giovedì 24 dicembre 2020

Pranzo di Natale








 

 Dopo aver illustrato il menù della vigilia di Natale, tipico dell’800 napoletano, vediamo come proseguiva quello del giorno dopo. Il menù del 25 dicembre comprendeva otto pietanze, oltre a vini, frutta fresca e secca e dolci tipici: questo che presento è basato su 12 commensali. Un vero e proprio banchetto per ricchi.

Si partiva con una “Menesta de cecorie (minestra di ciocorie): “Pe ffa bona la menesta, miette a bòllere duje capune, doje rotole de carne de vacca, e no ruotolo de prosutto salato; farraje nu bello brodo, nge miette miezo  ruotolo de lardo;  quanno tutto s’è cuotto a partit’a partitanne lo lieve, culo lo brodo, e nge farraje cocere 10 livre de cecorie, e bona cotta la miette nzuppiera e la sierve” ( per fare una buona minestra, fai bollire due capponi, due chili circa di carne di vacca, un chilo circa di prosciutto salato; farai così un buon brodo, ci metterai mezzo chilo di lardo e lascerai cuocere. Togli poi la carne secondo la qualità. Fai passare il brodo per un colino. Ripreso il bollore, versi circa tre chili e mezzo di cicoria e lasciala cuocere, poi la

verserai nella zuppiera e la servirai).

Si proseguiva poi con vari piatti di carne, iniziando dal

Bollito mmescato ( bollito misto):

“Miette buon’apparecchiato tutta la carne dinto a li vacile, e co na guarnizione de torze l’attuorno, l’appresiente”. (Metti tutta la carne che hai bollito nel vassoio di portata e portala in tavola, guarnita di  broccoletti ).

Maiale arrostito al forno

Capune a lo tiano (capponi in tegame): “piglia quatto capune, l’anniette belli pulite, li ncuosce, l’attacche, e li ffaje  zoffriere a lo tiano, facennole cocere tale e quale comm’a la gallotta a lo tiano de la terza semmana per la dommeneca” (prendi quattro capponi, puliscili bene, li incosci (li leghi coscia su coscia), li leghi e li farai cuocere alla maniera della gallotta (una gallina?) in tegame della terza settimana per la domenica (??).

Nteriora’e pulle mpasticcio (interiore di pollo pasticciate): “Farraje cocere le nteriora dinto a no poco de broro de li capune, co doje porpettelle de vaccina e no poco de sciore pe ffa lià lo broro; farraje la pasta nfrolla comm’a chella de la sera de pesce, e mmieze nge miette la cassuola, po’ l’auto copierchio de pasta, e lo farraje cocere comm’a chillo”. (Farai cuocere le interiora di pollo in un poco di brodo di cappone con polpettine di vaccina e un po’ di farina per far legare il brodo; farai la pasta frolla come quella della sera precedente (la sera della vigilia, la ricetta del pesce pasticciato, n.d.a.), e in mezzo ci metti la cassuola, lo copri con altra pasta e lo farai cuocere come quello).

Dopo polli, capponi e galline arrivavano i maiali:

Puorco servatico ‘nseviero, (cinghiale in agrodolce): piglia doje  rotole de puorco servatico e puramente lo cignale, lo farraje a pezzulle, e lo zoffrìe co no poco de nzogna sbruffannoce spisso spisso no poco a la vota na caraffa de vino russo de Calabria, ma sempe vollente, e accussì lo farraje cocere; po ce miette la concia, zoè, na libbra de mostacciuole pesato, doje grana de carofano e cannella fina,  na libbra de cetronata  ntretata, no quarto de zuccaro, poco sale, pepe e acito, farraje vollere e ncorporà; po’ pruove, l’assaggie, mme’ntienne, pe bedé se nge vo’ cchiù zuccaro o cchiù acito, e fatto denzo denzo lo siervarraje. (Prendi due chili di maiale selvatico e precisamente di cinghiale, riducilo a pezzi, e lo soffriggi in un po’ di sugna, bagnandolo, di tanto in tanto, ed un po’ alla volta, con vino rosso di Calabria bollito, e così lo farai cuocere, poi ci metti il condimento, cioè, trecento grammi circa di mostacciuoli pestati, due soldi di chiodi di garofano e cannella in polvere, circa trecento grammi di cedro tritato, un quarto di zucchero, poco sale, pepe e aceto; farai bollire e insaporire; poi prova, l’assaggi, capisci a me, per stabilire se ci vuole altro zucchero o altro aceto, e addensato lo servirai.

Insalata di rinforzo
Feletto de puorco de Sorriento arrostuto (filetto di maiale di Sorrento arrostito): “Piglia no’ piezzo de tre rotole de chillo feletto, l’attacche co lo spago, lo ‘nfile a lo spito, e lo farraje cocere suave suave e junno junno, lo sfile e lo miette dint’ a lo vacile, e che magne né…”(Prendi un pezzo da tre chili di filetto, legalo con lo spago, lo infili nello spiedo e lo farai cuocere pian piano e biondo biondo, lo metti nel vassoio. Vedrai che mangi…).

‘Nsalata de cavelisciore: “Scauda no bello cavelisciore, lo faje a cimmolelle piccerelle, l’accuonce dinto a lo vacile bello pulito, e co acito a uoglio, sale e pepe, lo siervarraje. (lessa un bel cavolo, lo fai a cimette piccole, lo sistemi in un vassoio e dopo averlo condito con olio, aceto, sale e pepe lo servirai).  E’la base di quella che oggi chiamiamo “’insalata  di rinforzo”, arricchita con sottaceti, filetti di acciughe, capperi e ulive.

Il pranzo di Natale viene innaffiato da vino “janco e niro”, e si conclude con frutta e dolci di ogni genere, mele annurche, arance e mandarini, roccocò, raffiuole e mostaccioli, struffoli e “jangomagnà”: quest’ultimo ha una lunga storia che merita di essere trattata a parte.

“Tant’a la vigilia, ch’a la santa jornata de Natale, nge farraje na quantità de piattine de frutte, de scioscile (noci, castagne e altra frutta secca), de piattine de cose doce, acquavita, e no poco de café, pecché sempe è bbuono”.

Così concludeva le sue ricette natalizie il duca di Buonvicino.

 

 

giovedì 15 ottobre 2020

Napoli, anno Domini 476


 

  • A Neapolis si era sparsa la voce dell’arrivo dell’Imperatore. Quasi nessuno, tranne Krom, il magister militum della città, e Sotero, il Vescovo, sapeva che c’era ancora un imperatore e nessuno sapeva di avvenimenti straordinari. Probabilmente, si pensava, si tratta del solito mercenario barbaro che pretende soldi e premi. Se ne erano già visti in passato.

I napoletani, come altri, erano presi da ben altri problemi di sopravvivenza. La città, i dintorni, cosi come la stessa Roma, da molto tempo avevano subito saccheggi, invasioni, violenze, e nessun sedicente imperatore era mai intervenuto.  Carestie e epidemie avevano ammazzato la metà della popolazione, le preghiere a Dio non avevano aiutato.

In ogni caso la curiosità spingeva la gente a chiedersi chi era e quando sarebbe arrivato questo imperatore.

 Ma non si trattò di una visita né ufficiale né privata, e neanche entrò in città. Era l’ora seconda del terzo giorno delle calende di ottobre, poco dopo l’alba: proveniente dalla strada di Caput de clivo, a Oriente, fu avvistato un corteo di cavalieri, forse un centinaio, armati fino ai denti, che accompagnavano un paio di carri abbastanza anonimi, e avanzavano lungo la spiaggia dirigendosi a occidente.  Da alcune barche tirate in secca, pescatori raccoglievano il pescato della notte, altri riparavano reti. Non fecero molto caso al passaggio di cavalli e cavalieri, erano abituati.

Sul mare calmo, una leggera foschia nascondeva la visione del golfo, dell’isola di Capri e della collina di Posillipo. Nel porto del Vulpulum c’era poco movimento, marinai dormicchiavano ancora sulle tolde delle navi all’ancora, mentre da una grossa nave panciuta, venivano scaricati sacchi, anfore e altre merci.

Qualcuno si fermava a guardare il corteo, altri si facevano da parte per far passare cavalli e carri.

Dalla porta Ventosa era uscito un drappello di soldati a cavallo guidati dallo stesso Krom, che si diresse al galoppo verso il porto.

Una galea pronta per partire attendeva quel gruppo: al centro fu visto un ragazzino, biondino, esile, che indossava una modesta tunica, seguito da un paio di donne e tre uomini, e circondato da guerrieri: si disse che quello era l’imperatore. Aveva forse 14 anni, ma come si chiamava? E che ci faceva lì?

Si chiamava Romolo, circa un mese prima a Ravenna, Odoacre, uno dei comandanti dell’esercito imperiale, aveva ammazzato tutta la sua famiglia, lo aveva arrestato e deposto.

Ora veniva accompagnato sull’ isolotto di Megaride, dove sorgeva il castrum, (oggi castel dell’Ovo), parte di quella che fu la maestosa villa di Lucullo, davanti al monte Echia.

Romolo era “Augustum filium Orestis”, e Odoacer in lucullano Campaniae castello exilii poena damnavit ”.tre

Il giovane, i suoi accompagnatori e alcuni dei guerrieri che lo scortavano salirono a bordo, la galea si mosse lentamente e prese il largo per raggiungere il castello. Correva l’anno 476 d.C.  

A Napoli, - racconta Gino Doria - finalmente si spense l’estremo, misero guizzo della romanità, già in decomposizione dopo aver compiuto il suo ciclo glorioso.  Nella splendida villa di Lucullo, diventata castello forte (e si trasformerà di lì a poco in monastero basiliano), ed ivi relegato da Odoacre, moriva Romolo Augustolo, l’ultimo imperatore di Roma”.

Per uno scherzo del destino, quel ragazzino portava lo stesso nome del fondatore di Roma: Romolo sparì e non se ne seppe più niente.

Secondo alcuni, Romolo moriva “qualche tempo dopo”, ma non si indica quando.

Secondo altri, Cassiodoro, segretario del re ostrogoto Teodorico, scrisse una lettera a un "Romolo" nel 507, confermandogli la pensione di cui godeva, circa seimila solidi.

Se si trattava del piccolo augusto, in quell’anno doveva essere ancora vivo e aveva circa 45 anni. Secondo un’altra ricerca, presumibilmente Romolo morì invece “intorno al 485”.

---------------

T. Indelli, Odoacre, la fine di un impero, Ed. Vivaliber, 2014.

M. Rosi, Napoli dentro e fuori le mura, Ed. Newton-Compton, 2003.

G. Doria, Storia di una capitale, Ed. Grimaldi & C. 2014.

C. De Seta, Napoli, Ed. Laterza, 1981

sabato 5 settembre 2020

Elogio della genovese

 



Ma chi, o cosa, è questa genovese di cui farò l’elogio? Un napoletano, o anche un campano, lo capirà subito, ma un veneto, ad esempio, o un sardo, a cosa potrà pensare? Forse a una donna di Genova? Forse a un soprannome? O forse potrebbe pensare al pesto alla genovese?

Con quest’ultima domanda ci si avvicina abbastanza alla risposta, ma non è il pesto.

La “genovese” di cui parlo è quindi una salsa? Ebbene si, è una gustosa salsa, esclusiva e inimitabile, fatta con carne e cipolle, con la quale normalmente si condisce la pasta, che si può assaggiare solo a Napoli e dintorni, e che con Genova ha in comune solo il nome.

L’origine del nome è antica ed è avvolta nelle nebbie di ipotesi e leggende che risalgono al Medio Evo e alla Repubblica marinara di Genova. Nel XIII secolo, in una Napoli appena diventata capitale del Regno angioino, nell’area portuale esistevano fondaci, o depositi di merci, di diverse città marinare, in particolare quello della Repubblica Genovese.

Si racconta che la carne con cipolle, alla quale forse si aggiungevano altri elementi, era cucinata da marinai genovesi, che quindi dettero il nome al piatto, o anche, che era preparata in qualche bettola del porto, e era molto gradita dai marinai genovesi. Un’altra ipotesi sostiene che fu creata a Napoli ma preparata da cuochi provenienti da Genova che erano soliti cucinare la carne in modo da ricavarne una salsa utile poi per condire la pasta.





 



Secondo altri, la fonte più antica sulla Genovese   risalirebbe al 1285: nel  Liber de coquina“, (libro di cucina), scritto in latino e dedicato a Re Carlo II d’Angiò, si ritrova una ricetta particolare chiamata “ De Tria Ianuensis”, cioè i “Tria”: una pasta a forma di fili essiccati, (spaghetti?) chiamata “itrya” preparata in Sicilia, nel periodo arabo, a Al  Tarbiah (Trabia), all’epoca un paesetto con molti mulini, a 30 km da Palermo. L’aggettivo “Ianuensis” derivava dalla deformazione medievale del nome latino di Genua, cioè Ianua.

 "Ad triam ianuensem, suffrige cipolas cum oleo et mite in aqua bullienti, decoque, et super pone species; et colora et assapora sicut vis. Cum istis potes ponere caseum grattatum vel incisum. Et da quandocumque placet cum caponibus et cum ovis vel quibuscumque carnibus.".

 Per fare la tria genovese soffriggi cipolle con olio e metti in acqua bollente; fa cuocere e mettivi sopra spezie; e colora e insaporisci come vuoi. Con queste puoi mettere formaggio grattato o tagliato a pezzi. E servile ogni qual volta ti piaccia insieme con capponi o con uova o con qualunque carne.".  Sembra essere una salsa che serviva per condire una specie di spaghetti e insaporire uova o carni cotte a parte, molto diversa da quella che oggi chiamiamo “genovese”.

 A una ricetta simile a quella odierna si arrivò presumibilmente nella seconda metà del XIX secolo dopo che Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, ne parlò nel suo ricettario della “cucina teorico-pratica” del 1840.

Da lì si è arrivati ai  ”Maccarune ‘e zita cu’ ‘a genuvese”.

Qui serve, per chi non è napoletano, o campano, una rapida spiegazione: con il termine Maccarune, “maccheroni”, si indica un tipo di pasta simile a un rigatone, ma assolutamente liscio e generalmente lungo, che è necessario spezzare a mano prima di lessarlo, e ogni pezzo deve avere la larghezza della mano che li spezza.  “Zita deriverebbe forse da zita, ragazza, donna nubile, da cui il vezzeggiativo zitella. Al maschile “zito” indicava il ragazzo celibe, il fidanzato.

L’accostamento di questo tipo di pasta a una ragazza sarebbe dovuto al fatto che costituiva il piatto obbligatorio e più importante in occasione dei pranzi di matrimonio: in tal modo si festeggiava l’unione della zita con lo zito, delle donne che uscivano dal ruolo di “zitella”. E, volendo, si può pensare anche a un doppio senso.



E ora vediamo la ricetta classica, tradotta in italiano, tratta da “Mangiamo alla napoletana”, cucina casareccia napoletana per le quattro stagioni, raccolta di ricette di Enzo Avitabile, ed. Regina, 1976.

“Preparate un tritato di abbondanti cipolle, carote, sedano, un odoroso mazzetto, il lardo e il prosciutto. Mettetelo in una casseruola con il pezzo di carne (chiamata annecchia a Napoli, cioè carne di manzo) legato, il burro, l’olio, la sugna, il concentrato, sale e pepe.

Fate cuocere a fuoco basso rimestando di tanto in tanto. Quando gli ortaggi e le cipolle sono ben cotti, alzate il fuoco e lasciate che la carne si arrosoli. Versate a più riprese un po’ di vino bianco e lasciatelo evaporare.  Di tanto in tanto allungate la salsa con un po’ d’acqua, fin quando la carne non sarà completamente cotta. La salsa deve riuscire lucida e ben addensata. S’intende che la carne va mangiata a parte”.

 

 

 

 

 

 

 

domenica 16 agosto 2020

MONZU’

 


 

La Torretta a Chiaia, di G.van Wittel


Una strana parola che non esiste nella lingua italiana, ma ha una sua storia.  “Monzù” nacque - e visse - a Napoli, e in tutto il regno di Napoli e di Sicilia, dopo il 1768, presso la Corte borbonica.

Arrivò quell’anno, a Napoli, l’aristocratica e altezzosa sedicenne Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, figlia di Maria Teresa d’Austria.               




Maria Carolina


Era la sposa del giovane – 17 anni – Ferdinando, diventato Re “per caso”, (perché appena terzo nella linea di successione), a 8 anni, quando il padre, Carlo, nel 1759, se ne andò a Madrid per diventare Carlo III.  A Napoli Carolina, abituata a un rigido protocollo e a una tradizione culinaria di croissant, zuppette e gnocchetti dal sapore “delicato”, fu costretta a vedere e a mangiare cibi con quei sapori marcati e schietti, piuttosto pesanti, della cucina napoletana. Fu poi fu disgustata dal marito che mangiava gli spaghetti con le mani – ma non era il solo -, uso non proprio consono a un sovrano, specialmente durante pranzi o cene con ministri e ospiti stranieri. Ma a Ferdinando piaceva quella cucina e la pasta.

 Proprio in quel periodo, tra l’altro, fu scoperta l’unione della pasta con il pomodoro, proveniente dalle Americhe ma impiantato nelle terre del Regno, con un clima idoneo e vicino a quello di origine.

Ferdinando cercava di accontentare la moglie, ma con molte difficoltà. Carolina non cambiava idea e perciò decise che doveva non solo salvare palato e stomaco, ma anche la dignità sua e della Corte.

Chiese, perciò, aiuto alla sorella Maria Antonietta, Regina di Francia, altra aristocratica figlia di Maria Teresa d’Austria.

La Francia, fin dai tempi di Luigi XIV, il re Sole, era diventata il punto di riferimento della moda, della musica, dell’arte e della cultura, e così anche nella gastronomia.

Maria Antonietta, il cui destino la portò poi alla ghigliottina, pensò di mandare a Napoli alcuni fra i migliori cuochi francesi per educare i colleghi napoletani e siciliani, a gusti più raffinati e adatti a una Corte regale.

I francesi arrivarono a palazzo reale, portando salse e intingoli in uso in Francia, raffinatezze come zuppette, crostate di tagliolini, soufflésmousseschoux e bigné, ecc.

Mentre in lingua italiana si adoperava, e si adopera, il termine “Signore” seguito dal cognome o dal nome in segno di rispetto, in francese si traduceva – e si traduce - Monsieur. Lo stesso termine veniva usato per i cuochi arrivati a Napoli, che I napoletani fecero presto a deformare in “Monzù” o “Monsiù”. 

I francesi ci provarono, e si misero d’impegno a insegnare ai colleghi partenopei la cucina richiesta dalla Regina.

Ma, come tutti gli stranieri che arrivavano a Napoli con idee di governare e di cambiare, anche i “messieurs” finirono per napoletanizzarsi: la cucina napoletana, così particolare, non poteva essere assorbita da quella d’oltralpe, e avvenne l’esatto contrario. I cuochi napoletani, e siciliani, istruiti dai francesi, crearono una cucina completamente nuova, mischiando quella tradizionale con quella francese.

Nasceva il “gattò”, una torta di patate derivata dal “gateau” con ingredienti locali che sostituirono quelli francesi; nacque il “sartù” di riso, derivato da sur tout” (letteralmente “copri tutto”), un timballo di riso ricoperto da un mantello di pangrattato, nel cui interno furono aggiunti sugo di pomodoro, piselli, uova sode, fior di latte, polpettine e salsicce,

E non dimentichiamo “ ‘o Babbà”, dal francese babà, e ancora i “crocché” di patate, da Croquette.

Ci fu anche, tra i monzù napoletani, il Monzù Gennaro che, su richiesta del Re Ferdinando, inventò la forchetta a 4 rebbi, con la quale anche a Corte si potevano gustare maccheroni e spaghetti, evitando di prenderli con le mani.


Ferdinando I due Sicilie


         

Ben presto anche nelle grandi case aristocratiche del Regno si imitò la Corte, assumendo Monzù per dirigere le cucine, e altri, invece divennero famosi come titolari di trattorie. Da notare che non c’erano donne, la parola monsieur, e monzù, indica solo uomini, e nessuno, fino a poco tempo fa, si sognava di mettere una donna a dirigere una cucina.Oggi li chiamiamo “Chef” e hanno invaso le TV di mezzo mondo.