venerdì 12 ottobre 2018

Montesanto






Larghi e strade


Montesanto


C’era una volta, a Napoli, un grande esteso vallone, coperto da boschi di ulivi e pini (da cui il nome Olivella e Pignasecca, “secca” perché i pini si seccarono improvvisamente in maniera inspiegabile), ai piedi della collina del Vomero. Per salire e scendere si usavano sentieri scoscesi e grezze scalinate: ancora oggi possono essere percorsi, naturalmente solo a piedi, le “pedemontine”, come quelle che partono da S. Martino, o il Petraio o anche i  Cacciottoli o ancora la salita san Francesco, da via Belvedere.



Chiesa di Montesanto


Tutta l’area era fuori le mura occidentali della città: chi usciva dalle porte chiamate Romana e Donnorso, si trovava davanti a una grande vallata attraversata da un fiumiciattolo, il Sebeto, una volta alimentato da acque provenienti dalle colline di Capodimonte e del Vomero, poi sempre più asciutto.  Pochi edifici di carattere religioso sorgevano dalle colline al mare e anche qualche torrione di guardia, fino alla costruzione del Castelnuovo.
Fu poi il ben noto don Pedro di Toledo che, nel 1534, avviò una serie di interventi urbanistici ed edilizi che allargarono la città e la trasformarono completamente. Le antiche mura medievali   furono consolidate e allargate, inglobando nella città nuovi territori, come la strada che continua a portare il suo nome, i Quartieri spagnoli e, a fianco a questi, l’area della Pignasecca e di Montesanto.
La nuova murazione occidentale saliva dalla odierna chiesa dello Spirito Santo, attraverso la vallata di Montesanto, fino “ad meza falda del monte de santo Erasmo” (S. Elmo), da dove poi riscendeva verso la Playa, cioè Chiaja, e Santa Lucia, per poi ricollegarsi ai bastioni e alle casematte di Castelnuovo dalla parte di mare (oggi Molo Beverello e piazza Municipio).
 Gli storici non sono tutti d’accordo sul tracciato di queste mura, poiché alcuni pensano che arrivavano fin sopra la punta più alta del Vomero, a S. Elmo, dove già c’era il Castello e la Certosa di S. Martino.
Ai piedi della collina, le nuove mura scorrevano, prima di iniziare la salita, lungo la laterale dell’odierno Ospedale dei Pellegrini, fondato nel 1570 dal cavaliere gerosolimitano don Fabrizio Pignatelli (si faccia attenzione a questo cognome "Pigna...."), su un suolo di sua proprietà. Restavano fuori dalle mura l’attuale Piazza Montesanto, l’Olivella e la via Tarsia.
L’area dell’attuale via Tarsia, fu proprietà degli Spinelli, famiglia aristocratica del XVI secolo, principi di Tarsia, città calabrese della provincia di Cosenza. Gli Spinelli, dovendo trasferirsi a Napoli capitale, e alla Corte vicereale, dovettero trovarsi un ‘abitazione degna di tanto nome e fecero edificare un palazzo monumentale.  Raccontano gli storici dell’arte, che il palazzo era qualcosa di veramente imponente e grandioso: occupava tutta la zona a monte della chiesa di S. Domenico Soriano al largo del Mercatello, si estendeva dal Cavone all’attuale piazza Mazzini, da salita Pontecorvo a Montesanto e aveva un grandioso giardino.  Con l'estinzione della famiglia Spinelli, sia il giardino sia il palazzo furono variamente riutilizzati. Il piano terra, ad esempio fu trasformato prima in cinema, l’Astoria, e poi nel teatro “Bracco”, dedicato al commediografo Roberto Bracco. A fianco era l’Istituto nautico. Tutti i viali di questa abitazione, grandi e piccoli, costituiscono oggi le strade e i vicoli della zona, l’attuale piazzetta Tarsia sembra sia stata niente altro che il cortile interno del complesso.





Vico Spezzano



Nel XVII secolo, nel vallone ai piedi della collina del Vomero, fu fondata una chiesa, detta di Santa Maria di Montesanto, ad opera di una comunità di Frati Carmelitani provenienti da un omonimo monastero siciliano.  Da lì nacque il nome, e   si diffuse a tutta la zona e quindi alla piazza attuale. In quella Chiesa si trova la tomba del musicista Alessandro Scarlatti.
 Restata ancora fuori le mura, gli abitanti della zona e delle colline che volevano entrare in città, dovevano arrivare al vicino largo del Mercatello e entrare per la porta Reale, che si trovava all’ altezza della chiesa dello Spirito Santo.
Essi non amavano questo tragitto e alcuni di loro, probabilmente sull’esempio di quanto era accaduto anche con Port’ Alba qualche anno prima, cominciarono a scavare di nascosto, “nu’pertuso“– un pertugio, un buco - per poter passare almeno uno alla volta.
Racconta Giuseppe Porcaro ne “Le Porte di Napoli” (ed. Del Delfino) ,..”..uno sconcio Pertuso, quindi, fu fatto da quegli abitanti nel muro occidentale della città, presso Montesanto, attraverso il quale, per la via dell’Olivella, i collinari di S. Martino accedevano nella capitale, raggiungendo agevolmente i centri storici e commerciali e l’area portuale.”.
Le Autorità, dopo vari inutili interventi di riparazione, presero atto della situazione e viste le continue petizioni degli abitanti, per consentire il passaggio regolare di tutti quelli che andavano e venivano dalla collina, nel 1640, Don Ramiro Nunez de Guzman, duca di Medina, fece costruire una Porta che prese il suo nome, “Medina”. La nuova porta, si trovava, secondo gli storici, più o meno tra l’ingresso dell’ospedale dei Pellegrini e la strada che lo costeggia, quasi di fronte alla stazione della Cumana e della funicolare. Fu l'ultima porta ad essere costruita e fu anche l'ultima ad essere demolita nel 1873, ma del nome di Portamedina resta traccia ancora oggi nella toponomastica della zona. Sul largo, il vico Spezzano, luogo di memorie personali, arrivava – e arriva – dalla piazza Mazzini.
 Montesanto stava cambiando.  Dopo qualche anno, nel 1892, fu inaugurata la ferrovia Cumana che doveva portare, passando per Pozzuoli, fino a Cuma e Torregaveta. La linea andò avanti a vapore fino al 1927, quando fu elettrificata. Alla partenza da Napoli, la Cumana entrava immediatamente nella galleria scavata sotto la collina del Vomero, che, da quanto mi raccontavano, servì da rifugio antiaereo durante la guerra.




Funicolare di Montesanto

Negli stessi anni   era stato inaugurato il Rione Vomero e quindi fu messa in cantiere la funicolare, inaugurata nel 1891. La funicolare si inerpicava su per la collina, era tutta di legno, fino a metà anni 60 del XX secolo, dai sedili alle porte che dovevano essere chiuse una a una dal macchinista. Oggi   è stata modernizzata, con apertura e chiusura automatica delle porte, rinnovata all’interno e ripulita.
A due passi dal largo di Montesanto, proprio alle spalle, troviamo la Piazzetta Olivella dove fu installata la stazione della metropolitana di Napoli, oggi detta linea 2, ma   è la più antica poiché in funzione dal 1925.
La Pignasecca è ancora zona di grande mercato, dalla frutta e verdura al vestiario, dal pesce a articoli casalinghi, con piccole trattorie tipiche, caratterizzata da una folla che lavora, si muove, si arrangia, e da auto e motorini che passano con difficoltà per non parlare delle ambulanze dirette all’Ospedale che ha l’ingresso proprio su quella strada.





mercoledì 12 settembre 2018

Case puntellate






Larghi e strade


Montesanto



C’era una volta, a Napoli, un grande esteso vallone, coperto da boschi di ulivi e pini (da cui il nome Olivella e Pignasecca, “secca” perché i pini si seccarono improvvisamente in maniera inspiegabile), ai piedi della collina del Vomero. Per salire e scendere si usavano sentieri scoscesi e grezze scalinate: ancora oggi possono essere percorsi, naturalmente solo a piedi, le “pedemontine”, come quelle che partono da S. Martino, o il Petraio o anche i  Cacciottoli o ancora la salita san Francesco, da via Belvedere.
Tutta l’area era fuori le mura occidentali della città: chi usciva dalle porte chiamate Romana e Donnorso, si trovava davanti a una grande vallata attraversata da un fiumiciattolo, il Sebeto, una volta alimentato da acque provenienti dalle colline di Capodimonte e del Vomero, poi sempre più asciutto.  Pochi edifici di carattere religioso sorgevano dalle colline al mare e anche qualche torrione di guardia, fino alla costruzione del Castelnuovo.
Fu poi il ben noto don Pedro di Toledo che, nel 1534, avviò una serie di interventi urbanistici ed edilizi che allargarono la città e la trasformarono completamente. Le antiche mura medievali   furono consolidate e allargate, inglobando nella città nuovi territori, come la strada che continua a portare il suo nome, i Quartieri spagnoli e, a fianco a questi, l’area della Pignasecca e di Montesanto.





Mappa del Duca di Noja


La nuova murazione occidentale saliva dalla odierna chiesa dello Spirito Santo, attraverso la vallata di Montesanto, fino “ad meza falda del monte de santo Erasmo” (S. Elmo), da dove poi riscendeva verso la Playa, cioè Chiaja, e Santa Lucia, per poi ricollegarsi ai bastioni e alle casematte di Castelnuovo dalla parte di mare (oggi Molo Beverello e piazza Municipio).
 Gli storici non sono tutti d’accordo sul tracciato di queste mura, poiché alcuni pensano che arrivavano fin sopra la punta più alta del Vomero, a S. Elmo, dove già c’era il Castello e la Certosa di S. Martino.
Ai piedi della collina, le nuove mura scorrevano, prima di iniziare la salita, lungo la laterale dell’odierno Ospedale dei Pellegrini, fondato nel 1570 dal cavaliere gerosolimitano don Fabrizio Pignatelli (si faccia attenzione a questo cognome "Pigna...."), su un suolo di sua proprietà. Restavano fuori dalle mura l’attuale Piazza Montesanto, l’Olivella e la via Tarsia.
L’area dell’attuale via Tarsia, fu proprietà degli Spinelli, famiglia aristocratica del XVI secolo, principi di Tarsia, città calabrese della provincia di Cosenza. Gli Spinelli, dovendo trasferirsi a Napoli capitale, e alla Corte vicereale, dovettero trovarsi un ‘abitazione degna di tanto nome e fecero edificare un palazzo monumentale.  Raccontano gli storici dell’arte, che il palazzo era qualcosa di veramente imponente e grandioso: occupava tutta la zona a monte della chiesa di S. Domenico Soriano al largo del Mercatello, si estendeva dal Cavone all’attuale piazza Mazzini, da salita Pontecorvo a Montesanto e aveva un grandioso giardino.  Con l'estinzione della famiglia Spinelli, sia il giardino sia il palazzo furono variamente riutilizzati. Il piano terra, ad esempio fu trasformato prima in cinema, l’Astoria, e poi nel teatro “Bracco”, dedicato al commediografo Roberto Bracco. A fianco era l’Istituto nautico. Tutti i viali di questa abitazione, grandi e piccoli, costituiscono oggi le strade e i vicoli della zona, l’attuale piazzetta Tarsia sembra sia stata niente altro che il cortile interno del complesso.
Nel XVII secolo, nel vallone ai piedi della collina del Vomero, fu fondata una chiesa, detta di Santa Maria di Montesanto, ad opera di una comunità di Frati Carmelitani provenienti da un omonimo monastero siciliano.  Da lì nacque il nome, e   si diffuse a tutta la zona e quindi alla piazza attuale. In quella Chiesa si trova la tomba del musicista Alessandro Scarlatti.
 Restata ancora fuori le mura, gli abitanti della zona e delle colline che volevano entrare in città, dovevano arrivare al vicino largo del Mercatello e entrare per la porta Reale, che si trovava all’ altezza della chiesa dello Spirito Santo.
Essi non amavano questo tragitto e alcuni di loro, probabilmente sull’esempio di quanto era accaduto anche con Port’ Alba qualche anno prima, cominciarono a scavare di nascosto, “nu’pertuso“– un pertugio, un buco - per poter passare almeno uno alla volta.
Racconta Giuseppe Porcaro ne “Le Porte di Napoli” (ed. Del Delfino),..”..uno sconcio Pertuso, quindi, fu fatto da quegli abitanti nel muro occidentale della città, presso Montesanto, attraverso il quale, per la via dell’Olivella, i collinari di S. Martino accedevano nella capitale, raggiungendo agevolmente i centri storici e commerciali e l’area portuale.”.
Le Autorità, dopo vari inutili interventi di riparazione, presero atto della situazione e viste le continue petizioni degli abitanti, per consentire il passaggio regolare di tutti quelli che andavano e venivano dalla collina, nel 1640, Don Ramiro Nunez de Guzman, duca di Medina, fece costruire una Porta che prese il suo nome, “Medina”. La nuova porta, si trovava, secondo gli storici, più o meno tra l’ingresso dell’ospedale dei Pellegrini e la strada che lo costeggia, quasi di fronte alla stazione della Cumana e della funicolare. Fu l'ultima porta ad essere costruita e fu anche l'ultima ad essere demolita nel 1873, ma del nome di Portamedina resta traccia ancora oggi nella toponomastica della zona. Sul largo, il vico Spezzano, luogo di memorie personali, arrivava – e arriva – dalla piazza Mazzini.
 Montesanto stava cambiando.  Dopo qualche anno, nel 1892, fu inaugurata la ferrovia Cumana che doveva portare, passando per Pozzuoli, fino a Cuma e Torregaveta. La linea andò avanti a vapore fino al 1927, quando fu elettrificata. Alla partenza da Napoli, la Cumana entrava immediatamente nella galleria scavata sotto la collina del Vomero, che, da quanto mi raccontavano, servì da rifugio antiaereo durante la guerra.




Case Puntellate oggi


Negli stessi anni   era stato inaugurato il Rione Vomero e quindi fu messa in cantiere la funicolare, inaugurata nel 1891. La funicolare si inerpicava su per la collina, era tutta di legno, fino a metà anni 60 del XX secolo, dai sedili alle porte che dovevano essere chiuse una a una dal macchinista. Oggi   è stata modernizzata, con apertura e chiusura automatica delle porte, rinnovata all’interno e ripulita.
A due passi dal largo di Montesanto, proprio alle spalle, troviamo la Piazzetta Olivella dove fu installata la stazione della metropolitana di Napoli, oggi detta linea 2, ma   è la più antica poiché in funzione dal 1925.
La Pignasecca è ancora zona di grande mercato, dalla frutta e verdura al vestiario, dal pesce a articoli casalinghi, con piccole trattorie tipiche, caratterizzata da una folla che lavora, si muove, si arrangia, e da auto e motorini che passano con difficoltà per non parlare delle ambulanze dirette all’Ospedale che ha l’ingresso proprio su quella strada.






giovedì 5 luglio 2018





Larghi e strade


ANTICAGLIA



Il termine ‘ anticàglia” indica un oggetto antiquato e in generale gusti, usi e costumi ormai passati di moda (Devoto/Oli). L ‘ enciclopedia Treccani parla di oggetti fuori moda, vecchi, antiquati: negozio di anticaglieuna casa piena di anticaglie, per indicare cose vecchie, antiche.  Giorgio Vasari, pittore, scultore e storico dell’arte, nel XVI secolo, utilizzò quel termine indicando “ l’anticaglie di Roma, archi, terme, colonne, colisei, aguglie, anfiteatri e acquidotti …”. 
Fu probabilmente cosi che a Napoli fu battezzata una strada ancora oggi esistente. La strada dell’Anticaglia si chiama così perché, piena di edifici e oggetti antichi di grande interesse archeologico, anche se questo nome potrebbe essere adatto ad almeno metà delle strade di una città che ha 2500 anni di storia e, per questo, piena di segni del passato.




Napoli Romana

L’Anticaglia non è altro che l’antico decumano superiore, quello posto più a nord e più in alto, il meno noto e il meno turistico dei tre esistenti nel centro storico di Napoli. I decumani sono le strade del centro storico, quelle più larghe, che si incrociano ad angolo retto con i cardini, le vie perpendicolari più strette. I decumani sono tre: maggiore cioè la via Tribunali, l’inferiore meglio noto come Spaccanapoli, e il superiore, l’Anticaglia. L’area dell’Anticaglia era la più alta della città antica, dove c’era il tempio di Apollo il dio del sole e c’era anche un vicus solis che non è la attuale via del sole. L’area fu chiamata poi “platea summae plateae” la somma piazza.
Il Decumano superiore, a differenza degli altri due, è quello che ha subìto, nel corso dei secoli, i maggiori rifacimenti e per questo, non è lineare come gli altri. I diversi tratti assumono anche nomi diversi: Partendo oggi da Via Costantinopoli, che   segnava il confine occidentale della città, oggi si chiama prima Via Sapienza, e poi via Pisanelli, via Anticaglia propriamente detta, poi ancora via San Giuseppe dei Ruffi e, attraversata via Duomo, via Donnaregina, via Santi Apostoli, via Santa Sofia. Qui finisce nell’attuale via S. Giovanni a Carbonara dove, in epoca antica, correvano le mura orientali della città. Lungo il tracciato delle strade dell’Anticaglia si  trovano molti edifici religiosi e civili, costruiti nel corso dei secoli come la Chiesa di Regina Coeli, edificata nel 1594, che secondo Gennaro Aspreno Galante nel suo “Le Chiese di Napoli”,  “è una delle più belle di Napoli”, o anche  la chiesa e il Monastero di Santa Maria di Gerusalemme del XIV secolo, più nota come chiesa e monastero delle “trentatré”, che era il numero delle monache che potevano essere ospitate nel convento.


Anticaglia


Verso la fine della lunga strada si può trovare la Chiesa di Santa Sofia, la cui costruzione è attribuita addirittura all'imperatore Costantino intorno al 308 d.C., che la volle sul modello di S. Sofia a Costantinopoli.
E tra i palazzi civili troviamo quello della famiglia Bonifacio, dove si racconta l’infelice storia d’amore tra Carmosina
e il poeta Jacopo Sannazzaro (1456/1530), che scrisse: “quisquis seu vir, seu foemina vidit, deperit”, cioè qualsiasi uomo o donna l’abbia vista, se ne innammorò perdutamente.
Ma l’Anticaglia prende il nome da un importante reperto archeologico di epoca   greco-romana, sul quale mi sembra più giusto soffermarmi. Chi percorre questa strada si trova davanti a un altissimo muraglione che sembra sostenere i palazzi laterali e, per oltrepassarlo, una specie di piccolo arco. Ma non si tratta di un muro di sostegno, bensi di una struttura in tufo che serviva, più di duemila anni fa, da rinforzo esterno alla "cavea" del grande Teatro romano all’aperto. “Cavea” indica tutti i settori delle gradinate di un anfiteatro o di un teatro classico, dove si sedevano gli spettatori.
A Napoli, all’epoca greco-romana, c’erano due teatri, uno all’aperto, che secondo alcune ricostruzioni, aveva un perimetro di circa 150 metri, tre ordini di archi e, all’interno, tredici file di sedili. Le gradinate più basse, la ima cavea, dovevano contenere circa 5/6mila persone, mentre la summa cavea, le gradinate più alte, è andata perduta. Il teatro coperto detto Odeon, oggi praticamente sparito, era molto più piccolo, era affiancato all’ altro e sembra fosse preferito dall’imperatore Nerone, che qui si esibì più di una volta. Entrambi erano alle spalle del tempio dei Dioscuri, che oggi è la basilica di San Paolo maggiore in piazza S. Gaetano.
 “Per andare a casa di Metronatte bisogna, come sai, oltrepassare il Teatro dei Napoletani. E’ strapieno e vi si giudica con grande attenzione chi sia un buon flautista.” Così scriveva Seneca, il celebre filosofo del I secolo d.C.,   consigliere di Nerone, nelle sue Epistole a Lucilio.  Metronatte era un filosofo stoico amico di Seneca che abitava sull’Anticaglia. Seneca vi si recava spesso per ascoltarlo e discutere con lui.



Cavea Teatro e abitazioni

Con la fine dell'Impero romano e l’avvento del Cristianesimo cessarono anche tutti gli spettacoli teatrali, la struttura fu abbandonata, eventi climatici e metereologici, come alluvioni e terremoti, contribuirono alla sua fine e all’ oblio nel periodo medievale. Gli ambienti interni furono adoperati come stalle, cantine, depositi e botteghe (peraltro fino a poco tempo fa). Quelli esterni diventarono presto una necropoli e poi una discarica e, dulcis in fundo, tra il XV e il XVII secolo su quel che restava della cavea furono costruiti   vari edifici, ancora oggi esistenti e abitati.
Le prime scoperte avvennero verso la seconda metà del XIX secolo, scavando nel giardino dello stabile sopra il teatro: il primo piano di recupero risale al 1939, ma solo dopo il 2007 sono stati effettuati lavori che hanno permesso l'affioramento di parte della media cavea dal giardino interno. Molti resti del teatro, pareti, muri, colonne e perfino alcune gradinate non sono state abbattute, ma incorporate negli edifici costruiti sopra, nascoste nelle cantine, o semplicemente dietro stucchi e pareti imbiancate. Si possono trovare negozi o anche portoni di edifici abitati nelle antiche mura romane e qualche volta anche segni di modernità come ad esempio, citofoni installati sulle stesse mura e antenne televisive.
L'ingresso per la cavea è oggi da via San Paolo e vi si accede, possibilmente con guida, entrando in un'antica bottega sita nel cortile di un palazzo di origini quattrocentesche.
Parte del teatro è visitabile, inoltre, sottoterra con un accesso molto singolare: la guida conduce i visitatori in un locale al piano stradale, un basso, una volta abitato, e all’interno, aperta una botola sul pavimento, si scende di pochi metri e ci si ritrova in un altro mondo.




lunedì 11 giugno 2018

VOMERO




Larghi e strade

Le vie dello shopping

Per interrompere il racconto di larghi e strade dalla storia antica, millenaria, oggi parleremo di vie e piazze di un quartiere definito, da alcuni, “senza storia”. Si chiama Vomero, è in collina, ed è nato, come quartiere, appena nel 1885. Fa parte del sistema collinare che abbraccia la città: va da Capodimonte verso i Colli aminei, attraversa il Vomero e si dirige verso Posillipo. La storia della collina è, in realtà, molto antica, e   oggi le strade più moderne si incrociano con i resti di antichi sentieri e vecchi edifici.
Iniziamo dal nome. “Vòmero” deriverebbe dal “vòmere”, l’organo principale dell’aratro, perché su questa collina, anticamente, c’erano poderi e masserie, campi coltivati e perciò contadini. Alcuni parlano anche di un "gioco del vomere" che i contadini della collina praticavano nei giorni di festa, sfidandosi a tracciare con l'aratro il solco più diritto.
In epoca romana, il Vomero veniva chiamato “Paturcium”, e in epoca ancora più antica veniva indicata, insieme a tutto il sistema collinare, “Pau-silipon”, parola del greco antico che significa pausa che acquieta il dolore, che libera dagli affanni. Tutta la zona era indicata, infatti, per l’aria buona e per l’ ”otium”, il riposo dalla vita pubblica, e la meditazione.



Collina del Vomero, dipinto 1795

Tutta l’area restò cosi per secoli: campi coltivati, pascoli e molte ville e masserie, raggiungibili dalla citta bassa attraverso sentieri, che ancora oggi possono essere percorsi a piedi: la Pedamentina che arriva a San Martino, la salita del Petraio (che parte da Chiaia), l'Infrascata (Salvator Rosa), i Cacciottoli (da piazza Leonardo), e Calata San Francesco che parte da via Belvedere.
Questa ultima è, da sempre, la via che congiunge il Vomero Antico, sorto in epoca romana, e il Vomero Moderno, insieme a Antignano.
Qui si arrivava partendo da Neapolis: il sentiero, costeggiando corsi d’acqua e tra pini e querce, si inerpicava su per i Ventaglieri o il Cavone giungendo nella zona di piazza Mazzini. Da qui si saliva per l' Infrascata, via Salvator Rosa e via Conte della Cerra, dove troviamo ancora oggi tracce di un ponte viadotto di epoca romana vicino alla stazione della Metropolitana.
Intorno alla strada, sorsero sicuramente case e casali rustici, poderi e masserie, ma anche un mercato, “cauponae”, taverne e luoghi di ristoro per mercanti e viaggiatori, militari e corrieri e almeno un villaggio. La strada detta “via per montes”, dopo qualche tempo, cominciò ad essere chiamata “Antiniana” e così il villaggio “Antignano”, cioè, ante Anianum.
Da Antignano infatti si poteva proseguire verso Agnano, per poi raggiungere Pozzuoli e Cuma o per la via Belvedere e la Canzanella fino a via Terracina, o per la via delle Case puntellate e la Pigna.
Al XIII secolo risalirebbe “Jesce sole, jesce sole, nun te fa cchiù suspirà, siente maje che li’ figliole hanno tanto da prià”, una preghiera rivolta al Sole di uscire per asciugare i panni appena lavati nei lavotoi pubblici del Vomero, che si dice esistessero ancora a fine ‘800.
Fino al XIX secolo quest'area era quasi totalmente agreste, e vi si potevano trovare solamente sporadiche masserie e qualche villa nobiliare, come a Antignano, quella di Giovanni Pontano,poeta e umanista del XV secolo, invisibile oggi ai più malgrado una grande tabella sulla parete esterna.
Poco distante dalla villa fu posto il dazio del regno, con la costruzione di una lungo muro – dalla Maddalena ai Colli Aminei e dal Vomero a Mergellina - detto Finanziere -, per impedire l’ingresso di merci di contrabbando, intervallato da accessi doganali.
Uno di questi è ancora visibile in largo Antignano sul muro di un vecchio fabbricato a due archi dove oggi c'è una tabaccheria: nascosta e scolorita dal tempo e dalla incuria, una piccola lapide ci avverte con l'iscrizione: Qui si paga per gli regj censali. 




Piazza Vanvitelli


Di quel muro, abbattuto nei primi anni del ‘900, restano ancora oggi tracce ben visibili, sparse un pò dappertutto. Al Vomero se ne possono vedere tratti in via E.A. Mario, così come ai Colli Aminei, dove il Finanziere continua a correre nei pressi della Stazione Metro.
Il nuovo rione fu inaugurato nel 1886/87 con la costruzione delle Vie Scarlatti e via Luca Giordano; lungo queste due strade furono costruiti palazzi e villette che oggi definiamo d’epoca, e che ancora vediamo fino a piazza Vanvitelli e oltre, mentre l’Arenella era ancora un villaggio, e la piazza Medaglie d’oro non era neanche un’idea.

Il quartiere fu quindi ideato e progettato basandiosi sulle due strade più centrali, che a un certo punto si incrociano.  Via Luca Giordano che parte proprio dal largo Antignano e va in leggera pendenza verso il centro incrociandosi con la via Scarlatti che sale verso la pizza Vanvitelli e   prosegue oltre per ricongiungersi ad altre vie per arrivare a S. Elmo e alla Certosa di S. Martino.
Erano gli anni del cosidetto Risanamento, l’intervento urbanistico del 1884 che, con la scusa dell’epidemia di colera, abbattè   edifici pubblici e privati e trasformò il centro storico.
Tutte le strade del nuovo quartiere furono intitolate ad artisti napoletani.
La via intitolata al pittore napoletano Luca Giordano (1634/1707) fu tracciata e lottizzata col primo nucleo del nuovo quartiere tra il 1886-1889 ma il grosso della edificazione si protrasse fino agli anni ’30. All’inizio del Novecento lungo questa strada iniziarono a sorgere i primi palazzi in stile neorinascimentale e alcune villette in stile liberty partenopeo. La via termina con una scalinata che scende in via Aniello Falcone.
Anche via Alessandro Scarlatti ( musicista 1660/1725) fu tracciata nel 1887, insieme alla contigua piazza Vanvitelli, da dove scende  e si allunga fino al ponte di via Cilea proseguendo a sinistra fino all’incrocio con via Doria, via Belvedere e via A.Falcone.
Anche quì furono costruiti   grandi edifici in stile umbertino; quelli della piazza Vanvitelli sono quattro uguali e richiamano alla mente i quattro palazzi della piazza lungo il Rettifilo.
 Il forte sviluppo del quartiere si verificò negli anni '50/'60 del secolo scorso, con una urbanizzazione selvaggia, senza vincoli e controlli. In quegli anni si verificò l’assalto alla collina, l‘ occupazione di zone ancora rurali e la costruzione di condomini alveari, sempre più grandi, e un vero e proprio esodo di intere famiglie che, dal centro storico, andarono a popolare i nuovi rioni.


Via Scarlatti

La conseguenza fu che, insieme ai nuovi residenti, sorsero tutti i servizi e le varie attività commerciali, e perciò scuole, banche, negozi, bar, uffici comunali, uffici postali, ospedali ed altro.
Ben presto le due strade e la piazza diventarono il ritrovo più elegante e ben frequentato di Napoli, oggi sono i luoghi dello schopping più visitato, bar, ristoranti e chiacchiere, sono le strade dello “struscio”, di quella passeggiata, cioè, lento pede, con amici e parenti chiacchierando, fermandosi e poi riprendendo il cammino, guardando distrattamente qualche vetrina, socializzando e prendendo un caffè, insomma perdendo tempo e in una parola “ ca…giando”.
Soprattutto poi da quando le due strade, dalla metà degli anni ’90 del XX secolo, sono state pedonalizzate a danno, però, delle vie laterali invase dal traffico veicolare. All’incrocio delle due strade c’era la “villa di Lucullo”, famosa friggitoria, in concorrenza con l’altra “Imperatore” situata quasi di fronte, in via Scarlatti. Qui trovavi anche il bar Daniele e addirittura un cinema, l’ “Ideal”.
Non è sopravvissuto niente.  Miracolosamente ancora esiste e, soprattutto resiste agli assalti della “civiltà”, uno spazio verde: è la villa  ”Floridiana”, uno dei posti più belli non solo del Vomero, ma della città.



venerdì 25 maggio 2018

Larghi e strade





Larghi e strade

Via San Sebastiano


La storia di questa via ci porta molto indietro, nel passato remoto di Neapolis, la nuova città. Nel VI secolo a.C., migranti fuggiti da Cuma per motivi politici, e altri profughi, fondarono la città e la circondarono con alte e possenti   mura i cui resti possiamo vedere ancora oggi in piazza Bellini, o dietro via Foria o anche al noto Cippo a Forcella.
In particolare, quelle visibili in piazza Bellini, seguendo il naturale dislivello del terreno, si dirigevano a nord lungo la attuale via Costantinopoli, a sud verso Piazza San Domenico e proseguivano   lungo il decumano inferiore, S. Biagio dei Librai, verso oriente, sulla linea di costa alta circa 7/8 metri sul mare.

San Sebastiano

Tra Piazza Bellini e l’ingresso della chiesa di S. Pietro a Maiella, secondo storici e archeologi, c’era sicuramente una porta conosciuta, secondo un documento del 1038, come “Porta Nova que dicitur de Domino Urso Tata” chiamata poi popolarmente Donnorso.
Chi usciva da quella porta si trovava a una grande vallata e campi di macchia mediterranea e boschi di pini e querce, attraversati da un fiume, il Sebeto, alimentato da acque provenienti dalle colline di Capodimonte e del Vomero attraverso il Cavone, che si dirigeva a occidente e sfociava sotto la collina di Pizzofalcone e la più antica Partenope. A destra lungo le mura si intravedevano le colline di Capodimonte, sinistra un sentiero che scendeva verso il mare e l’area portuale.
Nel corso del tempo Napoli subì poche modifiche alle mura e molte costruzioni di monasteri e chiese, dopo che il Cristianesimo era diventata la religione di Stato.
Nel periodo Ducale, intorno all’anno 1000, erano presenti, intra et extra moenia, più di 100 chiese, compresa la cattedrale, e 30 monasteri femminili e maschili.
Tra questi ultimi, risalente verosimilmente al VI secolo d.C., all’esterno delle mura occidentali, lungo quella spianata (detta poi Mercatello) e il sentiero a sinistra della porta, fu costruito un Monastero e una Chiesa, intitolati a San Sebastiano (e a san Theodoro).
 Secondo il Capasso, il monastero “era posto vicino le mura della città a occidente in un giardino (in viridario , ed era detto ad casa picta”.  I giardini si estendevano a nord fino alla Porta Donnorso, e a sud fino a Porta Cumana, che doveva trovarsi all’altezza dell’attuale S.Chiara.
In quel monastero, e la chiesa annessa, furono alloggiati nel tempo, e per farla breve, monaci basiliani, cioè di rito greco-bizantino, poi benedettini e quindi, tra il 1425/26, monache domenicane provenienti dal monastero di San Pietro a Castello (nel Castel dell’Ovo), saccheggiato dall’esercito di Alfonso d’Aragona nel 1423.



Liceo Statale Vittorio Emanuele

Così accadde che quella discesa, un vicolo, cominciò a essere individuata riferendosi al monastero di San Sebastiano, poi fu inglobato tra le mura angioine e i successivi allargamenti operati dagli Aragonesi e infine da don Pedro di Toledo.
Con gli Angioini fiorirono chiese e monasteri: alla fine del XIII secolo fu eretta la chiesa di S. Pietro a Maiella con annesso monastero di frati celestini, dove oggi c’è il Conservatorio di musica.
Nel 1581, il vicus di S. Sebastiano fu allargato e cominciò a prendere forma   la strada che vediamo oggi, e furono costruite le case sul lato destro scendendo, volute dalle monache su suoli del convento come fonte di reddito. Nel 1624 fu costruita la Porta adiacente intitolata al duca d’Alba, vicerè dell’epoca.
Successivamente la chiesa venne completamente rifatta da fra Nuvolo, cioè Vincenzo de Nuvolo, frate ma anche architetto, esponente del barocco napoletano
Sul monastero e la chiesa si innesta la storia di un istituto scolastico, un Convitto privato parificato e un liceo/ginnasio statale.

Le Suore vi rimasero poi fino al 1807 quando i francesi di Murat vi istituirono il primo Real Collegio di Napoli divenuto Liceo del Salvatore. nel 1812. E’ questa la prima apparizione, a Napoli, di quel liceo che sarà famoso.
Nel 1826 i Gesuiti, cacciati del Regno durante il periodo illuminista, vi furono riammessi e fondarono nel monastero di S. Sebastiano un “Collegio dei Nobili”, con annesso Convitto. Per essere ammessi i giovani dovevano avere “la nascita nobile, nonché sia certo che né il padre, né l'avo abbiano esercitata arte vile o meccanica, la povertà del soggetto, la quale s'intende quando non possa avere di sua porzione una rendita annua di ducati 120, l'età di circa dieci anni”. Nel 1835 fu aperto un ingresso per il Convitto nella nicchia centrale del Foro Carolino (piazza Dante), lì dove, secondo le intenzioni di Vanvitelli che aveva costruito l’emiciclo, avrebbe dovuto essere posta una statua equestre di Carlo d Borbone. La gestione dei Gesuiti in San Sebastiano durò fino al 1860. L‘ Ordine dei Gesuiti fu abolito e furono requisite "la casa lasciata dai Gesuiti con l'annesso Collegio al largo dello Spirito Santo (oggi piazza Dante) e le scuole poste alla strada di S. Sebastiano" e furono date all'Istruzione Pubblica.
Il monastero divenne perciò sede del Liceo ginnasiale Vittorio Emanuele II, Il 10 marzo 1861, con annesso convitto. Fu il primo liceo napoletano del Regno d'Italia, successivamente le riforme scolastiche del regno d’Italia trasformarono ai primi del 900, il liceo di San Sebastiano e Il convitto di Piazza Dante in due istituti separati, ma con lo stesso nome.
La chiesa cadde in rovina tra il 5 e il 6 maggio del 1941, la cupola della Chiesa crollò. I ruderi restarono lì fin dopo la guerra, e furono eliminati tra gli anni cinquanta e sessanta.
Negli anni ‘60 del XX secolo i due istituti erano separati, uno statale da via san Sebastiano e l’altro, il convitto, dietro la statua di Dante nella piazza omonima.
Superato l’ingresso di via San Sebastiano a destra si entrava nel complesso principale, a piano terra gli uffici di presidenza e amministrativi, ai piani superiori le aule. A sinistra un altro edificio che conteneva, se non ricordo male, altre aule mentre oggi – ci sono stato circa un anno fa- ci sono uffici di Segreteria. Al centro l’immenso cortile. C’era, se non ricordo male, una possibilità di transitare – ovviamente di nascosto - dal Liceo al convitto,   scavalcando un cancello e una scala per ritrovarsi dall’altra parte, uscire in piazza Dante e anche rientrare, dopo aver visitato la friggitoria “Vaco’ e ‘ pressa (vado di fretta oggi sarebbe un fast food).
Più spesso, usciti dal liceo, ci si fermava sotto port’ Alba davanti alla omonima pizzeria, o a quella Bellini, per mangiare la pizza a libretto con 50 lire. La friggitoria e le due pizzerie sono ancora lì.
La strada di S. Sebastiano era ed è nota per la presenza su entrambi i lati e per tutta la sua lunghezza di negozi di strumenti musicali (il famoso Miletti), ovviamente per la vicinanza con il Conservatorio Musicale di San Pietro a Maiella.

                                                                                    (dedicato al Gruppo: Quelli del V.E.II)






mercoledì 28 marzo 2018



Toledo è una bella e storica città della Spagna situata su una collina e attraversata  dal fiume Tago.  Fu conosciuta in tutto il mondo per “ las espadas toledanas” le spade di Toledo, apprezzate da tempi antichi, per la loro resistenza e  flessibilità. Ma a Napoli ha lasciato un nome alla strada più famosa della città. La storia è lunga, bisogna tornare indietro nel tempo fino al XVI secolo e per essere precisi, nell’anno 1503.
 Napoli, e tutti i territori dell’Italia meridionale e la Sicilia, fu conquistata dalla Spagna, che ne fece un vice-regno amministrato da suoi Viceré. Nel 1532 arrivò a Napoli il vicerè Pedro Alvarez de Toledo y Zuniga, marchese di Villafranca. Era un tipo duro che, arrivato in città, sfruttò al massimo i suoi poteri sia per favorire gli interessi spagnoli con gabelle e richieste di danaro, sia comunque per migliorare la capitale. Gli riuscì tutto abbastanza bene, tante furono le sue iniziative, governò per 21 anni dal 1532 al 1553. Il suo nome resta legato a quella strada centrale di Napoli, che egli fece progettare e costruire dal 1536.  nel suo progetto rientrava anche l'allargamento delle mura della città.
Don Pedro de Toledo
La storia è troppo lunga per narrarla tutta e, per esser brevi, dirò solo che le nuove mura della parte di terra, dalla attuale  Chiesa dello Spirito Santo    salivano “ ad  meza falda del monte de santo Erasmo”, (oggi S. Elmo), da dove poi riscendeva  verso la Playa -  Chiaja e Santa Lucia – per poi ricollegarsi ai bastioni e alle casematte di Castelnuovo dalla parte di mare ( oggi Molo Beverello e piazza Municipio). Gli storici non sono tutti d’accordo sul tracciato di queste mura, poiché alcuni pensano che arrivavano a S. Elmo, altri ritengono invece che si fermavano “ a meza falda”, cioè nella zona del corso Vittorio Emanuele e poi riscendevano.
Ma a noi interessa quello che accadde ai piedi della collina, all’  altezza della attuale chiesa dello Spirito Santo, che in quegli anni non c’era ancora.
Nelle mura che salivano verso la zona collinare fu aperta una porta chiamata Reale, che immetteva sul largo del Mercatello (oggi piazza Dante), e fu da qui che iniziò la nuova strada di don Pedro.
                                                                                       
Il percorso della nuova strada era già segnato naturalmente da tempi antichissimi, era stato il letto di contenimento   di acque piovane  che scendevano dalle colline.  Poi era  diventato solo  una fogna a cielo aperto che convogliava verso il mare le acque reflue che provenivano dalla collina del Vomero, raccogliendo rifiuti di ogni tipo. Si era successivamente prosciugato ed era un condotto: “cosi ampio che adagiatamente camminare vi potrebbe una carrozza per grande che fosse, e questo principia dalla Pignasecca presso la porta Medina a terminare chiesa della Vittoria, sita fuori la porta di Chiaja, dove dicesi Chiatamone. In questo chiavicone entro quasi tutte  le acque piovane che scendono dal soprastante monte di San Martino”. (De Renzi, "Napoli nell'anno 1656").
La nuova strada doveva terminare dopo circa 1200 metri, nel largo di palazzo, li dove pochi anni dopo iniziarono i lavori di edificazione del palazzo destinato a residenza del Vicerè, che non desiderava più vivere nel Castel nuovo e più tardi si diede inizio alla costruzione del palazzo reale.
Dobbiamo ora, prima di proseguire, abbandonare l’immagine che abbiamo di Toledo oggi, e pensare a quell’area come a uno spazio verde al centro del quale si stava delineando una strada: da un lato iniziava la salita per il Vomero e l’area della Pignasecca, piena di verde e di Pini e pigne e di sentieri frequentati da contadini che andavano su e giù per vendere o acquistare generi e prodotti nel largo del mercatello. Dall’altro lato ampi   spazi degradanti verso il mare, verso il Largo delle Corregge - la attuale piazza Municipio e via Medina -, dove era e è il Castel nuovo protetto da mura e contrafforti.
Strada di Toledo (XVII sec.)
Oltre a rendere più sicura la città, le aree ai lati di Toledo portarono benefici all’economia di Napoli ma anche alle tasche del Vicerè, poiché   esse   furono   immediatamente edificabili.
 Sulla collina degradante verso la strada si pensò a costruire   caserme per le truppe di passaggio o stanziate a Napoli, una griglia, ancora oggi riconoscibile,   di strade strette intorno a costruzioni quadrate.
Lungo la strada di Toledo, invece, nel corso degli anni successivi   l’ aristocrazia del Regno fece a gara per accaparrarsi, pagando profumatamente,  spazi  e costruirsi palazzi sempre più grandi e degni dei Grandi di Spagna, per vivere vicino alla Corte vicereale. La strada di Toledo è ancora oggi piena di palazzi d’epoca, dal XVI al XVIII secolo, come palazzo Doria d’Angri di fronte alla Spirito santo, palazzo Maddaloni, Palazzo Della Porta  del 1569 all’angolo con la Pignasecca, Palazzo del Nunzio apostolico del 1585, Palazzo Berio della metà del XVII secolo, Palazzo Tappia – quello del ponte -  del 1574, palazzo Zevallos devastato nel 1647 durante la rivolta di Masaniello. Merita una citazione anche il palazzo sede   del Banco i Napoli, costruito nel 1939, in sostituzione di quello di fine settecento costruita alle spalle di palazzo san Giacomo. A metà strada c'era - e c'è ancora - un bel largo detto della Carità, dal nome di una antica chiesa che oggi non c'è più, chiamata S.Maria della Carità. Nel largo si svolgeva un grande e fiorente mercato pieno di bancarelle e venditori ambulanti che durò fino all'inizio del XIX secolo, quando fu vietato. Quel largo ha cambiato nome più di una volta, " piazza Carlo Poerio, piazza Costanzo Ciano, e per finire piazza Salvo d'Acquisto", ma i napoletani lo chiamano sempre piazza Carità.
Gli anni scorrevano, tutto cambiava, alla Spagna si sostituì per un breve periodo l’Austria, ma poi arrivarono, nel 1734,  i Borbone e la città ritornò capitale di un grande Regno. Una capitale che si apprestò a diventare la terza città europea, dopo Parigi e Vienna, fu affidata alle cure dell’architetto Luigi Vanvitelli. Lui e la sua scuola riempirono non solo Napoli, Caserta e mezza Campania, ma l’Europa, di palazzi, strade e piazze, edifici di ogni genere, giardini e altro.
Fu preso in esame anche il Largo del Mercatello che non poteva più restare fuori dalle mura, la porta Reale era in condizioni precarie e non serviva più: a stento potevano passarci due carrozze in mezzo a una folla di ambulanti con le loro bancarelle e baracche.
La situazione era ancor più grave dopo il rifacimento del Mercatello, operato da Vanvitelli con quell’emiciclo ancora oggi visibile, ma fu Ferdinando IV che il  1° aprile  1775  ordinò la demolizione della porta aprendo alla città tutta un’altra prospettiva, dal Foro Carolino ( cosi fu chiamata l’attuale piazza Dante), giù per Toledo fino al palazzo reale e dal ‘altro lato la continuazione oltre il largo, sull’attuale via Pessina su fino al MAN e alla strada per Capodimonte.
Napoli diventò presto la tappa fissa del Grand Tour, quel viaggio culturale che i ricchi rampolli delle famiglie francesi usavano intraprendere in Europa per accrescere il loro bagaglio culturale, artistico e politico, Via Toledo fu più volte citata da grandi scrittori ed artisti. 
Una citazione celebre, dedicata a via Toledo è senz'altro quella di Marie-Henri Beyle, noto come Stendhal, che -  lasciando la città partenopea - commentò: «Parto. Non dimenticherò né la via Toledo né tutti gli altri quartieri di Napoli; ai miei occhi è, senza nessun paragone, la città più bella dell'universo».
Intanto con il passare degli anni le cose cambiavano: A Napoli fu sperimentata e attuata la prima illuminazione pubblica delle strade lungo Toledo. La via si era arricchita di attività commerciali e  molti erano i caffè e le pasticcerie. Come non ricordare Pasquale Pintauro che, verso la fine del XVIII secolo, a Toledo,  entrato in possesso di una ricetta originale di un dolce con la crema, la modificò, e tenne a battesimo la " sfogliatella" in quel piccolo locale che è sempre lì ancora oggi, di fronte a via Santa Brigida. Nel 1827 arrivò un po' più avanti, nel palazzo Berio, uno svizzero che si chiamava Luigi Caflisch, che aprì un gran caffé dove serviva  oltre alle sfogliatelle, babà, cassatine, crostate, struffoli a Natale e liquori di sua produzione. 

La pasticceria Caflisch, di fronte alla galleria, fu chiusa pochi anni fa.
Venne poi il tempo in cui non ci fu più né strada né via, ma semplicemente Toledo e tutti capivano cosa e dove era. Ancora oggi si dice: vado a Toledo.
E ancora venne un bel giorno di ottobre 1870,  quando l'allora sindaco Paolo Emilio Imbriani, preso da sentimenti nazionalistici e unitari, dopo la annessione di Roma, decise di cancellare più di tre secoli di storia, e mutare il nome in via Roma in onore della nuova capitale del regno d’Italia.
Ci furono grandi proteste per questa decisione anche da parte di personaggi sostenitori dell’unità, ma Imbriani fece solo aggiungere sulle targhe stradali la scritta "già via Toledo". Non contento di questo lo stesso Imbriani , un paio d’anni dopo, inaugurò la statua di Dante Alighieri nel Largo del mercatello e lo chiamò piazza Dante.
Il cambio di denominazione ufficiale non modificò nei napoletani il nome della strada, Toledo era stata e Toledo doveva restare nel linguaggio di tutti.
Verso la fine del XIX secolo, nel 1887, si diede il via alla grande operazione detta del Risanamento di Napoli: furono abbattuti edifici, case fatiscenti,  cacciati via i residenti, modificate  strade vecchie  e create nuove per motivi sanitari e igienici.
Nella zona di Toledo, al posto dei palazzi abbattuti, fu edificata la grande galleria intitolata, nel 1890, a Umberto I di savoia, re d'Italia.
Stazione Metro
In galleria furono creati caffè, e altri locali commerciali, Toledo non perse di fascino durante gli anni della Belle Epoque e del Novecento, restando la strada dello "Struscio". Nei piani inferiori della galleria ebbe gran successo il “café chantant” del Salone Margherita, intitolato alla regina che aveva dato il nome anche alla famosa pizza.
Nel 1980 via Roma ritornò ad essere ufficialmente Toledo, e così è ancora oggi.
La   strada oggi è aperta al traffico veicolare fino a piazza Carità, poi è tutta pedonale fino a S. Ferdinando e Largo di palazzo.
Fino a pochi anni fa c’erano i venditori ambulanti africani, che stendevano la loro merce sulla strada pronti a scappare appena si vedeva un lampeggiante blu. Ora gli ambulanti ci sono sempre ma sono napoletani. Una volta c’era solo LUISE, grande rosticceria, bar e ristorante, nel piccolo largo della stazione della Funicolare, oggi la via è piena di street food, tutti mangiano pizze fritte e altro cibo spazzatura.