sabato 5 settembre 2020

Elogio della genovese

 



Ma chi, o cosa, è questa genovese di cui farò l’elogio? Un napoletano, o anche un campano, lo capirà subito, ma un veneto, ad esempio, o un sardo, a cosa potrà pensare? Forse a una donna di Genova? Forse a un soprannome? O forse potrebbe pensare al pesto alla genovese?

Con quest’ultima domanda ci si avvicina abbastanza alla risposta, ma non è il pesto.

La “genovese” di cui parlo è quindi una salsa? Ebbene si, è una gustosa salsa, esclusiva e inimitabile, fatta con carne e cipolle, con la quale normalmente si condisce la pasta, che si può assaggiare solo a Napoli e dintorni, e che con Genova ha in comune solo il nome.

L’origine del nome è antica ed è avvolta nelle nebbie di ipotesi e leggende che risalgono al Medio Evo e alla Repubblica marinara di Genova. Nel XIII secolo, in una Napoli appena diventata capitale del Regno angioino, nell’area portuale esistevano fondaci, o depositi di merci, di diverse città marinare, in particolare quello della Repubblica Genovese.

Si racconta che la carne con cipolle, alla quale forse si aggiungevano altri elementi, era cucinata da marinai genovesi, che quindi dettero il nome al piatto, o anche, che era preparata in qualche bettola del porto, e era molto gradita dai marinai genovesi. Un’altra ipotesi sostiene che fu creata a Napoli ma preparata da cuochi provenienti da Genova che erano soliti cucinare la carne in modo da ricavarne una salsa utile poi per condire la pasta.





 



Secondo altri, la fonte più antica sulla Genovese   risalirebbe al 1285: nel  Liber de coquina“, (libro di cucina), scritto in latino e dedicato a Re Carlo II d’Angiò, si ritrova una ricetta particolare chiamata “ De Tria Ianuensis”, cioè i “Tria”: una pasta a forma di fili essiccati, (spaghetti?) chiamata “itrya” preparata in Sicilia, nel periodo arabo, a Al  Tarbiah (Trabia), all’epoca un paesetto con molti mulini, a 30 km da Palermo. L’aggettivo “Ianuensis” derivava dalla deformazione medievale del nome latino di Genua, cioè Ianua.

 "Ad triam ianuensem, suffrige cipolas cum oleo et mite in aqua bullienti, decoque, et super pone species; et colora et assapora sicut vis. Cum istis potes ponere caseum grattatum vel incisum. Et da quandocumque placet cum caponibus et cum ovis vel quibuscumque carnibus.".

 Per fare la tria genovese soffriggi cipolle con olio e metti in acqua bollente; fa cuocere e mettivi sopra spezie; e colora e insaporisci come vuoi. Con queste puoi mettere formaggio grattato o tagliato a pezzi. E servile ogni qual volta ti piaccia insieme con capponi o con uova o con qualunque carne.".  Sembra essere una salsa che serviva per condire una specie di spaghetti e insaporire uova o carni cotte a parte, molto diversa da quella che oggi chiamiamo “genovese”.

 A una ricetta simile a quella odierna si arrivò presumibilmente nella seconda metà del XIX secolo dopo che Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, ne parlò nel suo ricettario della “cucina teorico-pratica” del 1840.

Da lì si è arrivati ai  ”Maccarune ‘e zita cu’ ‘a genuvese”.

Qui serve, per chi non è napoletano, o campano, una rapida spiegazione: con il termine Maccarune, “maccheroni”, si indica un tipo di pasta simile a un rigatone, ma assolutamente liscio e generalmente lungo, che è necessario spezzare a mano prima di lessarlo, e ogni pezzo deve avere la larghezza della mano che li spezza.  “Zita deriverebbe forse da zita, ragazza, donna nubile, da cui il vezzeggiativo zitella. Al maschile “zito” indicava il ragazzo celibe, il fidanzato.

L’accostamento di questo tipo di pasta a una ragazza sarebbe dovuto al fatto che costituiva il piatto obbligatorio e più importante in occasione dei pranzi di matrimonio: in tal modo si festeggiava l’unione della zita con lo zito, delle donne che uscivano dal ruolo di “zitella”. E, volendo, si può pensare anche a un doppio senso.



E ora vediamo la ricetta classica, tradotta in italiano, tratta da “Mangiamo alla napoletana”, cucina casareccia napoletana per le quattro stagioni, raccolta di ricette di Enzo Avitabile, ed. Regina, 1976.

“Preparate un tritato di abbondanti cipolle, carote, sedano, un odoroso mazzetto, il lardo e il prosciutto. Mettetelo in una casseruola con il pezzo di carne (chiamata annecchia a Napoli, cioè carne di manzo) legato, il burro, l’olio, la sugna, il concentrato, sale e pepe.

Fate cuocere a fuoco basso rimestando di tanto in tanto. Quando gli ortaggi e le cipolle sono ben cotti, alzate il fuoco e lasciate che la carne si arrosoli. Versate a più riprese un po’ di vino bianco e lasciatelo evaporare.  Di tanto in tanto allungate la salsa con un po’ d’acqua, fin quando la carne non sarà completamente cotta. La salsa deve riuscire lucida e ben addensata. S’intende che la carne va mangiata a parte”.

 

 

 

 

 

 

 

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