sabato 9 dicembre 2017

Ponti di Napoli

Ponti di Napoli

VOMERO -ARENELLA


Collina del Vomero medievale
Il Vòmero, nato come quartiere nel 1885, si sviluppò, con l’Arenella,   nel secondo dopoguerra, dalla fine degli anni ’50 in poi,  in maniera disordinata:  bisogno di case, cooperative edilizie,  nessun pensiero all’ ambiente, un vero e proprio assalto a un territorio ancora verde per campi coltivati e pascoli.  Si verificò poi un vero e proprio esodo di intere famiglie che, dal centro storico, andarono a popolare, quasi novelli coloni, i nuovi rioni in enormi condomini. Poi vennero  tutti i servizi e le varie attività commerciali, e perciò scuole, banche, negozi, bar, uffici comunali, uffici postali, ospedali ed  altro.
 La collina,   caratterizzata   da forti dislivelli  e  avvallamenti del terreno,  richiese necessarianente la costruzione di moderne  strutture  che spesso rasentano   finestre e  balconi di enormi condomini edificati  sul niente, come ad esempio quello sito all’uscita ( o ingresso) della tangenziale di via Caldieri, dove  la scorsa estate si verificarono  incendi.
Vediamone qualcuno

 

via Cilea
Via Francesco Cilea è una delle arterie principali del quartiere. La via nacque  come prolungamento di via Alessandro Scarlatti, che scendeva giù da S. Martino, e fu progettata come parallela all'antica via del Vomero (oggi via Belvedere), con la quale alla fine si unisce.
PonteVia Cilea
Per superare il dislivello tra la via Scarlatti e la via Cilea, fu  costruzito  un ponte, che, però, comportò l'abbattimento di preesistenti abitazioni e antiche ville.
Sul ponte furono subito costruiti condomini tipici degli anni della speculazione, sproporzionati alla strada, che per questo e per il traffico  veicolare intenso è oggi particolarmente fragile e soggetta a cedimenti. Il ponte passa sopra  via Gino Doria e da quì è raggiungibile attraverso una scala ormai degradata e spesso occupata da personaggi poco raccomandabili.
via Gemito
Via Gemito  prende il nome da Vincenzo Gemito, scultore autodidatta, disegnatore, orafo, nato a Napoli nel 1852 e morto nella stessa città nel 1929.
Inizia dopo piazza Quattro Giornate, dall'angolo con via Ribera e va ad incrociarsi con via Cilea. Data la naturale conformazione del terreno, via Cilea  è più alta rispetto a tutta l'area compresa tra le vie Fracanzano, Solimena, Doria e Ribera.
Da via Cilea infatti per raggiungere  dette vie si devono utilizzare scale o ripide discese come  via F.P. Tosti.        
Tutti i fabbricati di questa zona sono più bassi rispetto a quelli di via Cilea perchè costruiti prima del prolungamento con via Scarlatti nel 1958, assecondando l'andamento del terreno.
Per superare questo dislivello e prolungare la via Gemito alla via Cilea, fu costruito il piccolo ponte che oggi  passa davanti alle finestre di quei condomini.
via Fiore
Via Mario Fiore è la strada che collega la piazza Bernini con la piazza Medaglie d’oro. La posizione di quest’ultima piazza è  molto più bassa rispetto alla piazza Bernini e soprattutto alla piazza che io considero  la principale del quartiere, cioè la Vanvitelli ( nella foto).
Nei primi anni del ‘900, tra la piazza Bernini e la via M. Fiore c’ era  un muro che saliva da via Conte della Cerra. Nel 1958, il muro fu abbattutto, la piazza Bernini assunse l’aspetto di una vera piazza e fu costruito il ponte che superava il dislivello con via Fiore e che si affaccia su via Conte della Cerra.

via   Castellino
Via Castellino
Ci trasferiamo ora nel quartiere Arenella, confinante con quello del Vomero. L’Arenella fu chiamato così per gli stessi motivi di cui abbiamo parlato dell’ Arenaccia (v. ponte di Casanova), cioè   a causa  di detriti arenosi provenienti dalla collina dei Camaldoli, portati dall'acqua piovana, e che si depositavano nella zona.
In quei  luoghi, in passato, tra boschi e campi, c’erano poche ville nobiliari sorte dal XVII secolo in poi, come dimore di villeggiatura di aristocratici, e un piccolissimo villaggio al quale si accedeva attraverso ripidi sentieri.
 Una di queste ville era stata costruita da chi diede poi il nome alla collina:   fu Giuseppe Donzelli un aristocratico napoletano vissuto all’epoca della rivolta di Masaniello, nel 1647, alla quale peraltro partecipò. Egli si occupò attivamente di “ medicamenti e  arti salutari”, nel giardino della villa fece piantare numerose piante medicinali per  scoprire nuovi rimedi curativi. e scrisse  Teatro farmaceutico, dogmatico, e spagirico del Dottore Giuseppe Donzelli, Napoletano, Barone di Digliola, pubblicato nel 1681 a Venezia.
Dal barone Donzelli si arrivò a Monte/Donzelli, l’antica strada,  parallela oggi a quella  più moderna  intitolata al Medico Pietro Castellino.
Fu negli anni ’20 del XX secolo che iniziò l’urbanizzazione dell’Arenella e anche la costruzione della zona ospedaliera sull’ area più alta.  A causa delle ripide pendenze e allo scopo di unire strade e  dislivelli, nello stesso periodo fu costruito il Ponte ( nella foto), lungo  circa 30  metri, che supera la via Castellino.
 Oggi l’Arenella è un quartiere densamente popolato.  Il ponte, negli anni, si è procurato una cattiva fama, perchè luogo di una lunga catena di suicidi.















lunedì 27 novembre 2017

Ponti di Napoli, Ponti Rossi

Si chiamano Ponti ma non sono ponti, si chiamano rossi perchè appaiono con un colore rossastro.
Con il nome di "Ponti Rossi"   si   indica   generalmente   una zona di Napoli che abbraccia tutto il parco di Capodimonte e attraverso la strada dello stesso nome si allarga dalle zone più interne, da Miano fino a Capodichino, l'area dell'aereoporto.
Chi si trova a transitare per la strada dei Pontirossi passerà sotto alcune arcate di un ponte, di colore rosso. Ma quello che passa sopra le arcate non è un ponte, nel senso che sopra non camminano persone o animali, non corrono auto né treni, né appaiono avvallamenti da superare. E allora, di che si tratta? Perché li chiamiamo "Ponti" ? Forse perché hanno a che fare, comunque, con l'acqua? O è solo un nome dato dal popolo napoletano a quello che all'inizio appariva come un ponte? Forse la risposta è proprio questa.
Ponti Rossi oggi
Sopra quelle arcate costruite in tufo e laterizi rossi, scorreva, circa 2000 anni fa, in lunghi e grandi tubi di piombo, l'acqua che abbeverava Napoli e dintorni. un acquedotto quindi, costruito, secondo gli storici, al primo secolo d. C., al tempo dell'imperatore romano Claudio, anche se molto probabilmente l' opera iniziò prima, ai tempi di Augusto.
I Romani, bsogna dirlo, erano un po' esagerati nelle loro costruzioni. Essi dovevano cercare le sorgenti d'acqua per rifornire Napoli e finirono per trovarla non proprio vicinissimo alla città.
Scelsero invece una sorgente degli Appenini irpini: le sorgenti del Serino - oggi un Comune in provincia di Avellino -, a circa 400 metri sul livelo del mare. Da lì l'acquedotto iniziava il suo percorso in discesa e terminava dopo un centinaio di chilometri a Miseno, nella cosiddetta Piscina Mirabilis, una cisterna che alimentava marinai della flotta romana del basso Tirreno e case eville della zona.
Durante il suo tragitto attraverso cunicoli e "ponti", l'acquedotto riforniva, mediante diverse derivazioni, altre città: Nola, Pompei, Ercolano Pomigliano e Atella. Inoltre Posillipo, Bagnoli,  Baia e Pozzuoli.
Era un'opera veramente grandiosa e richiedeva una manutenzione costante e accurata, e interventi straordinari che durarono fino alle invasioni del V° secoo d.C. e alla fine dell'Impero.
Nel 536 d. C. durante la guerra greco-gotica, il generale bizantino Belisario pose l 'assedio a Napoli, difesa dai Goti e da truppe locali. Le mura della città erano invalicabili per cui egli decise di prenderla per fame e per sete.
Egli perciò: “ tagliò la conduttura- scrive il contemporaneo Procopio di Cesarea, Storia delle guerre di Giustiniano, -che portava l'acqua in città”, ma non si creò alcun disagio particolare, in quanto, all'interno delle mura, esistevano molti pozzi dove attingere acqua. Ma la città fu comunque presa grazie all'acquedotto del Serino
Scriveva Giovanni Antonio Summonte, storico napoletano del XVI/XVII secolo, in “ Historia della città e regno di Napoli” : Belisario dunque essendo quasi privo di speranza, e pensando levarsi da quell'assedio, la fortuna gli dié la strada: percioché venuto desiderio a un soldato Isauro di vedere il formale che soleva condurre l'acqua alla città, e entratovi dentro da quella banda, dove Belisario l'aveva rotto, poco discosto dalla città, ebbe agevolezza di salirvi suso  perchè essendo tagliato il muro, l'acqua non correva più; e passato oltre, conobbe essere dentro la città”. Perciò il soldato riferi al generale questa sua scoperta e l'esercito entro in città attraverso quell'acquedotto e, dopo aspro combattimento, conquistò Napoli.
Di quell' acquedotto non se ne seppe più niente e la città fu alimentata in altro modo da altre dominazioni.
Solo nel secolo XVI il viceré spagnolo, Don Pedro di Toledo, decise di far ricostruire l’antica struttura e diede all’architetto Antonio Lettieri l’incarico di rintracciare l’origine del corso d’acqua. La ricerca fu lunga e soprattutto dispendiosa e, alla fine, non se ne fece niente
E' ancora viva la discussione   tra archeologi e studiosi sul punto d'ingresso in città dei tubi  dell' acquedotto, alla quale accenno appena: probabilmente si dividevano in due rami, uno attraversava la Sanità e un altro invece si dirigeva verso Chiaia e da li a Pozzuoli.
Nel 2011, nel quartiere della Sanità è stato scoperto, per puro caso, un pezzo dell' acquedotto romano.



lunedì 23 ottobre 2017

Ponte della Sanità

Ponti di Napoli
Ponte della Sanità

Oggi il rione Sanità, conosciuto anche come Vergini, e,  sulle carte comunali,  come quartiere Stella, è più tristemente noto per fatti di sangue, delinquenza, camorra, e al contrario, anche per le iniziative anticamorra.
Non era così una volta: l’area, situata fuori dalle mura settentrionali della città, era boscosa e selvaggia e piena di sorgenti.  Le acque, anche  piovane, scendevano verso il vallone che oggi è via Foria e alimentavano con altre acque provenienti dalle colline vicine il fiume che qualcuno chiama Sebeto, altri Rubeolo, altri Clanis.
In tempi antichissimi, la zona era utilizzata per l'estrazione di tufo, adatto per l'edilizia, e anche per seppellire i morti e per cerimonie religiose, e fu chiamata prima Vergini e poi Sanità.
Vergini, sembra,  da Eunostidi,  adoratori di Eunostos,  un dio greco della temperanza e quindi della verginità, quindi sacerdoti votati alla castità, che si recavano extra moenia per adorarlo e fare funzioni religiose. Sul nome di Sanità ci sono due teorie: la prima ha pensato alla salubrità del luogo, mentre altri si riferivano invece a presunti miracoli avvenuti  per le preghiere rivolte ai morti di quei cimiteri.
In effetti, l‘ area fu destinata prima a necropoli pagana, poi a catacombe paleocristiane e infine, a cimitero cristiano.
Nella piazza del quartiere, nei sotterranei della grande chiesa barocca di S. Maria della Sanità,  si trovano le catacombe di S. Gaudioso ( nella foto ), seconde solo a quelle più note di S. Gennaro.
Più avanti, sulla salita che porta a Capodimonte, c'è il  cimitero delle Fontanelle, una grande cava tufacea, dove migliaia di teschi, ordinati e sistemati uno sull’altro in ordine quasi perfetto, sono visibili al pubblico.
Nel XIV secolo ebbe inizio il contenimento dei corsi d’acqua provenienti dalle colline, con opere fognarie e idrauliche, e la zona perciò divenne più agibile.
Si delineò così la strada che partiva dalla porta S. Gennaro, superava, con il  ponte delle Pigne, il largo detto delle Pigne (nome dovuto alla presenza di pini, oggi piazza Cavour), e saliva verso la collina di Capodimonte.
Nell' area iniziò prima la formazione di un piccolo borgo, poi ben presto si verificò una consistente urbanizzazione: giardini, orti, grandi proprietà fondiarie e grandi palazzi. La strada, alla fine del XVII sec., era diventata la principale via di comunicazione tra collina e città. Tutta la nobiltà, i vicerè e poi re Carlo e Ferdinando, per recarsi a Capodimonte, nelle loro riserve  e nei casini di caccia, dovevano passare di là.
Capodimonte Reggia
Il casino di caccia di Capodimonte, però, fu ben presto trasformato in palazzo circondato da un bellissimo parco, nel quale fu installata anche la fabbrica delle famose porcellane.
Fu trasformata in Residenza reale soltanto con i Re napoleonidi, Giuseppe Bonaparte prima e Gioacchino Murat, nei primi anni del XIX secolo.
Come Reggia, però, Capodimonte risultò troppo lontana dalla città.  Il percorso attraverso la Sanità cominciò ad essere poco funzionale al re e ai suoi ministri e pertanto sorse il problema di trovare un'altra strada. Ma dove e come? Architetti e urbanisti si misero all'opera e studiarono la zona e predisposero vari progetti.
Ponte Sanità
Fuori dal nucleo urbano oltre la porta di Costantinopoli, vicino al Palazzo degli Studi (oggi museo archeologico nazionale), c'erano sentieri che salivano, tra boschi incolti e campi alberati: uno andava verso l'Arenella e il Vomero, ( che veniva chiamato Infrascata  ( via Salvator Rosa) e un altro saliva ripido verso Capodimonte, ma ridiscendeva altrettanto rapidamente nel vallone della Sanità.  Da qui chi voleva raggiungere Capodimonte doveva prendere la vecchia strada.
Eppure la collina era lì, a due passi, cosa occorreva per superare il vallone della Sanità? Un ponte, un ponte che scavalcasse il vuoto  e si agganciasse direttamente alla collina. E' il classico caso di un ponte f necessario ad assicurare la “ continuità del corpo stradale ,,nell’attraversamento di … un profondo avvallamento del terreno”.
Il progetto prevedeva anche la costruzione di una nuova strada più grande del sentiero esistente, l'abbattimento di alcuni edifici, casupole e monasteri, e la costruzione del Ponte. Fu approvato e subito iniziarono i lavori. Era il 14 agosto 1807, mentre regnava a Napoli Giuseppe Bonaparte.
L'inaugurazione avvenne nel 1810 con Gioacchino Murat e la regina Carolina Bonaparte, alla strada  fu dato il nome di Corso Napoleone.
Dopo Waterloo e la sconfitta di Napoleone e dei suoi, nel 1815 a Napoli tornò Ferdinando di Borbone, che apprezzò il lavoro e cambiò solo il nome alla strada, che da allora fu divisa in due parti, la prima si chiamò strada Santa Teresa degli scalzi, dalla chiesa seicentesca   intitolata alla santa che sorgeva lungo la strada, e la seconda, dopo il ponte, strada nuova Capodimonte. Non c'è da meravigliarsi se uso il termine strada, perché all' epoca  e anche dopo, le vie erano dette strade e le piazze si chiamavano larghi.
Nel 1818 si rese necessario intervenire per modificare il tracciato della strada rendendolo  più piano perché in alcuni punti era troppo alto, rispetto anche alle vie laterali, da creare una discesa abbastanza scomoda fino al ponte.
Il ponte, più di 100 metri di lunghezza e sei  arcate a tutto sesto di uguali dimensioni, alcune delle quali, però, nascoste dalle costruzioni che si ammassano  di fianco e sotto.
Dal ponte è possibile vedere la splendida cupola maiolicata della chiesa di S .Maria della Sanità, oltre che una visuale di tutto il quartiere.
Nel 1937 fu installato sul ponte un ascensore per salire e scendere nel quartiere sottostante, ancora oggi  funzionante e aperto al pubblico.
Su richiesta della popolazione del quartiere, nel 2011 il ponte è stato intitolato a Maddalena Cerasuolo, napoletana di quel  quartiere, partigiana nell'ultima guerra, partecipò attivamente alla cacciata dei tedeschi da Napoli nella insurrezione delle  quattro giornate che provocò la liberazione della città dalle truppe tedesche e prese parte attiva alla battaglia per la difesa del ponte che i guastatori tedeschi volevano far saltare. Fu insignita della medaglia di bronzo al valor militare.






mercoledì 18 ottobre 2017

Ponti di Napoli, Tappia

Ponti a Napoli,
Tappia


Carlo Celano, letterato napoletano del '600, con una grnde passione per l'arte e l'architettura, scrisse e pubblicò, verso la fine di quel secolo, “Le Notizie del bello, dell'antico e del curioso della città di Napoli “, una specie di guida turistica, divisa in dieci giornate, per illustrare monumenti e palazzi ai forestieri in visita alla città.
Dopo aver guidato il visitatore per il largo di palazzo ( oggi p.za Plebiscito) e quindi per il castel nuovo ( oggi maschio angioino) e le vicinanze, così scriveva: “Usciti dunque nella gran Strada di Toledo, prendendo il camino a sinistra verso il Regio Palazzo, dall’una mano e l’altra vi troveranno bellissime habitationi palatiate, tutte quasi d’un’istessa altezza, e …...più avanti a destra vi è un altro vico detto del Ponte di Tappia, per un ponte che vi fu fatto fabricare dal regente Carlo Tappia a comodità di passare dalla sua casa grande alla picciola.....”.
Capiamo subito dove ci troviamo, nella gran strada di Toledo, che tutti i napoletani di Napoli conoscono bene.
La strada porta il nome di don Pedro Alvarez di Toledo, marchese di Villafranca, per oltre vent'anni Vicerè spagnolo di Napoli dal 1532. Egli trasformò completamente la città, abbattendo e costruendo nuove mura, mutando la destinazione d'uso di castel Capuano( Tribunale), avviando la costruzione di palazzo reale, combattendo il malaffare e la criminalità, affrontando l'emergenza del terremoto nei Campi flegrei.
Tra le altre iniziative, fece tracciare e costruire la via che porta ancora oggi il suo nome, dritta e lunga più di un chilometro, da largo del Mercatello ( piazza Dante) fino al largo di palazzo. Prima non era altro che un fosso, già in secoli passati alveo di un antico fiume, ridotto a immondezzaio, lungo il quale correvano le mura aragonesi.
Con Toledo le mura furono abbattute e allargate fin sulla collina del Vomero, l'alveo fu ripulito e la nuova strada fu lastricata e resa perorribile da tutti..
Via Ponte di Tappia
Lungo la strada, mentre a monte fece costruire i Quartieri, edifici quadrati adibiti a caserme per le truppe di stanza in città, sorsero grandi palazzi nobiliari che vediamo ancora oggi.
Tra i vari palazzi che sorgevano in quell'area, nel 1566, su progetto dell'architetto Giovanni Francesco di Palma, fu costruito, a lato della strada di Toledo, dopo l'attuale largo Carità e la stazione della Metropolitana, un palazzo, su incarico di Egidio Tapia (o Tappia), spagnolo, giudice della gran Corte della Sommarìa ( una specie della nostra Corte dei Conti).
Egli ci andò ad abitare con la famiglia, e dopo qualche anno, per l'esattezza nel 1574, acquistò un palazzo situato di fronte, separato da una stradina trasversale. Tappia lo fece ristrutturare e per maggiore comodità, per andare da una casa all'altra, fece costruire un ponte di collegamento tra i due palazzi. Chi sa se la costruzione era abusiva e ci fu qualche condono edilizio, fatto sta che così nacque il ponte di Tappia.
Nel tempo la strada fu indicata come via Ponte di Tappia e lì furono istituite anche prigioni cosiddette civili, cioè quelle per debiti.
Nel 1832, il palazzo fu acquisito dal principe Tocco di Montemiletto che lo ristrutturò completamente.
Con l'unità e successivamente nel XX secolo, la struttura del ponte fu demolita e anche la strada non fu più la stessa. Vennero aperte nuove vie e modificate quelle esistenti tanto che oggi molte non esistono più. Anche Il ponte di Tappia, come altri, diventò ed è ancora oggi, solo un toponimo urbanistico.

Ponti di Napoli, Casanova

Ponti di Napoli
Ponte di Casanova


Chiariamo subito che il famoso Giacomo, veneziano, non c'entra niente. “Casanova” indica soltanto edifici e abitazioni “nuove” costruite nell'area dell'Arenaccia, quando Napoli fu investita dai lavori del Risanamento alla fine del XIX secolo.
"Arenaccia” etimologicamente deriverebbe da “Arena”, sabbia, terreno arenoso, in napoletano “Rena”. Si trova nella parte orientale di Napoli, verso Poggioreale e la zona detta della Doganella.
In questa area, nel XVI secolo, si tenevano tornei e giostre sulla sabbia, che però diventava fangosa per l’accumulo delle acque piovane, dette lave, che scorrevano giú per i Camaldoli, il Vomero, da Capodimonte e Capodichino. Dal vocabolario napoletano di Vincenzo De Ritiis (1845): la "Renaccia. Così chiamasi quella zona di terra incolta all’oriente di Napoli per la quale corrono le alluvioni che discendono dalle alture settentrionali".
Tutte le testimonianze sul Sebeto attestano che il fiume passava per questa strada, prima di gettarsi nelle acque del porto, nei pressi del castello del Carmine.
Via Casanova
La prima costruzione del ponte iniziò solo nel 1812, con il re Gioacchino Murat che voleva raggiungere, da via Foria, il campo di Marte a Capodichino, oggi Aereoporto, dove si effettuavano manovre militari. Ma i lavori non furono iniziati che molti anni dopo, nel 1840, e il ponte venne inaugurato da Ferdinando II di Borbone. Nello stesso periodo si ipotizzarono interventi a occidente nell'area di Chiaia, Posillipo e sulla collina del Vomero, con relative liee di collegamento con gallerie e funicolari. Un progetto molto moderno, poi attuato e perfettamente funzionante ancora oggi. Furono inoltre ideati interventi di risanamento delle aree orientali della città, allora extraurbane , oggi tra il corso Garibaldi e S. Giovanni a Teduccio, e di edificazione di un nuovo quartiere residenziale destinato alle famiglie operaie. Era previsto infatti l'espansione del porto e l'insediamento di industrie, soprattutto siderurgiche, in quell'area dove si trovavano le stazioni delle prime linee ferroviarie. Fu inoltre presentato al Re un progetto nel quale si trovava già il tracciato del Corso Garibaldi ed il disegno di alcuni dei fabbricati lungo il suo percorso.
Gli eventi politici del 1859-1860, la guerra e la fine del Regno non permisero di portare a termine I progetti, già peraltro attuati in parte. Dopo l'unità si fermò tutto e un nuovo progetto, a causa di lungaggini burocratiche, dovette attendere oltre trent'anni e l'epidemia di colera del 1884, per trovare attuazione con la Legge per il Risanamento di Napoli. Fu sventrato il cuore storico della città, furono abbattuti interi quartieri popolari, migliaia di persone persero le loro case per far posto a nuove strade, a palazzi destinati alla media e alta borghesia e a rioni di edilizia popolare. Furono perciò costruite le “Case nove” che diedero il nome al quartiere e al ponte che, però, era ormai a livello stradale (come da foto della via Casanova) e non aveva più alcuna funzione. Oggi non ne ho trovato traccia neanche in un disegno, ed è diventato, come il ponte della Maddalena, solo un toponimo urbanistico.



Ponti di Napoli, la Maddalena

Ponti a Napoli

Ponte” si definisce quella “struttura che consente l'attraversamento di un corso d'acqua o il superamento di altri ostacoli”. Meglio ancora la :” struttura che consente a vie di comunicazione terrestri l'attraversamento di corsi d'acqua o di avvallamenti”(Devoto-Oli) .
Ancora più specifico, secondo Treccani : “Manufatto di legno, di ferro, di muratura o di cemento armato che serve per assicurare la continuità del corpo stradale o ferroviario nell’attraversamento di un corso d’acqua, di un braccio di mare, o di un profondo avvallamento del terreno”.
Napoli è una città di mare, c'è tanta acqua salata, c'è un magnifico Golfo conosciuto in tutto il mondo, ma non mi risultano “bracci di mare” nel suo significato di stretto, o canale o insenatura profonda e allungata (De Mauro). La città non ha neppure acqua dolce, cioè non ci sono corsi d'acqua, fiumi.
Però ci sono ponti, alcuni ancora utilizzati, altri di cui si è perso anche il nome, altri ancora il cui ricordo è rimasto nella toponomastica della città. Come spiegarci questa stranezza? Forse ci sono altri ostacoli da superare? Certamente sì: ostacoli come avvallamenti, dovuti alla particolare morfologia del terreno dove la città fu fondata e costruita, fatta da colline di diversa altezza, valloni, abbassamenti e innalzamento di terreno, ripide salite e discese.
Ma...in città ci sono zone dove non risultano altri ostacoli e tanto meno fiumi, dove esistono vie o piazze, palazzi, che chiamiamo ponte di....., ponte de....... E allora? Come la mettiamo?
A un visitatore che chiede di vedere, per esempio, il ponte della Maddalena che gli raccontiamo? E il ponte di Tappia? Chi sa dare una risposta esauriente? La risposta non è difficile, è solo lunga perchè bisogna tornare indietro nel tempo, dove più, dove meno. E inizio dalla Maddalena.
Ponte della Maddalena

L' area orientale dell'antica Neapolis era raggiungibile da tre Porte, la Nolana, la Herculanense o Furcillense e la più nota Capuana. Oltre queste porte c'era il nulla: foreste, sentieri, acquitrini e paludi, alimentati da fiumi che sfociavano a mare, forse qualche ponticello.
Sui corsi d'acqua gli storici e gli archeologi concordano su una cosa: questi fiumi scorrevano con forza intorno alle antiche mura della città, secondo alcuni alimentati da sorgenti della Bolla sul monte Somma ( Vesuvio), secondo altri invece dalle acque delle colline di Capodimonte e della Sanità. Secondo alcuni, i fiumi erano due: a nord era il Clanis, che proseguiva a oriente in una zona paludosa, fuori porta Capuana e verso Capodichino.
Fontana del Sebeto
Dal termine Clanis, poi trasformatosi in Clanio, deriverebbero – secondo qualcuno - i termini “lagni”, i “regi lagni”, quei canali rettilinei, per lo più artificiali, che attraversano Comuni della città metropolitana di Napoli e delle province di Caserta, Avellino e Benevento. Il Sebeto invece scorreva verso la pianura che oggi è Toledo e sfociava nella zona tra piazza del Plebiscito sotto Pizzofalcone e la piazza del Municipio.
Secondo altri, era un solo fiume, il Sebeto, proveniente dalle sorgenti della Bolla sul monte Somma, che giunto a Napoli, probabilmente si divideva in due rami principali che sfociavano l’uno nella zona di piazza del Municipio e l’altro in quella orientale fuori porta Capuana. La parte orientale scorreva in quella che oggi è via Foria, lambendo le mura a nord della città e ricevendo acqua e detriti dalle colline della Sanità e Capodimonte. ( nella foto la fontana dedicata al fiume Sebeto)
Al di la di queste diverse opinioni, resta il fatto che, nel V° secolo a. C. e per tutta l'epoca romana, c'erano corsi d'acqua a Napoli, che esigevano la costruzione e quindi la presenza di ponti.
Nell’epoca romana imperiale, la zona orientale era stata bonificata e resa abitabile e percorribile. Poi, dopo l'impero, l'assenza di manutenzione, la decadenza e la mancanza di validi tecnici, provocarono l'abbandono dell' area e il ritorno delle paludi.
Restava per fortuna in piedi, anche se malmesso, qualche ponte che consentiva l'attraversamento da e per la città. In particolare esisteva già in epoca romana un ponte sulla foce del fiume, ma non ne conosciamo il nome. Sappiamo invece che nel XII secolo, il pons paludis, dopo l’assedio della città da parte del normanno Roberto il Guiscardo del 1078, prese il nome di ponte Guizzardo.
Ponte della Maddalena nel '700
La foce del Sebeto era sempre stata ricca di terreni fertili e si prestava sia alla coltivazioni che all’allevamento, in particolare di bufali, sfruttati per la produzione di formaggi e latticini. Nei pressi del ponte lavorava un mulino e vi furono trasferite molte attività che non trovavano posto in città.
Nel corso dei secoli successivi il fiume iniziò un lento ma costante interramento. Quel ponte sulla foce fu chiamato della Maddalena, dopo l’alluvione del 1566, in onore di una chiesa del XIV secolo, che si trovava nei pressi ed era dedicata a Santa Maria Maddalena ( nel dipinto).
Nel XVIII secolo il ponte della Maddalena era formato da cinque grandi arcate, con quella centrale più ampia rispetto alle altre, aveva all’ingresso due edicole alquanto simili, formate da colonne di marmo bianco con un frontone triangolare. Sul lato sinistro vi era la statua di San Giovanni Nepomuceno, patrono di tutti coloro che rischiano di annegare. A destra c'era una statua di San Gennaro, realizzata nel 1768. Nel 1799 vi si svolse l'ultima battaglia tra le truppe della Repubblica Partenopea, rimaste senza l'appoggio francese, e quelle sanfediste del Cardinale Ruffo, che sancirono la fine della Repubblica Partenopea. Il ponte fu riempito di forche e di impiccati.
Nel 1875 il ponte fu restaurato ed abbassato per consentire un servizio di omnibus tra Napoli, Largo San Ferdinando e Portici. Quì, ai Granili, gli omnibus cambiavano le ruote e proseguivano su rotaie fino a Portici, come un tram.
Prosciugate le paludi, scomparso il fiume, la zona subì una edificazione selvaggia, oggi è densamente abitata e trafficata, e il ponte esiste ormai solo nella toponomastica della città.






mercoledì 14 giugno 2017

Castello del Carmine


Castello del Carmine

L' area orientale della città di Napoli, una volta extra moenia, zona della stazione centrale e di Poggioreale da un lato, e della Marina dall'altra, era da sempre una zona paludosa e malsana; lì sfociava un fiumiciattolo chiamato nell'antichità Sebeto, attraversato da ponti di cui oggi è rimasto solo il nome: il ponte della maddalena o quello di casanova.
Fu Carlo I d'Angiò che, verso la fine del XIII secolo, spostata la capitale a Napoli da Palermo, ordinò una serie di interventi e lavori, iniziando proprio con la bonifica di quell'area.
Castello del Carmine disegno dall'alto
Diede poi il via a lavori di ampliamento delle mura meridionali arrivando vicino al mare, includendo il cosiddetto Moricino o Muricino, un antemurale situato a guardia del porto, dove si svolgevano attività commerciali o anche artigianali legate al movimento delle navi. Fece poi trasferire in quell' area il mercato ( dove oggi è piazza Mercato) che prima era nel centro vicino S. Lorenzo maggiore (oggi p.za S. Gaetano), e nei pressi fece costruire due chiese, S. Eligio e poi quella di S. Maria del Carmine.
Dopo varie vicende, guerre, assedi e morti, causati da problemi di successione al trono, nel 1382 Carlo III d'Angiò-Durazzo, nuovo re di Napoli, ritenendo che su quel lato fosse necessario una nuova fortificazione, fece costruire lungo la spiaggia, un castello che, per la sua forma a sperone, fu chiamato appunto dello Sperone, e solo molto più tardi del Carmine, dalla vicina chiesa.
Castello dello Sperone
Il progetto prevedeva una destinazione di esclusivo uso militare di difesa da attacchi dal mare: furono edificate due grandi torri cilindriche, un torrione più grande e mura merlate rinforzate da grossi blocchi di piperno, dai quali spuntavano bombarde e altri strumenti di offesa. Il castello disponeva ovviamente di una caserma per i soldati, l'alloggio per il comandante e alcune celle.
Dopo qualche anno, nel 1439, l'area e il castello furono assediati dall' esercito di Alfonso d'Aragona e il forte fu bombardato da ogni lato. Durante questo assedio fu distrutto anche il campanile della vicina chiesa del Carmine: le cannonate colpirono anche l'abside e un grande crocifisso scolpito in legno di tiglio tra il XIII e il XIV secolo. Tutti pensarono che era andato distrutto, ma subito nacque la leggenda:“ grande fu invece la meraviglia del popolo – racconta V. Gleijeses - quando si potè constatare che la statua era intatta e solo la testa del Cristo si era piegata come per evitare il colpo mortale; mentre prima era rivolta verso il cielo, infatti, dopo il colpo tutti poterono constatare che era ripiegata sull'omero destro con la bocca e gli occhi ben chiusi e senza la corona di spine che aveva avuta sul capo”.
Qualche anno dopo regnava la dinastia Aragonese e il re Ferdinando I decise di affidare lavori di rifacimento delle mura e di ampliamento del castello all' architetto Francesco Spinelli o, secondo altri, a Giuliano da Majano.
Tra il 1647 e il 1648, durante la rivolta di Masaniello, il Carmine fu occupato dai ribelli e scelto come dimora da Gennaro Annese, diventato punto di riferimento degli insorti dopo la morte dello stesso Masaniello.
Nel corso del tempo il castello fu più volte ristrutturato e risistemato, poiché subì sempre assedi assalti e bombardamenti: restauri furono eseguiti, ad esempio, nel 1662 quando il viceré spagnolo conte di Pegnaranda fece aggiornare la struttura alle nuove esigenze belliche e anche abbellire gli interni, conferendo maggiore risalto agli arredi e alle stanze che avrebbero dovuto ospitare ufficiali più esigenti.
Nel secolo successivo fu teatro di altre imprese, come nel 1707, quando alcuni aristocratici napoletani organizzarono la “Congiura di Macchia” contro il Vicerè spagnolo, tentando di impossessarsi del castello, ma non combinarono niente, furono arrestati e condannati a morte. O ancora nel 1799, con la fine della Repubblica partenopea, fu conquistato dalle bande del cardinale Ruffo che agiva per conto del re Ferdinando IV. Ospitò, nella Torre Spinella, di cui da poco è stato ritrovato l'accesso, Eleonora Pimentel Fonseca e altri ad agosto di quell'anno prima di essere condotti a morte nella vicina piazza Mercato
Resti del castello in via Marina
Nel 1860, l' ultimo reparto borbonico presente nel castello provò un estremo e ultimo tentativo di resistenza alle bande garibaldine che erano già in città.
Il castello resistette in piedi fino al 1906, quando fu demolito per far posto a via Marina.
Oggi della struttura sono rimasti visibili i ruderi di due torri e una parte di cinta muraria lungo via Nuova Marina, ripuliti ma degradati a spartitraffico nel largo adiacente la chiesa del Carmine.
Con il castello del Carmine termina il racconto delle fortezze poste a difesa della città e del golfo di Napoli. Oltre ai forti c'erano, disseminate lungo la costa fino a Sorrento, varie torri di avvistamento, alcune medievali altre più moderne, a difesa di eventuali assalti dal mare. Alcune di queste hanno lasciato un ricordo nel nome dei luoghi dove sorgevano: a Napoli la Torretta, nella zona tra Riviera di Chiaia e Mergellina, nei dintorni, la Torre del greco e Torre Annunziata, oppure a nord a Torregaveta.


























martedì 23 maggio 2017

NAPOLI e il dott. Faust


Napoli e il dott. Faust



“…...Then up to Naples, rich Campania,Whose buildings fair and gorgeous to the eye, The streets straight forth, and pav'd with finest brick, Quarter the town in four equivalents:There saw we learned Maro's golden tomb, The way he cut,* an English mile in length, Thorough a rock of stone, in one night's space; …...”, (dott. Faustus di Crisstopher.Marlowe, 3° atto, scena prima).

                                                          Introduzione


Enzo Scala, direttore della Scuola superiore di arte drammatica con sede a Tenerife, Canarie, regista e attore e docente, mi scriveva qualche giorno fa:
"Caro Giovanni, sto dirigendo l'atelier di teatro classico con i miei alunni del cuarto e ultimo anno. Ho scelto il Fausto di Marlowe , e grata é stata la mia sorpresa quando leggo que di ritorno da un viaggio que gli propone Mefistofele, Fausto commenta cosí la gita:
“…...e dopo, la Campania felice, fino a Napoli: le case son belle qui a vedersi, lussuose,le strade ben diritte, e lastricate di bei mattoni; e lì, la tomba d'oro vedemmo di Marone il savio, e quella strada ch'egli tagliò, lunga d'un miglio traverso una pietrosa rupe, in una notte soltanto...”
A margine del testo inglese c'è inoltre una nota: “During the middle ages Virgil was regarded as a great magician, and much was written concerning his exploits in that capacity. The LYFE OF VIRGILIUS, however, (see Thoms's EARLY PROSE ROMANCES, vol. ii.,) makes no mention of the feat in question. But Petrarch speaks of it as follows” ,seguito da un brano in latino: "Non longe a Puteolis Falernus collis attollitur, famoso palmite nobilis. Inter Falernum et mare mons est saxeus, hominum manibus confossus, quod vulgus insulsum a Virgilio magicis cantaminibus factum putant: ita clarorum fama hominum, non veris contenta laudibus, saepe etiam fabulis viam facit. De quo cum me olim Robertus regno clarus, sed praeclarus ingenio ac literis, quid sentirem, multis astantibus, percunctatus esset, humanitate fretus regia, qua non reges modo sed homines vicit, jocans nusquam me legisse magicarium fuisse Virgilium respondi: quod ille severissimae nutu frontis approbans, non illic magici sed ferri vestigia confessus est. Sunt autem fauces excavati montis angustae sed longissimae atque atrae: tenebrosa inter horrifica semper nox: publicum iter in medio, mirum et religioni proximum, belli quoque immolatum temporibus, sic vero populi vox est, et nullis unquam latrociniis attentatum, patet: Criptam Neapolitanam dicunt, cujus et in epistolis ad Lucilium Seneca mentionem fecit. Sub finem fusci tramitis, ubi primo videri coelum incipit, in aggere edito, ipsius Virgilii busta visuntur, pervetusti operis, unde haec forsan ab illo perforati montis fluxit opinio." ITINERARIUM SYRIACUM,—OPP. p. 560, ed. Bas.] ".
Non conosco l'inglese ma è stato facile riconoscere due nomi, Virgilio e Petrarca e capire, dal brano latino, che si parlava di Napoli ai tempi di Re Roberto d'Angiò e della leggenda di Virgilio Mago.
La citazione, così' particolareggiata, di Napoli, in un dramma inglese del '500,e l'accenno alla leggenda di Virgilio Mago, ha suscitato ovviamente curiosità e poi stimolo a saperne di più e a capire come l'autore del dramma conoscesse storie e leggende di una città così lontana.
Iniziamo prima di tutto con un po' di storia del periodo.

                                         L' Europa del periodo

Siamo nel XVI secolo. Il periodo in Inghilterra e anche in tutta l'Europa, non era dei migliori.
L'Inghilterra e gli altri paesi europei erano tutti coinvolti in guerre di religione, cristiani contro cristiani, calvinisti, luterani e cattolici.
I protestanti luterani seguaci di Martin Lutero, che aveva dato il via alla riforma protestante a negli anni veti del 'XVI secolo, i calvinisti seguaci di Giovanni Calvino, che in verita era svizzero e si chiamava Jehan Cauvin. Con Lutero , fu anche egli riformatore religioso del cristianesimo europeo degli anni venti e trenta del secolo, anche se il suo pensiero si distinse in parte dal quallo luterano.
La chiesa cattolica, per correre ai ripari, con papa Gregorio XIII e poi con Sisto V, avviò la controriforma con il concilio di Trento che durò 18 anni, dal 1545 al 1563. Quel concilio però, invece di conciliare, sconfessò tutto ciò che Lutero e gli altri riformatori sostenevano e, così facendo, diede il via a dissidi, ribellioni e guerre. Molti Stati tedeschi si schierarono contro il Papa.
In Inghilterra, Enrico VIII, non avendo ottenuto l'annullamento papale del matrimonio con la spagnola Caterina, che non poteva aver figli, si ribellò al papa, allontanò Caterina, abbracciò il protestantesimo, si dichiarò capo della chiesa di Inghilterra e sposò Anna Bolena, dalla quale nacque nel 1533, Elisabetta.

Elisabetta I
Nel 1558, Elisabetta, sostenuta dai suoi seguaci protestanti, salì al trono d'Inghilterra. Fu un periodo difficile funestato da forti tensioni religiose e tentativi di congiure contro di lei, e guerre contro la Spagna cattolica, dalla quale l'Inghilterra uscì vittoriosa . Sotto il suo regno furono poste le basi della futura potenza commerciale e marittima dell 'Inghilterra. La sua epoca fu anche un periodo di straordinaria fioritura artistica e culturale: William Shakespeare, Cristopher Marlowe, Ben Jonson, Edmund Spenser e Francis Bacon sono solo alcuni degli scrittori e pensatori che vissero durante il suo regno.
L'impero spagnolo era mondiale, con Carlo V e poi il figlio Filippo II, aveva possedimenti e colonie nella Americhe, nelle Filippine, nei paesi Bassi e dominava il Mediterraneo dai territori insulari siciliani e continentali con Napoli capitale.
La Spagna fomentava ribellioni contro l'inghilterra e lo stesso Papa Gregorio inviava truppe a combattere a favore dei cattolici d'Irlanda. La Francia cattolicissima era attraversata da dissidi interni con altre religioni non ancora però in grado di fomentare rivolte. Il re Carlo VIII, nel 1495, era sceso in Italia ed era arrivato fino a Napoli nel tentativo di toglierlo agli Aragona, ma aveva dovuto desistere e tornarsene indietro.
Il suo successore Luigi XII, nel 1498, riprese la guerra e accordatosi con il re di Spagna, Ferdinando detto il cattolico,(quello che insieme alla moglie Isabella di Castiglia aveva dato tre navicella aun certo Colombo), tornò nel sud Italia e insieme agli alleati spagnoli, riusci ad avere ragione del re di Napoli, che si arrese.
Ma il patto tra Francesi e Spagnoli durò poco, ben presto si scontrarono per la spartizione del bottino. Per non farla lunga, gli Spagnoli ebbero la meglio e il 14 maggio 1503, il Gran capitano don Consalvo di Cordova entrò a Napoli e tutto il sud fino alla Sicilia, divenne una provincia spagnola. A Napoli e a Palermo furono inviati dei Vicerè che, generalmentem sfruttavano le risorse dei territori loro affidati, senza produrre niente di buono per il popolo e le città.
Tranne uno, secondo me. Napoli fu completamente trasformata e abbellita da don Pedro di Toledo che governò 21 anni, dal 1532 al 1553, e il cui nome resta legato a quella strada lunga, dritta e lastricata che ancora oggi porta il suo nome.
Ora, però, andiamo a conoscere Cristopher Marlowe e il suo Faust.
                                        Marlowe e Faust


Cristopher Marlowe
Christopher Marlowe, fu drammaturgo, poeta e traduttore inglese. La data di nascita viene collocata nel 1564 , ma non è certa, mentre certa è quella della morte avvenuta il 30 maggio 1593 a 29 anni, nel corso di una misteriosa rissa avvenuta in un locale malfamato. Il giovanotto si laureò presso l'Università di Cambridge, studiava e traduceva anche i classici latini e i poeti italiani dei secoli precedenti. Da quel che raccontano i suoi biografi, la sua breve vita fu avventurosa e dissoluta. Fu accusato anche di libertinaggio e omosessualità, e anche di essere uno 007, un agente del servizio segreto di sua Maestà Elisabetta I.
Tra le altre opere come Dido, Queen of Carthage (Didone, regina di Cartagine, 1586 circa) Tamburlaine,in due parti(Tamerlano il Grande,, 1587/1588 circa) o anche traduzioni di classici latini come Pharsalia di Marco Anneo Lucano (1592 circa) e Amores di Publio Ovidio Nasone (1592 ), egli compose il dramma che ci interessa, cioè Doctor Faustus (La tragica storia del Dottor Faust, nel 1590 circa).
Dottor Faustus è basato su un antico racconto popolare, forse di origine germanica, che, secondo alcuni storici, potrebbe a sua volta essere stato influenzato da precedenti trattati latini, ma tutto è andato perso.
Il dramma si sviluppa con la presenza di due angeli, uno maligno e uno buono che invano provò a redimerlo e fargli rompere l'accordo con il diavolo. 
La trama è semplice e sarà ripresa con qualche modifica, nel XIX secolo, da Wolfgang Goethe.
   Faustus era un grande studioso avido di conoscenze,e non gli bastava più quello che si studiava nelle Università e nelle Accademie. Egli voleva di più, si avventurò nel campo della magia e della stregoneria. Nello studio dove aveva appena fatto un incantesimo gli apparve il diavolo, Mefistofele, che gli propose un patto: Faustus, potrai avere tutta la conoscenza e il sapere che desideri, aiutato da me, avrai la tua vita per 24 anni e al termine di questo tempo, in cambio, avrò la tua anima. Faustus accettò il patto.    Inutile dilungarsi molto sullo svolgimnto della tragedia. Ciò che mi interessa non è la qualità stilistica o artistica della tragedia, né le imterpretazioni o l'idea dell'autore, o il significato della leggenda, ma soltanto esaminare l'origine di quelle affermazioni relative a Napoli.
Esaminiamole quindi nella loro completezza.

Siamo nel 3° atto, scena prima. Faustus e Mefistofele si trovano a Roma, addirittura negli appartamenti papali.
Faust: Gentile Mefistofele, or che abbiamo con gran diletto vista la città di Treviri grandiosa, tutta cinta da cime aeree, da rocciose mura, da fondi specchi d'acqua per fossati, di certo inespugnabili ad un principe che venga per conquista; e da Parigi poi, osteggiando il regno della Francia, vedemmo il Meno traboccar nel Reno, che folte ha rive di feraci vigne e di foreste; e dopo, la Campania felice, fino a Napoli: le case son belle qui a vedersi, lussuose, le strade ben diritte, e lastricate di bei mattoni; e lì, la tomba d'oro vedemmo di Marone il savio, e quella strada ch'egli tagliò, lunga d'un miglio traverso una pietrosa rupe, in una notte soltanto; e poi, verso Orïente a Venezia, ed a Padova; ed in una di queste s'alza un tempio sontuoso a minacciar le stelle con le sue ambiziose guglie, e le strutture d'infinite pietruzze colorate son ricoperte, e tutta un' opra strana d'oro è la volta. In tal modo, finora, passai il mio tempo. Ma ora dimmi, a quale tappa noi siamo? E non m'hai tu condotto tra le mura di Roma, come io volli?
Mefistofele: ora tu devi sapere, Faust, che questa Roma sorge su sette colli, che le fondamenta ne reggono: e trascorre proprio in mezzo l'onda ratta del Tevere e divide con sinuose sponde la città.
S'inarcano su d'esse quattro ponti superbi, ed apron facile il passaggio verso ogni parte. E sopra uno, ch'è detto Ponte Angelo, s'eleva poderoso molto un castello, dove tu vedrai d'artiglieria tal copia, che i cannoni doppi gettati in bronzo sono tanti quanti giorni vi sono dentro il giro di un anno; ed alle porte è un obelisco alto, che portò Cesare dall'Africa”.(1)
   Il racconto come si vede procede a zig-zag: Marlowe cita Treviri, antica città tedesca, di origine romana, che egli doveva conoscere bene dal momento che parla di alte mura imprendibili e fossati intorno. Mentre sorvola su Parigi perchè avverso al regno di Francia, e salta direttamente ai confini tedeschi sul Reno. E' possibile che la Francia e Parigi vengano ignorate per i contrasti religiosi esistenti tra protestanti inglesi e cattolici francesi? Mentre alla Germania viene dedicato più spazio perchè luterana?
   Poi Faustus scende in Italia e illustra prima la Campania, poi Venezia e Padova, ma non sa dove sia un “tempio sontuoso” che infatti non nomina, ma che immagino si riferisca alla basilica di San Marco a Venezia: strana questa ignoranza su uno degli Stati più importanti della penisola, la Repubblica Serenissima di Venezia.. E infine Roma, la città papale odiata dai protestanti,di cui Marlowe doveva conoscere la storia avendo studiato classici latini e anche medioevali.


   
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NOTA 1:  I ponti importanti a Roma, inel XVI secolo erano effettivamente quattro: Ponte Milvio, Ponte Sisto, Pnte Elio o Sant'Angelo, e Ponte Maggiore. C'era in realta anche un altro ponte che univa l'isola tiberina in mezzo al fiume alla terraferma, ma non era importante.
   Il castel S.Angelo era stato in realtà un Mausoleo, voluto da all'imperatore Adriano come tomba per se stesso  e per i suoi successori,  fu iniziato intorno al 123 e terminato un anno dopo la morte di Adriano dal successore Antonino Pio.


    
                                 La Campania e Napoli


     
Ed eccoci invece in Campania. La descrizione che ne fa Marlowe attraverso Faust è precisa e dettagliata. E' sorprendente che, alla fine del XVI secolo, un poeta e scrittore inglese che mai si era mosso dalla sua isola, parli così di una lontana città mediterranea.
Tavola Strozzi, Castel nuovo
Cosa dice Faust ?
1) La Campania è felice:,
2) Napoli ha case belle e lussuose,
3) Napoli ha strade dritte e lastricate con bei mattoni,
4) Napoli ha una tomba d'oro di un tal Marone detto il savio,
5) Napoli ha una strada lunga che questo Marone tagliò in una sola notte attraverso una montagna pietrosa.
La domanda alla quale vorrei rispondere è: Come faceva Marlowe a conoscere certi particolari della città e anche una specifica leggenda partenopea?
Forse qualcuno gli aveva raccontato di case belle e strade drittee lastricate ? Sarà andato lui stesso a Napoli? Avrà parlato forse con qualche emigrante napoletano a Londra? Forse Marlowe considerava Napoli un luogo lontano e esotico, avvolto da misteri, da leggende e superstizioni ?
 In Inghilterra, in quel periodo, l' Italia non era amata troppo perchè considerata un grave pericolo per il corpo e per l'anima: i rigidi protestanti pensavano che nella penisola ci fosse molta libertà sessuale (pensa un po'!) e troppa tolleranza verso forme di perverione sessuale come l'omosessualità ( ripensa un po'!). Inoltre essi la ritenevano anche pericolosa per la presenza del Papa e dei nemici cattolici. E anche andare a Napoli, essendo un possedimento spagnolo, poteva essere era pericoloso. Però a Napoli c'era già da qualche anno una bella strada dritta e lastricata con bei mattoni: era la strada fatta costruire nel 1536 circa dal Vicerè don Pedro di Toledo e che ancora oggi porta il suo nome
Decumano maggiore( via Tribunali)
   E le case belle e lussuose? Tutte quelle che l'aristocrazia napoletana iniziò a costruire lungo la strada di Toledo. Potrebbe essere questa la risposta alla domanda che ci siamo posti oppure puo essercene un' altra e se c'è , dove la troviamo?
   Una possibile risposta la si può trovare, a mio parere, negli studi classici di Marlowe a Cambridge e nella nota in latino, allegata al testo inglese chiamata itinerarium syriacum.
   Fu Plinio il vecchio, scienziato, naturalista morto durante l'eruzione del Vesuvio del 79 d.C. a chiamare Felix la Campania, per sottolineare la fertilità della terra.
Le case belle e lussuose possono essere identificate con le domus di Neapolis o i palazzi medioevali, soprattutto di epoca angioina, che sorgevano lungo le strade dritte e lastricate con bei mattoni.
E quali potevano essere queste strade? La risposta, a questo punto, è semplice, non è via Toledo costruita intorno al 1540, ma sono i decumani e i cardini, quelle vie cioè che, sia da est a ovest sia da nord a sud, di origine greca, formavano la griglia ippodamea della città antica.
 Oggi corrispondono per esempio a via Tribunali, a Spaccanapoli, a via Nilo e via Atri, a S.Gregorio Armeno, tanto per citare quelle più note.
Detto ciò, ci sono altre due risposte da dare in merito al Savio Marone e a un'altra strada lunga scavata nella montagna in una notte: per cercarle si va in un mondo particolare, in quello delle magie, delle leggende e delle superstizioni popolari in città..


                           Misteri, energie e superstizioni


Fenomeni naturali, punti e luoghi di forza, paure, fantasie e invenzioni umane, tutto ciò che non si poteva spiegare razionalmente hanno dato luogo a leggende e miti in tutti i paesi e città della Terra.
I punti di forza o di alta energia sono quei campi magnetici presenti sul pianeta, dove persone particolarmente sensibili possono avvertire un'atmosfera diversa, che può cambiare radicalmente lo stato fisico e mentale.

Via Nilo
In epoche remote, donne e uomini che vivevano a stretto contatto con l'ambiente, sapevano cogliere meglio di noi le peculiarità di questi siti e li sceglievano come aree sacre, dove praticavano riti e misteri di fecondazione, guarigione e rigenerazione.
L'Italia è ricca di luoghi di forza: dallo spaventoso giardino di Bomarzo,in provincia di Viterbo, Il cosiddetto Parco dei Mostri, denominato anche Villa delle Meraviglie, un parco nel quale si trovano spaventose sculture, che rapresentano mostri, animali mitologici e divinità, al percorso iniziatico di Castel del Monte, vicino Bari, costruito da Federico II. Su quella struttura ritenuta anomala per un castello dell'epoca, sono sorte interpretazioni varie su iniziazioni massoniche oppure sulla presenza del Sacro Graal.
Napoli e i dintorni erano pieni di luoghi misteriosi e leggende ma anche di fenomeni naturali inspiegabili per gli antichi abitanti che perciò pensarono a Dei e a magie. A Ischia, le eruzioni e il fuoco che usciva dall'Epomeo era dovuto alla presenza nelle viscere del vulcano, del gigante Tifeo che muovendosi provocava eruzioni e terremoti.i movimenti.      
Basti pensare, alla tradizione del munaciello e della bella mbriana, al malocchio e la fattura, e l'interpretazione esoterica del bugnato della chiesa del Gesù nuovo. E poi ancora la Sanità e le catacombe, il cimitero delle Fontanelle e altre meno note come la strega di Port'alba Maria la rossa, e la leggenda del Palazzo Penne,che si trova nel largo Banchi Nuovi e che ricalca in qualche modo la vicenda di Faust e il diavolo, allo scioglimento del sangue di S.Gennaro,e alla leggenda di castel dell'Ovo.
Il luogo di più alta energia è stato individuato in quella parte della città dove c'era il vicus Alexandrinus, quella che oggi è via Nilo, quartiere di immigrati egiziani di Alessandria d'Egitto, dove si celelebravano “Misteri” ai quali partecipavano solo iniziati che avvertivano “vibrazioni magnetiche del suolo”.
Nella zona, da quanto raccontano archeologi e studiosi di esoterismo, già in tempi molto lontani si tramandavano leggende e simboli relativi a templi pagani, e a un cosiddetto “centro cosmico”, un luogo dove ci sarebbe una particolare corrente di magnetismo e di energia. Lì c'era un tempio contenente una statua “velata” di Iside e di Horus, Dei egiziani.  
Bartolomeo Capasso affermava che “...in fondo alla cella vi era l’immagine della Dea, che i filosofi credevano fosse il tutto, ciò che fu, è, e sarà: essa, dai soli sacerdoti e dagli iniziati poteva essere veduta….”.
Cappella S.Severo, Macchine anatomiche
Due millenni dopo, nello stesso luogo, un altro tempio - cristiano – accoglie statue “velate” e simboli, visibili dai soli iniziati o comunque da studiosi della materia, mentre un qualsiasi visitatore può provare ammirazione, stupore o turbamento, ma non può comprendere i segnali esoterici in essa contenuti. Si tratta della famosa cappella San Severo, un luogo avvolto da leggende popolari e misteri, pieno di magie e simboli esoterici messi lì da Raimonsdo di Sangro, principe di San Severo, gran maestro della Loggia massonica napoletana del '700. Alchimista, studioso di fisica, medicina, e filosofia, realizzò invenzioni incredibili per l’epoca, e poichè non ne spiegava mai i segreti, gli si creò intorno una inquietante leggenda di Stregone e Mago: il popolino che vedeva sprizzare dal suo palazzo, di giorno e di notte, bagliori di fornelli e sentiva stridori di macchine, vedeva gente strana che entrava e usciva, oggetti e opere straordinarie, mormorava di patti col demonio.
Nell'area a nord di Napoli, invece, nei cosiddetti Campi Flegrei, da Agnano a Pozzuoli, sul misterioso lago d' Averno,, a Cuma dalla Sibilla, nella Solfatara di Pozzuoli, i luoghi altamente vulcanici, soggetti a manifestazioni eruttive e a bradisismi, provocavano la fantasia degli uomini e producevano la nascita di miti e leggende, note ancora oggi..,Nella prima metà del IX secolo, con il duca Sergio I, i Campi Flegrei subirono la loro massima sommersione marina, dovuta al bradisismo negativo. A Pozzuoli le colonne marmoree dell’antico mercato romano, chiamato erroneamente tempio di Serapide, vennero sommerse fino a un’altezza di 6,30 metri. La popolazione si era spostata sulle colline circostanti. Secondo alcuni autori, in questa epoca il lago di Lucrino non esisteva più, essendo completamente sommerso dal mare, anzi appariva come una profonda insenatura marina che raggiungeva l’imboccatura del lago d’Averno.
Il lago d’Averno situato all'interno di un cratere vulcanico spento, avvolto da fiamme, fumi, esalazioni, gas, che impedivano a uccelli di volare e a pesci di vivere nell'acqua, fece pensare all'ingresso nel mondo dei morti, e lì Virgilio, nell'Eneide, fece andare Enea nel suo viaggio agli Inferi. C'era però chi non credeva a tante storielle ed era molto più pratico: Marco Vipsanio Agrippa, collaboratore e amivo di OttavianoAugusto, nel 37 a.C. aveva avuto l'incarico di trovare un porto sicuro per la flotta romana del Tirreno. Egli perciò individuò il luogo per la base navale facendo scavare un canale fra il mare ed il lago di Lucrino per formare un porto esterno e un altro fra il Lucrino ed il lago d'Averno per avere un porto interno.

                                   La tomba d'oro di Marone il Savio


E veniamo alla tomba d'oro e a Marone il Savio
Chi era Marone? Un illustre sconosciuto ? No, un'altra reminiscenza degli studi classici di Marlowe. Si tratta nientedimeno che di Publio Virgilio Marone, il maggiore poeta di Roma nel periodo Augusteo.
Non era un romano di Roma, ma un provinciale. Era nato vicino Mantova il 15 ottobre del 70 a.C. e visse in anni di grandi sconvolgimenti politici: guerre civili continue, Mario, Silla, Pompeo e Cesare e il suo assassinio alle idi di marzo del 44 a.C., poi ancora guerre civili, Bruto e Cassio, Ottaviano, Marco Antonio e Cleopatra, la vittoria di Ottaviano Augusto e la nascita dell'Impero.
Durante quegli anni, avendo perso molta parte delle sue terre mantovane, se ne andò a vivere - indovina un po' – a Napoli.
I suoi scritti più importanti furono le Bucoliche e le Georgiche, componimenti poetici sulla vita dei campi e dei pascoli, che gli valsero la conoscenza di Mecenate, che aveva possedimenti in Campania vicino Napoli, e l'ingresso nel suo circolo di poeti e letterati dell'epoca. Egli era in buona compagnia, c'erano Orazio, Catullo, Ovidio, Tito Livio e qualcun altro.
Attraverso Mecenate, Virgilio conobbe Augusto, collaborò alla diffusione della sua ideologia politica e scrisse il suo poema più importante, l'Eneide, nel quale attraverso la storia dell'eroe troiano Enea, narra la storia di Roma e dello stesso Augusto. Lo scrisse, dicono gli storici, in circa dieci anni fra Napoli e Roma.  Morì a Brindisi il 21 settembre del 19 a. C. appena sbarcato dalla nave che lo riportava indietro da un viaggio in Grecia.
Il corpo fu trasportato a Napoli, dove fu sepolto in una tomba sulla collina di Posillipo, che ha preso poi il nome di parco Virgiliano. Sulla tomba fu posta una iscrizione che raccontano dettata dallo stesso Virgilio in punto di morte:
Mantua me genuit( Sono nato a Mantova), Calabri rapuere (il Salento mi prese, nel senso che morì in quella regione a Brindisi, Calabri erano gli abitanti della Puglia, mentre l'attuale Calabria si chiamava Brutium), tenet nunc Parthenope( ora mi tiene, nel senso che è seppellito, Napoli); cecini pascua, rura, duces ( cantai, cioè scrissi, i pascoli, cioè le Bucoliche, i campi o le campagne, cioè le Georgiche ,i duci, cioè i condottieri, i guerrieri, cioè l'Eneide).
Da nessuna autore si riporta il fatto che la tomba, come dalle parole di Faustus, era d' oro o comunque dorata. Anzi non è neanche stata individuata bene. Secondo alcuni infatti il tempietto con l' urna contenente le ceneri del poeta era collocato sul percorso che costeggiando il mare a Chiaia ( oggi è la Riviera ), giungeva alla grotta che poi conduceva a Pozzuoli. Mentre altri hanno pensato a un colombario, che era un ambiente sepolcrale, nelle cui pareti erano ricavate le nicchie per la custodia delle ceneri, esistente sulla collina di Posillipo, all'imbocco della crypta.
Virgilio, busto
La fama letteraria di Virgilio dura ancora oggi, mentre è restata solo una curiosità quella più popolare che, a Napoli, nel medioevo normanno e angioino, lo indicò e venerò come “Savio”, cioè come Mago, attribuendogli poteri taumaturgici e protettivi della città. 
Virgilio diventò una specie di patrono della città, dopo la Sirena Partenope e prima dell' ascesa di San Gennaro. Gli scrittori medioevali biografi di Virgilio scatenarono la propria fantasia nell'attribuirgli le cose più strampalate e incredibili, come ad esempio la costruzione di un cavallo di bronzo capace di mantenere sani i cavalli, una mosca di bronzo col potere di allontanare le mosche dalla città, un macello nel quale la carne poteva mantenersi intatta per sei settimane, una statua di bronzo che rappresentava un uomo con l’arco teso e la freccia pronta a essere scoccata verso il Vesuvio, per tenerlo sotto controllo e difendere Napoli dalle eruzioni. E non finisce qui. Sarebbe stato Virgilio il mago a consigliare all'imperatore di costruire l'acquedotto del Serino, che arrivava fino a Miseno; avrebbe poi fatto costruire una rete fognaria e pozzi e fontane per la città oltre ai complessi termali di Baia e Pozzuoli, per cui fu anche necessario scavare un traforo nella collina di Posillipo.
Evidentemente è per questa fama di magia e di alchimie unite a superstizioni popolari e alle paure dei demoni, che Marlowe ne parla accennando anche alla costruzione di una grotta in una sola notte, ma dimenticando quella magia ancora più famosa a Napoli, quella dell' Ovo nel castello omonimo. 
Al tempo della conquista nornanna della città da parte di Ruggero II di Sicilia, nel 1140, il castello diventò la residenza del re.
Fu allora che si cominciò a spargere tra la popolazione la favola dell'ovo: si disse che, un Mago di nome Virgilio,“in una gabbietta che fece murare in una nicchia delle fondamenta”( M. Buonoconto, Napoli esoterica ),aveva chiuso un uovo che avrebbe mantenuto in piedi l'intera fortezza. La sua rottura avrebbe provocato non solo il crollo del castello, ma anche una serie di rovinose catastrofi alla città. La voce stravagante si sparse tra il popolo, poi tra i nobili e la stessa Corte, andando avanti nei secoli.


                                La Crypta neapolitana


      Questi non erano tuttavia i soli incantesimi attribuiti a Virgilio, al quale si attribuì anche l’apertura in una sola notte di una strada lunga, che questo Marone tagliò attraverso una montagna pietrosa.
Si raccontava che Marone evocò un gruppo di demoni infuocati per fargli scavare una grotta lunga un chilometro, ai piedi di una collina. Il lavoro si sarebbe completato in una sola notte, se non fosse passato di lì un cittadino il quale, impaurito dai lampi di luce e dal frastuono del lavoro in corso, si mise a gridare e i demoni si volatilizzarono nel nulla. La grotta però era quasi ultimata perchè mancavano pochi metri alla fine. Il lavoro fu poi portato a termine da altri lavoratori umani. E' così che nacque la Crypta Neapolitana, e la leggenda della sua costruzione magica si diffuse tanto che era presente ancora ai tempi del Re Roberto d'Angiò, e veniva chiamato la grotta di Virgilio.
Crypta,, Gaspar Van Wittel 
In realtà, come narra Strabone, il tunnel fu realizzato da Lucio Cocceio Aucto, architetto che nel 37 a.C. aveva già lavorato con Agrippa ai canali che univano lago d'Averno e Lucrino al mare, nel golfo di Pozzuoli.
La crypta doveva far parte di una rete di infrastrutture militari, ma al termine delle guerre, la grotta continuò ad essere utilizzata come infrastruttura civile, per raggiungere più facilmenete e velocemente Pozzuoli, senza dover utilizzare da e per Napoli la via per montes , che saliva sul Vomero e attraverso Antignano riscendeva per la Pigna verso Agnano, per poi proseguire per Pozzuoli e il suo porto.  
Originariamente però la galleria era molto bassa ed era difficilmte percorribile a cavallo o a bordo di carri, si doveva infatti scendere e attraversarla a piedi. Come risulta da una testimonianza di Seneca, era angusta, buia, polverosa e opprimente. Per questo, se è vero che si continuò ad utilizzarla per secoli, è altrettanto vero che si cercò di ampliarla e migliorarla. 
Solo nel 1456 – dice Cesare.De Seta in “ Napoli” - , il re Alfonso ordinò “lavori nella grotta detta di Virgilio, che collega Napoli al versante flegreo: fu abbassato il piano stradale e furono ingrandite le bocche per l'illuminazione e l'areazione della galleria”.
Secondo Petronio Arbitro, che ne parla nel Satyricon, la crypta era consacrata a Priapo, dio della fertilità, lì sarebbe stato anche un tempio di Priapo il cui culto si basava su riti fallici notturni. Si racconta che in suo onore si celebravano cerimonie misteriche e riti orgiastici, durante le quali vergini e spose infeconde partecipavano a oscene pratiche propiziatorie. 
Si verificò nel '500, durante la dominazione spagnola, durante alcuni lavori di manutenzione, un episodio che aumentò il mistero e il carattere ambivalente del tunnel: nella grotta fu ritrovato un bassorilievo marmoreo recante la scena dell'uccisione di un toro da parte del dio Mithra.
Mithra era il dio che conduceva le anime nell'Aldilà e aveva anche facoltà di giudicarle. era un culto misterioso, destinato a soli uomini proveniente dall' Oriente, in particolare dalla Persia. Mithra era nato dalla roccia e destinato alla salvezza del mondo, i riti in suo onore erano misteriosi e si celebravano nelle grotte.
 Molti pensano perciò che la crypta fosse utilizzata come Mitreo, il luogo ove si celebravano riti in onore di Mitra (2). Ben presto i riti misterici legati al culto di Mitra furono sostituiti dai riti del Cristianesimo, ai quali si aggiunse, in epoca medievale, l' aura di magia e mistero connessa alla figura di Virgilio.
L' ingresso della grotta sta tra la tomba commemorativa di Leopardi e il colombario che conteneva le ossa di Virgilio.
La galleria restò in uso fino alla fine dell'Ottocento, quando fu chiusa per problemi di statica, ma dopo che era già entrata in esercizio la nuova Galleria delle Quattro Giornate.
 
 
 
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NOTA 2:  Mitra è stato visto da alcuni come un analogia al Cristo. Egli era nato per salvare il mondo, data della nascita di Mitra era al 25 dicembre, alcuni giorni dopo il solstizio d'inverno. Il solstizio coincide con il giorno più corto dell'anno e dal giorno successivo il sole riprende la sua ascesa percepibile tre o quattro giorni dopo; da qui la  data 25 dicembre.
La festa del dio “Sol invictus” venne introdotta al 25 dicembre da Aureliano (214 - 275 d.C.); in seconda istanza la stessa data fu adottata anche per il dio Mitra, detto ugualmente “Sol invictus”.
Questa data la Chiesa l'assunse per Cristo dopo l'editto di Costantino (promulgato nel 313 a nome di Costantino il Grande, , per porre ufficialmente termine a tutte le persecuzioni religiose e proclamare la neutralità dell'Impero nei confronti di ogni fede sostituendo così la festa pagana del “Sol invictus”.
     

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                                  Pellegrini e viaggiatori



Napoli nel '700
E' lecito pensare che tutte le notizie su alcune città, non solo Napoli, ma anche le altre che lui cita, come Treviri, Venezia, le abbia apprese dai suoi studi e anche dalla letteratura di viaggio che iniziava proprio nella sua epoca, il XVI secolo. Prima c'erano stati i pellegrini, frati e laici, che a piedi o a dorso di mulo scendevano per la via Francigena per andare a Roma, la capitale del cristianesimo, e forse proseguivano per andare in TerraSanta. Non tutti sapevano scrivere e leggere, ma chi sapeva, descriveva i suoi viaggi e Roma e Gerusalemme.
Ma già nel XIV secolo ai pellegrini si stavano sostituendo i viaggiatori, che non dovevano andare
 
 necessariamente a Roma e che viaggiavano in carrozza o a cavallo per scoprire le antichità classiche.
 
E spesso prendevano appunti e scrivevano un diario.
   L’iniziatore dei diari di viaggio è considerato fu Michel Montaigne, francese di Bordeaux, nato
 
 nel 1533, famoso più come filosofo e per la sua opera più importante, i “ Saggi”. Ma fu anche
 
 viaggiatore, scrittore e politico.
 
 Nel 1580 e nel 1581, mentre Marlowe era a Cambridge, egli effettuò un lungo viaggio in Europa,
 
 Francia, Svizzera, Germania ed Italia, e raccolse impressioni e annotazioni sul viaggio in un Diario,
 
 nel qual indicava usi, costumi, tradizioni dei posti da visitare e anche locande e taverne consigliate.
 
  Ma non andò oltre Roma.

A Napoli ci era arrivato invece un altro viaggiatore, nel XIV secolo, che, da dotto cultore dei classici antichi, scrisse in latino, quell' itinerarium syriacum allegato al testo inglese del dramma Faustus, che sicuramente Marlowe doveva aver letto.

     

                                         Francesco Petrarca

  

     
Francesco Petrarca, era nato ad Arezzo a luglio dell'anno 1304, fuo poeta, letterato, umanista e appassionato di antichità greche e romane e viaggiatore autore di memorie di viaggio. 
Come abbiamo già detto, si viaggiava molto nel medioevo, sia pellegrini per motivi religiosi sia viaggiatori che avevano l'unico scopo di conoscere e di vedere posti nuovi. Ma molti si fermavano a Roma.
Più a sud c'era, nel XIV secolo un grande regno, quello di Napoli, che cominciava ad essere scoperto da letterati e altri artisti. Nella capitale c'era stato Giovanni Boccaccio giovanissimo e artisti come Giotto, Tino da Camaino e Simone Martini, e architetti che avevano costruito la cattedrale e altre basiliche come S.Domenico maggiore, Santa Chiara e san Lorenzo Maggiore. Nell' epoca di Petrarca era re , dal 1309, Roberto d'Angiò, figlio di Carlo II. Egli godeva di grande rispetto, era ritenuto un uomo saggio e molto colto ma non si capisce bene perchè: viene invece descritto come un personaggio enigmatico e controverso, contestato dai Ghibellini,era capo del partito Guelfo, bigotto in età matura, aveva perso il figlio Carlo duca di calabria e erede al trono, nel 1328, e a succedegli era stata destinata la nipote Giovanna.

Francesco Petrarca
In quegli anni, 1340 circa, il Regno vide crescere il prestigio del suo regno, il benessere economico, la vivacità e creatività culturale. Napoli era diventata la prima città d'Italia, capitale di un Regno incrocio di diverse civiltà,, francesi, catalani, greci, latini e arabi, centro di quotidiani scambi commerciali, aveva una popolazione già straripante oltre le Mura di circa 60.000 abitanti. Una città variopinta, con una Corte raffinata e mondana e spesso spregiudicata e scanadalistica in contrasto con una plebe che viveva in stradine sudice, maleodoranti e pericolose di notte perchè senza illuminazione.       Vicino alla zona portuale, quello più antico detto di Arcina che dal mare si addentrava nella attuale via Depretis, e quello più recente detto Vulpulum, nella attuale piazza Municipio e finoa via Medina, e il molo costruito appena allora sotto il Castelnuovo, si svolgevano attività e commerci, con mercati stranieri, fiorentini, pisani, catalani e amalfitani.
Napoli inoltre offriva con i suoi dintorni, anche grandi possibilità di visitare e vedere antichità romane.
A quel tempo si conosceva la storia, narrata da Plinio il giovane, di una grande eruzione avvenuta in epoca romana, ma non si sapeva dove erano le antiche città di Pompei e di Ercolano, tutto era stato ricoperto dalla cenere a da lapilli che si erano solidificati, il territorio aveva poche abitazioni e piccoli villagi. Nei secoli comunque non erano mancati predatori e saccheggiatori alla ricerca di statue e tesori perduti.
Diversa invece la situazione a nord di Napoli, nell'area dei Campi flegrei, Pozzuoli, Baia, l'antica città sommersa dal bradisismo, di cui restava visibile solo una specie di torre in mezzo al golfo, Averno, Miseno, Cuma, nomi che risvegliavano ricordi di altre epoche e soprattutto di poeti come Virgilio e la sua Eneide.
Petrarca fu un viaggiatore, fin da piccolo. Dalla città natale Arezzo si mosse con la famiglia perchè il padre Petracco andò in Francia, a Carpentras, vicino Avignone, dove lavorò presso la Corte papale. Avignone è una città della Francia meridionale dove ,dal 1309 al 1377, si era trasferita da Roma la Sede papale.  Francesco Petrarca - scrive Attilio Brilli - “ci appare come l'uomo moderno per eccellenza, il primo pellegrino laico, il viaggiatore in perenne movimento in Italia e fuori d' Italia”.
Egli infatti, sia per motivi personali sia per obblighi di lavoro girò per mezza Europa, da Parigi a Prega, da Colonia ai paesi più a nord, e anche in Italia, a Roma dove poté toccare con mano i monumenti e le antiche glorie rimanendone estasiato, e quindi a Napoli e dintorni.
Il suo nome era diventato famoso anche presso Roberto d'Angiò, che lo invitò alla sua Corte a Napoli.
Prima di lui in quella città aveva vissuto Giovanni Boccaccio che così poi la ricordava chiamandola “nostra”: “La nostra città, oltre a tutte l'altre italiche di lietissime feste abondevole, non solamente rallegra li suoi cittadini o con nozze o con bagni o con li marini liti, ma, copiosa di molti giuochi, sovente ora con uno ora con un altro letifca la sua gente. Ma tra l'altre cose nelle quali essa appare splendidissima, è nel sovente armeggiare”.
Lago d' Averno
Messer Francesco, volendo ricevere un riconoscimento ufficiale, una incoronazione poetica per la sua attività letteraria, e volendo averla a Roma, caput mundi, si recò subito a Napoli, parlò con il Re Roberto, che, al termine dei colloqui, lo raccomandò al Papa per l'incoronazione a Roma.
Egli era partito da Ostia in nave, passando al largo di Terracina, Gaeta e Ponza e quindi Ischia, Procida Baia e Pozzuoli, e ad ogni avvistamento si affollavano alla mente versi e scritti di Virgilio, ma anche di anche Omero davanti al Circeo, e poi anche Seneca e altri.
non lunge da Pozzuoli si innalza il colle Falerno celebre per i suoi tralci, e tra questo colle e il mare sorge il monte e si apre la grotta di Posillippo” scriveva A.Levati ( Viaggi di Francesco Petrarca in Francia, in Germania e in Italia, 2° volume), rifacendosi ai diari di viaggio scritti dal poeta..
A Napoli egli venne accolto dallo stesso Re Roberto che lo accompagnò personalmente alla crypta e alla tomba di Virgilio Marone, dove portò un alloro che depositò sulla tomba.
La grotta era buia e l' aria irrespirabile, ma essi parlarono sicuramente della leggenda virgiliana che attribuiva al poeta la costruzione della grotta in una sola notte. Il Re Roberto chiese al Petrarca cosa ne pensava. “ Non ho mai letto che Virgilio fosse un mago; d'altronde veggo n'e sassi le vestigia del ferro e non dei magici carmi”, rispose Petrarca scherzando.
Fu alloggiato in un monastero annesso alla basilica di San Lorenzo maggiore proprio tra il decumanus maior e il cardine di S. Gregorio, dove egli poteva girare studiando la città e le sue antichità, come i resti del teatro dove si era esibito Nerone, oppure le antiche colonne romane del vecchio tempio dei Dioscuri, trasformato nella chiesa di S. Paolo.
Ma aveva paura di uscir di sera perchè la città “ per molti rispetti eccellente, ha questo oscuro e vergognoso e inveterato malanno, che il girar di notte vi è non meno pauroso e pericoloso che tra folti boschi, essendo le vie percorse da nobili giovani armati, la cui sfrenatezza né la paterna educazione né l'autorità dei magistrati né la maestà e gli ordini del re seppero mai contenere”.
Era il mese di dicembre e forse non era consigliabile spostarsi, ma alcuni conoscenti si offrirono di accompagnarlo fuori città,e il re gli diede una adeguata scorta militare.     
Per andare nell' area dei Campi Flegrei evitarono la crypta e presero invece la via per montes, quella che saliva sulla collina di Paturcium, dove sostarono, e poi presero la via Antiniana per scendere verso Agnano. Da lì poi presero l'antica via Domiziana diretti a Pozzuoli,la Solfatara e la città vecchia sul promontorio e vide il Macellum semisommerso dal mare per il fenomeno del bradisismo.(3)
Il giorno dopo di buon' ora si diressero verso il lago di Lucrino e quello di Averno, sostando alle Terme di Tripergole. (4)
Piscina Mirabile
Petrarca poi si rimise in cammino rimirando Baia,la città sommersa, l'antica residenza dell'imperatore allora trasformata in castello a picco sul mare, le antiche ville romane lungo la strada, fino ad arrivare a Bauli, Bacoli, dove fu portato nella piscina. Ma non per fare il bagno, perchè quella piscina indicava un serbatoio, una cisterna antica che riforniva d'acqua le numerose navi e il personale della flotta militare ormeggiata nel vicino porto di Miseno.
Anche se non più utilizzata e ormai in rovina, la piscina era ancora piena d’acqua e bisognava entrarci con una barca. ”Mirabilis, mirabilis..” esclamò il poeta entrandoci, una magnifica cattedrale sotterranea. Da allora, fu la piscina mirabile.


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Nota 3
Nella prima metà del IX secolo, con il duca Sergio I, i Campi Flegrei subirono la loro massima sommersione marina, dovuta al bradisismo negativo. A Pozzuoli le colonne marmoree dell’antico mercato romano, chiamato erroneamente tempio di Serapide, vennero sommerse fino a un’altezza di 6,30 metri. La popolazione si era spostata sulle colline circostanti. Secondo alcuni autori, in questa epoca il lago di Lucrino non esisteva più, essendo completamente sommerso dal mare, anzi appariva come una profonda insenatura marina che raggiungeva l’imboccatura del lago d’Averno.

Nota 4
Tripergole era un villaggio sorto sul lago Lucrino, una località termale nota per le proprietà curative delle sorgenti flegree. Già il re Carlo II , padre di Roberto, aveva fatto costruire una struttura opsedaliera per ospitare ch vi sirecava per le curel nuovo complesso ospedaliero fu posto alla dipendenza dell’Ospedale Maggiore di santo Spirito di Roma e affidato ai Frati Ospitalieri.Furono realizzate inoltre strutture sanitarie e ricettive più una farmacia (“Speziària“). La chiesa e l’ospedale si trovavano nel castello angioino; l’ospedale nella parte più bassa, sopra i bagni termali dislocati ai margini di una strada, lungo la quale si trovavano le tre osterie e la farmacia.
Nel villaggio si poteva trovare anche una chiesa, alcune case private, delle osterie e un castello reale per la caccia. Nella locanda, che dava ristoro solo a persone benestanti, fu ospitato Patrarca e i suoi accompagnatori. Il villaggio con Terme annesse sparì completamente con l 'eruzione del del 29-30 settembre 1538, che portò alla formazione del Monte Nuovo. Da anni la zona era soggetta a manifestazioni come terremoti e sollevamento del suolo. Quando questi fenomeni divennero più intensi e frequenti, la popolazione e i malati abbandonarono il villaggio e non ci furono vittime,
Lo sconvolgimento dei luoghi fa sì che oggi è impossibile localizzare con una certa precisione il sito dell’antico villaggio di Tripergole anche se molti ci hanno provato., ma la questione qui è di scarso interesse.


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Itinerarium siryacum



Erano diari di viaggio gli scritti chiamati itineraria, molto diffusi già nell’Impero romano, e costituiscono ancora oggi testi e mappe fondamentali nello studio della topografia antica. Gli itinerari continuarono poi nell'epoca cristiana. Servivano come guide ai viaggiatori o ai pellegrini soprattutto in Terra Santa. Si chiamavano “ grafici” le carte che indicavano le strade e le distanze tra le tappe e le città e i nomi di città e villaggi, locande e porti dove potersi imbarcare..Anche Petrarca ebbe occasione di cimentarsi in questi itineraria.  
 
 
 
 
 
 

Era l'anno 1353, a Milano, Giovanni da Mandello, governatore di Bergamo, gli propose di accompagnarlo in un pellegrinaggio in Terra Santa, ma il poeta declinò l'invito. Prima della partenza di messer Giovanni, nel 1358, Petrarca gli consegnò un Itinerarium breve de Ianua usque ad Ierusalem et Terram Sanctam (noto con il titolo di Itinerarium Syriacum). Il brano presente nella nota alla versione inglese del Faustus è parte di questo itinerarium. Quella che segue è il testo nella traduzione di Marisa Attinà:

Non lontano da Pozzuoli - si erge il monte Falerno, famoso per i suoi vitigni.(5) Tra il Falerno e il mare vi è un colle roccioso scavato dal lavoro umano che il popolo sciocco ritiene (invece) prodotto da Virgilio con  magici incantesimi: cosi la fama di uomini illustri è sostenuta non solo da reali meriti ma anche da credenze popolari. Un giorno Roberto,famoso per il regno,ma ancora più famoso per il suo ingegno e la sua cultura letteraria,avendomi chiesto se avessi sentito qualcosa su questo argomento,davanti a molti presenti,lui sempre sostenuto da regale umanità, con la quale superò non solo re ma anche uomini,io gli risposi non certo scherzando di non aver mai letto che Virgilio fosse stato uno stregone:così quello, accennando con un movimento della sua severissima fronte,affermò che in quel luogo non c'erano tracce di magia ma di lavoro umano.Vi è infatti una grotta,stretta,molto profonda e buia,di un monte scavato: l'oscurità è orribile e tenebrosa: nel mezzo c'è un passaggio aperto,bello e quasi sacro, venerato anche in tempo di guerra e,in vero,così è voce di popolo,mai danneggiata da predoni:la chiamano Crypta Napoletana di  cui Seneca fa menzione nelle lettere a Lucilio. Verso la fine di un  percorso oscuro,quando si incomincia a vedere il cielo,in un luogo all'aperto,si vede la tomba dello stesso Virgilio,di fattura assai antica,donde nacque forse questa credenza del monte scavato da quello stesso.”.Petrarca lo scrisse in latino così come aveva fatto per altre opere, come, ad esempio, le Epistole, l'Africa, un poema in esametri, De vita solitaria e altre ancora. Per lui il latino è la lingua ufficiale, erudita, con cui scrive molte delle sue opere che intendeva affidare ai posteri, mentre la scrittura in volgare doveva essere una scrittura privata e con una circolazione limitata.
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Nota 5
..Il vino Falerno, che tanto piaceva ai Romani era prodotto nella antica campania settentrionale, nell’ager Falernus, corrispondente alla zona degli attuali comuni di Mondragone,Falciano del Massico, Carinola e Sassa Aurunca e Cellole, alle pendici del monte Massico sito tra il Volturno e il Garigliano. Era ritenuto tra i migliori rossi in assoluto dagli imperatori e dai Patrizi di Roma. ma nonostante la sua straordinaria fama nei tempi antichi, alla fine dell’Impero, se ne persero le tracce. Negli ultimi 40 anni alcuni produttori di quel territorio hanno deciso di recuperare la grande tradizione riproponendo un vino che potesse richiamare alla memoria il famoso Falerno. Mi è stato fatto giustamente osservare ( U.Scala) che è inspiegabile il riferimento al Falerno ( alta Campania, area di Caserta) e il monte a picco sul mare ( Posillipo).

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                                                 Conclusioni


Quello che ho esposto è soltanto una mia ipotesi che mi sono divertito a sviluppare, ma è ovvio che possono essercene altre.
Lo scrittore inglese, che aveva studiato a Cambridge e aveva anche fatto traduzioni di opere dal latino, sfruttò i suoi studi classici e la sua abilità di traduttore per conoscere città, storie e leggende di Roma e di Napoli. Dove non conosce, come nel caso di Parigi o Venezia, salta e va avanti nel discorso, soffermandosi su magie e demoni, forse più adatte al dramma che sta scrivendo. Egli deve aver letto Plinio il vecchio, Tito Livio e poi anche Petrarca con particolare riferimento a Napoli. Non capisco altrimenti perchè al testo inglese del dramma è stata indicata in nota, parte dell'itinerarium relativo a Napoli.
Nello scritto di Petrarca si nota una buona conoscenza della storia della crypta e della leggenda virgiliana, ma ho qualche dubbio – espressomi anche da U.Scala e M.Attinà – sulla conoscenza dei luoghi. Egli vuol mostrare di sapere, ma accosta il Monte Massico dove si produceva il vino Falerno, al “ colle roccioso” dove fu scavata la crypta. Si tratta infatti del colle di Posillipo che, salvo mutamenti orografici avvenuti nel corso dei secoli, è molto lontano dal Massico e quindi dal Falerno.
E'stata una ricerca divertente, e mi è piaciuto pensare alle strade di Napoli gia lastricate ai tempi di Roma, mentre a Londra, ancora nel XVI secolo, si camminava per vie appena sterrate e fangose.
 
 

Ringraziamenti
Enzo Scala per avermi fatto conoscere questa citazione su Napoli
Marisa Attinà per la traduzione del brano dell' “itinerarium syriacum”
Umberto Scala, per aver rintracciato il libro di Lovati e per avermi fatto notare particolari che mi erano sfuggiti.


Fonti

Attilio Brilli, Il viaggio in Italia,2006 ed. il Mulino.

Mario Buonoconto, Napoli esoterica,1996, ed. Newton tascabili,

Cesare de Seta, Napoli, Ed. Laterza

Benedto Croce, Storie e leggende napoletane, 1991, ed. Adelphi

Vittorio Gleijeses, La storia di Napoli, 1974, ED. Società Editrice Napoletana

Sigfrido E.F. Hobel, Misteri partenopei, 2004, Ed. Stamperia del Valentino.

Giovanni Liccardo, Napoli sotterranea, 2004, Ed, Newton & Compton

Bartolomeo Capasso, Napoli greco-romana , Berisio, 1905

Cesare de Seta, Napoli , Laterza, 1981.

Massimo Rosi, Napoli dentro e fuori le mura , Newton&Compton, 2003

Ambrogio Levati, Viaggio di Francesco Petrarca in Francia, in Germania e in Italia, editore

Società Tipografica classici italiani, 1820, Milano





 

 












  

  

  


   









        





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