoli, ED. SEN 1974
V: Gleijeses: Guida di Napoli e dintorni ED. del Giglio1979
H.Acton: I Borboni di Napoli, ED. .Giunti
M.Buonoconto: Napoli esoterica, ED. Newton 1996
Benedetto Croce: Storie e leggende napoletane.

martedì 3 maggio 2011

Carditello



Carditello


Jacob Phillip Hackert, pittore, era nato a Prenzlan, in Germania, nel 1737. Dopo aver lavorato in Russia, era venuto in Italia e si era trattenuto a Roma e a Firenze.
Non si conosce con esattezza la data di arrivo a Napoli, ma facendo un po’ di calcoli sia per l’età, sia per le attività svolte e perché a Napoli regnava già Ferdinando IV, sicuramente dopo il 1770/80.
Nominato pittore regio, Hackert ebbe, oltre ad altri incarichi, anche quello di dipingere i porti del regno delle due Sicilie.
Tra gli altri incarichi, egli, secondo quanto riportato dallo storico inglese Harold Acton, ebbe la nomina a direttore dei lavori di sistemazione della “ real delizia” di Carditello:
Lo storico inglese riporta alcune annotazioni di Hackert: “ Carditello – egli scriveva - è una grande casa da caccia, o meglio, la si può chiamare un “ palazzo” di caccia: ci sono molte stalle, in parte per i cavalli, dato che vi è anche una monta, in parte per le mucche che erano più di duecento. Nella masseria annessa si faceva buon burro e formaggio parmigiano, all ‘ interno vi era una grande panetteria, che faceva il pane per gli operai, diversi altri edifici per l’agricoltura, e gli appartamenti per quelli che in inverno abitavano sul posto.”
Da queste poche frasi, si può già capire cosa era Carditello, prima di tutto un sito per la caccia del Re, dove c’è una grande casa o palazzo per accogliere il re stesso e il seguito, nei mesi primaverili e estivi; poi stalle per cavalli e mucche e quindi una specie di azienda agricola del tempo, dove si produceva burro, formaggio, prodotti della agricoltura e pane, e appartamenti per i contadini, gli operai e tutti quelli che “anche d’inverno” abitavano sul posto.
Dallo scritto si coglie anche altro: quando arriva Hackert, il sito è già stato avviato a diventare quello che poi sarà chiamata la “Reggia”.





A questo punto è necessario fare un passo indietro.
Tutto il territorio circostante la città era costellato già da sempre di ville, vecchi casali e masserie, di proprietà di aristocratici e nobili che li usavano come capanni per la caccia o provvisorie residenze estive. Generalmente erano anche circondate da villaggi e case di contadini e braccianti.
Nel tempo,da semplici luoghi di svago e di riposo per i signori, questi casali iniziarono ad essere visti anche come luoghi da sfruttare economicamente per la produzione di frutta e verdura sia di allevamento di bestiame e conseguentemente anche di prodotti caseari e d’altro tipo, insomma in una vera e propria azienda agricola.
Il semplice capanno per la caccia o la piccola costruzione per una breve permanenza estiva si andva trasformando pian piano in un edificio più grande e più comodo per permanenze più lunghe, abitazioni migliori anche per gli addetti e operai, contadini ecc.
Nel regno questa trasformazione avviene più tardi e più lentamente per motivi storici e culturali. Dal 1503 e per due secoli, un dominazione spagnola impedisce ogni minima iniziativa: sfruttata come una colonia il territorio doveva servire soltanto a fornire a Madrid mezzi e uomini per le varie guerre di conquista. La nobiltà spagnola è oziosa e boriosa,il suo esempio,scrive A.Ghirelli, ” alimenta, a tutti i livelli sociali, il culto sfrenato delle apparenze”.
I grandi di Spagna, giunti in città e in provincia, non potevano abbassarsi neanche a pensarci a lavoro, dilapidando e pensando solo a esteriorità, a svaghi e feste, a dispute inutili per i più futili motivi.
La spinta venne soprattutto da quando, il regno riprese la sua autonomia con Carlo di Borbone e soprattutto si entrò nel secolo dei lumi.
L’illuminismo portò grosse innovazioni non solo in campo culturale e filosofico e sociale, ma anche in quello economico, agricolo e industriale, con nuovi schemi e modelli produttivi e molti erano coloro, che pur aristocratici, non disdegnarono di dedicarsi a certe attività.
La città di Napoli era all’epoca piccola e ancora racchiusa intra moenia, salvo pochi interventi edilizi e urbanistici, effettuati dall’unico vicerè degno di essere ancora ricordato dalla strada che egli fece aprire, la via Toledo. Sia a oriente sia a occidente la città era circondata da boschi, da acque e paludi, da fitta vegetazione e foreste piene di animali e selvaggina per chi amava la caccia, fiumi e ruscelli che venivano giù dalle colline di Capodimonte e di Capodichino; Poggioreale non era ancora la zona del carcere più brutto d’Europa, al Vomero c’era solo un piccolo villaggio di Antignano in mezzo a campi coltivati e boschi. Chi va oggi, non troverà neanche un filo d’erba.
Con il ritorno della autonomia e l’arrivo del re Carlo si iniziò a parlare di siti reali, cioè di quei terreni, o comunque luoghi di proprietà della Corona, dove il re e il seguito amavano andare per riposo ma soprattutto per la caccia, di cui egli e anche il figlio erano appassionati.
Appassionato anche di arte, ceramica e archeologia – fu Carlo a dare avvio a sistematici e organizzati lavori di scavo di Pompei e Ercolano e a creare la fabbrica delle porcellane di Capodimonte – egli diede avvio anche a una vasta opera di risistemazione della città e dei dintorni, indovinando anche la scelta dell’uomo che doveva impegnarsi nell’impresa: Luigi Vanvitelli, ingegnere, architetto e urbanista.
Nacque cosi la Reggia più famosa, quella di Caserta, fu trasformata così anche il sito reale di caccia che divenne la reggia di Capodimonte, oggi museo e pinacoteca, cosi nacquero altri siti reali degli Astroni, di S. Leucio, di Venafro, e quello di Carditello.
Questa era solo una antica masseria, utilizzata come deposito di materiale agricolo e di grano: situata nella grande pianura del Volturno, circondata da boschi e abitata da ogni tipo di selvaggina, e anche a poca distanza dal mare.
La masseria fu acquistata dalla corona nel 1745, e trasformata in casino di caccia. Il re e il suo seguito, facevano lunghe passeggiate e cacciavano, e al termine si intrattenevano anche per la notte. Lì potevano mangiare sia la selvaggina cacciata sia i prodotti agricoli del terreno circostante e degli allevamenti, comprese le famose mozzarelle di bufala.
Pian piano, furono sistemate stalle sia per le bufale sia anche per cavalli e per la monta, si pensò poi alla sistemazione di abitazioni per il personale di servizio e anche per i soldati di scorta al re; quindi alla creazione di un grande fabbricato per ospitare non solo il re, ma anche la famiglia reale, la corte o parte di essa, per lo svago ma anche per continuare il governo del regno.
Sempre da Acton, che è un grande studioso dei Borbone di Napoli, apprendiamo di feste organizzate presso quel sito in occasione di una caccia ”….il re aveva ordinato che si invitassero..” vari personaggi e ambasciatori, mentre la regina Maria Carolina, moglie di Ferdinando scriveva a lady Hamilton, moglie dell’ambasciatore inglese: ”....devo andare a Carditello per una intera giornata, la mia salute e la mia fragile costituzione non godono di queste lunghe gite , ma bisogna obbedire…” al re Ferdinando, evidentemente..
Nel 1759 Carlo veniva chiamato al trono di Spagna, a Napoli restava il figlio minorenne – era nato nel 1751 – Ferdinando, che avrebbe regnato fino al 1825.
I lavori a Carditello non furono interrotti neanche dalla morte del Vanvitelli, avvenuta a Caserta nel 1773.
Il progetto di sistemazione e di rifacimento dei tutto il complesso continuò con quello che era considerato il migliore allievo e collaboratore del Vanvitelli, che fu anche nominato architetto regio: Francesco Collecini, romano, che aveva già collaborato ai lavori della reggia di Caserta e del sito reale di S.Leucio.
Egli progettò una vera e propria reggia in piccolo, facendone nel contempo anche una azienda agricola.
Il palazzo venne costruito al centro della tenuta: il corpo centrale ospitava gli appartamenti della famiglia reale .
Ad esso erano collegati, e quindi raggiungibili, tutti gli altri fabbricati: le stalle, gli opifici, la caserma e gli alloggi del personale, per una estensione totale di trecento metri.
Al piano terra erano situate le cucine, l’armeria e le sale per il personale, al primo piano, si ritrovavano gli ambienti destinati ad accogliere la famiglia reale e il salone dei ricevimenti .
Sui lati furono costruite torri, destinate in parte a abitazioni, per coloro che vivevano lì tutto l’anno e, in parte, alla la sorveglianza del territorio .
Furono inoltre progettate e costruite le strade dei dintorni, soprattutto quelle per andare e tornare velocemente nelle capitale, sia per i sovrani sia per il seguito e le scorte.
Tornando ora a Filippo Hackert, egli aveva ricevuto anche l’incarico di decorare “ con statue e pitture tutto il palazzo di Carditello, oltre alla chiesa ivi inclusa..”. Il piano nobile del palazzo venne riempito di statue, affreschi e dipinti, anche di altri pittori della scuola napolatana tra i quali Fedele Fischetti ,Carlo Brunelli e Pietro Durante.
Nel 1789, in Francia, scoppiava la rivoluzione; le armate rivoluzionarie prima, e quelle di Napoleone Bonaparte poi, invasero l ‘ Europa e l’Italia.
A Napoli, nel 1799 venne proclamata la Repubblica Partenopea, che durerà pochi mesi .
L’arrivo, in quell’anno, delle truppe francesi, fu catastrofico per Carditello; furono distrutti gli arredi e danneggiate decorazioni e pitture murali.
I danni per fortuna furono limitati dall‘arrivo del nuovo re nominato da Napoleone, Gioacchino Murat, che tuttavia, tra una guerra e l’altra, non ebbe tempo per pensare di sistemare il sito.
Tornato a Napoli, dopo il decennio francese, re Ferdinando ne ordinò il restauro, e il palazzo fu utilizzato anche dai successori .
Francesco II°, l’ultimo re di Napoli, probabilmente lo frequentò poco o niente, sia perché poco amante della caccia, sia perché gli mancò il tempo.
Salito al trono nel 1859, dopo neanche un anno, fu costretto ad abbandonare il regno e a difendere il proprio diritto al trono, proprio su quella pianura del Volturno, poco lontano da Carditello, dalle truppe garibaldine e piemontesi.
L’abbandono del sito coincise con l’unità di Italia e l’arrivo dei Savoia: Carditello cadde in rovina e si narra che si verificarono atti di vandalismo contro affreschi rappresentanti i Re Borbone, per cancellarne la memoria .
Mi dicono che sono stati effettuati interventi di restauro in più riprese .





Io ci sono passato solo dall’esterno, l’impressione è stata di grande abbandono, un cancello arrugginito e sbarrato, all’interno di un muro diroccato, una fitta e disordinata vegetazione impedisce qualsiasi visuale di quel che doveva essere un magnifico palazzo, stando almeno alle fotografie e alle storie che si raccontano. Per non parlare dei cumuli di “monnezza” e di copertoni bruciati e delle “ecoballe” che invadono i dintorni, dei terreni e delle acque inquinate da scarichi industriali e altro.
Mi viene detto che il sito viene utilizzato di tanto in tanto per qualche iniziativa culturale.
Il disinteresse per la storia e la cultura, la crisi economica, l’ignoranza, la svendita del patrimonio artistico e culturale, ma anche una damnatio memoriae a carico dei Borbone, colpiscono anche il complesso di Carditello.
Un gentile lettore ci ha informato infatti che il sito è stato messo in vendita al prezzo di 50milioni di Euro.
Da ultimo, si è formato un comitato “ Salviamo Carditello “, che sta raccogliendo firme e sta rivolgendo appelli alla Regione e alla Presidenza della Repubblica

lunedì 2 maggio 2011

Napoli: coppia svizzera dimentica borsa con 2000 euro,il tassista la restituisce

NAPOLI - Vedi Napoli e poi...torni. La città è sommersa dai rifiuti ed è stretta nella morsa del malaffare, ma forse a Napoli è ancora possibile affrancarsi dall'immagine della città brutta, sporca e cattiva. Bastano piccoli gesti, nessun eroismo, soltanto comportarsi da persone perbene, con semplicità. L'esempio viene dal signor Antonio Grieco, tassista identificato dalla sigla 'Ravello 8' e da un albergatore del Vomero, Paolo Coppola, titolare di 'Weekend a Napolì, villa liberty che ospita un resort in via Enrico Alvino. Alla vigilia di Pasqua hanno risolto il problema di una coppia di turisti svizzeri un po' distratti: giunti in albergo dall'aeroporto di Capodichino, al momento del check-in si sono resi conto di aver dimenticato sul taxi una borsa con duemila euro in contanti. In meno di un'ora l'hanno recuperata, grazie alla direttrice del piccolo hotel, la signora Patrizia, che ha fatto scattare immediatamente l'operazione "Vedi Napoli e poi... torni", e con un vorticoso giro di telefonate è riuscita a rintracciare il tassista. «Si, la borsa è in auto, gliela riporto a fine turno», la prima risposta. «Per favore, meglio subito, le paghiamo la corsa» hanno implorato dall'hotel, pressati dalla cliente straniera, allarmatissima. Dopo poco la borsa è arrivata, con i duemila euro. La corsa costava 18 euro, la signora ne ha pagato 20, due di mancia - il tassista ha rifiutato ulteriori compensi - dicendosi incredula: «Giro il mondo e so per certo che difficilmente a New York o a Londra sarebbe finita così». Il tassista ha incassato, ha ringraziato e se n'è andato, soddisfatto. «Ma - racconta Coppola - da napoletano ideatore di "Week end a Napoli", ho deciso di fare qualcosa per divulgare e premiare il comportamento di questo tassista gentiluomo. Ho prenotato un tavolo per due al ristorante La Bersagliera, sul lungomare, e ho offerto una cena al tassista e alla moglie con i ringraziamenti personali di chi in Napoli ci crede. Qualcuno avrà modo di raccontare che la nostra città non è solo monnezza».
Lunedì 25 Aprile 2011 - 14:53 Ultimo aggiornamento: Sabato 30 Aprile - 15:24