lunedì 6 settembre 2021

Il generale

 

 

La situazione dell’Afganistan attuale mi ha fatto venire in mente un libro che avevo letto circa venti anni fa, per caso scoperto in una libreria. Quel libretto, che ho ritrovato nella mia biblioteca casalinga, narra la vita di un napoletano del XIX secolo, un emigrante considerato particolare e diverso da quello che è considerato in genere lo stereotipo del napoletano.

Il libro, edito da Neri Pozza nel 2002, ha un titolo significativo: ” Il napoletano che domò gli afghani”, l’autore è Stefano Malatesta, romano, giornalista e scrittore. Un bel racconto sull’Afganistan e dintorni del XIX secolo, tra militari occidentali, regni orientali e tagliagole afgani, pastun e sikh.

Chi era questo napoletano di cui nessun altro autore italiano, o napoletano, aveva mai parlato, al contrario degli inglesi, come risulta dalla bibliografia indicata nelle pagine finali del libro. Scarse sono le notizie anche sul web. Cercherò ora di farne un breve ritratto.

Si chiamava Paolo Avitabile e non era di Napoli, ma di Agerola, una località situata sopra i monti Lattari a 600 metri sul livello del mare, tra la costiera sorrentina e quella amalfitana. A lui è infatti intitolata la piazza del paese.

Agerola, nel medio Evo era parte integrante del territorio della Repubblica marinara di Amalfi, mentre dopo entrò a far parte del Regno di Napoli. Oggi  è famosa per la produzione di latticini, come fiordilatte e mozzarelle e per il noto provolone del monaco, ottenuto solo dalle mucche del paese.

Paolo Avitabile era nato nel 1791. A Napoli regnava Ferdinando IV di Borbone con la regina Carolina d’Asburgo: entrambi tremavano davanti a quello che stava accadendo in Francia dall’89 e alle idee rivoluzionarie. Paolo cresceva tra le montagne del paese natio, dove le nuove idee arrivavano in ritardo e molto scremate dai particolari più raccapriccianti.  Si senti parlare nel 1799 della fuga del Re, dell’arrivo dell’esercito francese e di una repubblica, ma Paolo aveva appena otto anni.

Egli, crescendo, sentì parlare sicuramente di Napoleone che vinceva tutte le battaglie e le guerre, probabilmente si impressionò della forza di quel generale, e, a 16 anni, nel 1807, si arruolò nella milizia ausiliaria, che serviva come riserva per l'Esercito in caso di mobilitazione.

Da un anno era re di Napoli Giuseppe Bonaparte, il fratello di Napoleone, mentre, nel 1808, a Napoli arrivò Gioacchino Murat, cognato di Napoleone perché ne aveva sposato la sorella Carolina. Il nuovo re fu ben accolto dalla popolazione, che ne apprezzò la bella presenza, il carattere sanguigno, il coraggio fisico, il gusto dello spettacolo. Il nuovo Re riorganizzò l’esercito, aumentando il numero dei coscritti e imponendo la leva obbligatoria con una ferma di 6 anni per la fanteria e 9 per l’artiglieria e per la cavalleria.

Paolo allora, appena possibile, passò nel Corpo di Artiglieria dell ‘ esercito e diventò un bravo artigliere e grande esperto di cannoni, raggiungendo anche il grado di aiutante e poi di luogotenente.

Non si sa se prese parte a qualcuna delle campagne napoleoniche agli ordini di Murat, ma ormai si era al termine dell’avventura napoleonica e si verificò la restaurazione: tornò a Napoli il vecchio Re Ferdinando che però non si fidava dei militari ex murattiani, che furono perciò sospesi dal servizio e ridotti a mezza paga.

Il tenente Avitabile era tra questi. Cosa fare? Per uno che sapeva solo far la guerra e usare bene i cannoni, cosi come per altri ex ufficiali napoleonici, non restava molto. Non aveva ancora trent’anni, era solo, poteva emigrare. Venne a sapere che in Oriente, in India e altri paesi di quell’area, erano molto ricercati militari europei con esperienza nell’esercito napoleonico. In India c’erano già i vincitori di Napoleone, gli Inglesi e quindi era meglio evitarli.  Come altri ufficiali francesi, italiani di altri Stati e altri, si mosse per raggiungere la Persia dove lo Scià stava reclutando ufficiali europei per l'esercito del proprio paese.

La Persia, l’Afganistan, il regno dei Sich in Pakistan erano territori lontanissimi e sconosciuti, inoltre vastissimi, abitati da tribù di tagliagole, sempre ribelli a ogni autorità, di varie etnie e varie religioni perennemente in lotta tra loro e con qualsiasi straniero.

Fin dai tempi di Alessandro magno e poi dei Romani, tutti quelli che erano passati di là non ne erano usciti bene, come succederà ai Russi e agli Inglesi, già padroni di mezza India. Da pochi anni alcuni signori della guerra avevano tentato di organizzare Stati sull’esempio occidentale, Scià, maharaja e simili stavano provando  a ricostruire le città, a recuperare le tribù ribelli, a modernizzare  gli eserciti.

Era il 1820, Paolo Avitabile fu arruolato nell’esercito dello Scià di Persia, Fath Ali Shah.

Probabilmente capi subito dove si trovava, in un paese dove si apprezzava solo la forza, il coraggio e il sangue, dove le ribellioni erano frequenti e i metodi di guerra non erano quelli occidentali. Per cui, a mio parere, si adeguò e usò i mezzi a sua disposizione in quel paese. Fu mandato a convincere i Kurdi del Kurdistan persiano a pagare le tasse dovute allo scià che non avevano mai pagato. Non fu difficile convincerli con i metodi adatti al paese: cannonate, esecuzioni di massa, impiccagioni, terrore e altro.  Restò sei anni in Persia e fece una carriera che mai si sarebbe potuto aspettare a Napoli o comunque in Occidente: fu promosso infatti generale.

 La sua fama si estese a tutta l’area, era conosciuto ora come Abu Tabela e ricercato per le sue capacità e i metodi di “convincimento”.

il generale Avitabile


Il territorio confinante con la Persia offriva molte possibilità. L’Afganistan aveva una storia di invasioni e ribellioni e di guerre. Il territorio, prevalentemente montuoso e dominato dall'Hindu Kush, iniziava dove finiva quello persiano e si estendeva fino al nord dell’India, dove vivevano i Sikh, un gruppo etnico originario del Punjab, Era un popolo di guerrieri tagliagole, ora organizzato in un regno Sikh che si estendeva da Kabul a Peshawar. Dal 1801 regnava su questo vasto territorio Ranjit Singh che cercava di modernizzarlo. Tra le altre cose, andava in cerca di ufficiali europei esperti per aggiornare il suo esercito e tenere a bada le popolazioni ribelli. A tutto questo si aggiungevano i tentativi di penetrazione della Russia zarista da un lato e dall’altro i tentativi, poi riusciti, degli Inglesi dalla vicina India che volevano mettere sul trono afgano un re fantoccio a loro favorevole. Chi legge con un minimo di attenzione potrà cogliere similitudini con quello che è accaduto nel XX secolo, Russi, americani al posto degli Inglesi, Presidenti fantoccio, ribelli mussulmani e altro.

Avitabile, come altri ufficiali europei, si spostò nell’area afgana, contrattò l’ingaggio con  Ranjit Singh, che gli affidò il comando dell’Artiglieria. Ai due ufficiali francesi, Allard e Ventura, furono affidate il
comando della cavalleria e della fanteria.  In poco tempo
Ranjit Singh potè disporre  di un potente esercito di circa centomila uomini, di cui la metà armati e disciplinati all’europea.

Nel 1835, Avitabile fu nominato governatore di Peshawar, città posta sul margine del Passo Khyber,  abitata prevalentemente da persone appartenenti all'etnia pashtun, e da qualche anno, 1818, faceva parte del regno sikh come anche Kabul. Peshawar era inoltre pericolosa zona di confine in guerra con i ribelli afghani della maggioranza pashtun.                

 Le popolazioni afgane, divise tra varie tribù e religioni, erano turbolente ma anche i Sikh non scherzavano. Essi conoscevano per fama il generale Avitabile chiamato ora Abu Tabela, translitterazione del cognome, e ne apprezzavano i metodi sbrigativi.                             

L'Afghanistan come abbiamo già detto, era attraversato da continui scontri e disordini tra le varie diverse etnie e religioni. Al momento del suo insediamento gli afghani erano in continua rivolta e terrorizzavano la popolazione, anche allora c’erano i fondamentalisti islamici, precursori degli odierni talebani e delle altre bande di terroristi.

Era il posto giusto per il generale napoletano.  I suoi metodi erano già conosciuti nell’ area, pugno di ferro e punizioni esemplari: i ladri ed i briganti catturati venivano sbrigativamente squartati, gettati dall'alto dei minareti, impalati o impiccati.  Così riuscì a domare quella parte di Afghanistan che era sotto il suo diretto controllo. Qualcuno dice che i metodi di Abu Tabela erano condivisi dai “selvaggi” asiatici che se li aspettavano. Essi, si legge in Malatesta “non solo dovevano essere governati attraverso la coercizione e la paura, ma loro stessi si aspettavano un comportamento simile da parte dei governanti, e anzi lo giustificavano e lo apprezzavano”.



Ovviamente c’era chi li criticava: e chi poteva esser se non gli Inglesi, i cosiddetti gentiluomini vittoriani che criticarono i metodi del "feroce italiano", ma poi ne riconobbero la validità e la mancanza di ogni altra alternativa. Non solo, ma ne ebbero poi bisogno quando, dopo essere stati sconfitti sul passo Kyber, vollero insistere per occupare l’Afganistan. Chi si scandalizza anche oggi leggendo delle atrocità di Avitabile, dovrebbe pensare a quello che fecero i gentiluomini Inglesi in India, in Australia con i nativi, e con i prigionieri irlandesi. Oppure ai “democratici” statunitensi che massacrarono e violentarono i nativi americani, e a quel che fecero in Corea, in Vietnam, in Iraq e nello stesso Afganistan. L’elenco delle atrocità degli uomini in guerra sarebbe troppo lungo, ma forse è meglio citare quelle degli italiani “brava gente” che usarono in gas in Africa o fucilavano in massa e quelle dei piemontesi che fecero l’unità d’Italia massacrando e stuprando resistenti e contadine e poi appendendone i corpi nudi nelle piazze dei paesi del sud.

Tornando perciò a Avitabile, egli fu  ricompensato per i suoi ottimi servigi con le più alte decorazioni e con molti soldi e regali.  Si racconta che il governatore si comportò come un principe orientale. A abiti,   cavalli, palazzo, tutto contribuiva a mantenere la sua autorità su un popolo come l’afghano. Poi la mensa di cui si vantava, e anche l’harem. Un governatore indiano senza un harem, pieno di donne ovviamente bellissime, non avrebbe avuto il rispetto dei sudditi. Avitabile fu anche descritto come un padrone di casa franco e piacevole, e un eccellente governatore. Non si sa se si era convertito all’islam e se aveva avuto figli.

Poteva restare per sempre a Peshawar, forse ambire a qualcosa di meglio, ma fece la scelta di tornare al suo paese.

Peshawar 1857


Così nel 1844, molto ricco e famoso, decise di andare in pensione, di lasciare l’Oriente e tornare al paese natio.  Non si sa se portò con sé le donne del suo harem o anche qualche figlio: se non le portò via, cosa ne fu di queste poverette? E immagino che non le portò con sé né che era diventato mussulmano, altrimenti come faceva a sposarsi al paese?

A Napoli regnava Ferdinando II di Borbone, un giovane re capace e pieno di iniziative, che in seconde nozze aveva sposato Maria Teresa d’Asburgo- Teschen. Minuta, vestita semplicemente, Maria Teresa non sembrava appartenere alla classe nobile e non sopportava la vita di Corte. Preferiva svolgere una vita chiusa nei suoi appartamenti, dedicandosi solo al cucito e ai numerosi figli. La Corte era un ambiente vecchio, chiuso, bigotto e  moralista: la visita di Avitabile fu un vero diversivo ma anche un mezzo scandalo. Un avventuriero, vestito da colonnello dell’esercito borbonico, di cui si raccontavano cose da pazzi, soprattutto in materia di donne e di harem. Secondo alcuni, Ferdinando e la regina non gradirono la visita, mentre altri dicono che Avitabile fu ricevuto con tutti gli onori. L’udienza non durò molto, giusto il tempo di ricevere un regalino dal Re e consegnare regali  per la Regina e le figlie, kashmire, oggetti d’oro e argento, e immagini e statuine d’avorio.

Fu sicuramente migliore l’accoglienza che ricevette a Parigi, dove Re Luigi Filippo gli consegnò la decorazione della legion d’onore, e ancora di più a Londra, dove fu  ricevuto da lord Palmerston e addirittura dal vecchio  duca di Wellington, vincitore di Napoleone a Waterloo.

Lo stesso Duca gli donò una sciabola e, cosa strana, un toro, due vacche gravide e una vitella di razza Jersey. Sembra fosse un dono prezioso e importante, perché, all’epoca, era vietato portare fuori dall’Inghilterra bovini appartenenti a quella razza.

.SE ne tornò poi al paese, a Agerola, dove oltre a farsi costruire una abitazione sullo stile indiano, sposo
una ragazza che aveva la metà dei suoi anni, e dicono, che fosse la nipote, cioè la figlia del fratello
.

 Avitabile incrociò i bovini avuti in dono con le razze locali, ottenendo il primo nucleo di una nuova razza, Ma era arrivato alla fine, aveva 59 anni, morì stupidamente, mentre dormiva, intossicato dalle esalazioni di un braciere nella casa che aveva fatto costruire. Si disse però che la sua morte fosse stata provocata o agevolata dalla giovane moglie, che era stata costretta a sposarlo.

La nuova razza di bovini, nel 1952, ottenne il riconoscimento ufficiale dal Ministero dell’Agricoltura ed il nome di “Agerolese”.

Il latte di queste mucche rende speciali ancora oggi i latticini di tutta la zona, come  il fior di latte ed il provolone del Monaco.  

La vita di quest’uomo può sembrare un romanzo di avventure, e sicuramente c’è qualche esagerazione nel racconto, ma comunque all’epoca c’erano molti mercenari ex soldati napoleonici che cercarono fortuna in paesi lontani e vissero avventure straordinarie.

 

Per saperne di più

 

Stefano Malatesta: ”  Il napoletano che domò gli afghani”, edito da Neri Pozza nel 2002,

Julian James Cotton General Avitabile, Edinburgh Press, 1906

Dal WEB:

Aniello Apuzzo, Il Generale Avitabile, ripreso da Francesco Cuomo


Iourdelò.it, rivista storico culturale: “‘o malommo”

Saporinews.  “C’era una volta la mucca che Paolo Avitabile ebbe in dono dal Duca di Wellington”

Il Giornale.it: “L'italiano che domò gli afghani: ecco chi era il terrore”, di Davide Bartoccini

 

 

 

domenica 11 luglio 2021

 


 

Alla ricerca del fiume perduto  

Sulla presenza a Napoli, in epoche antiche, di corsi d’acqua, non sembrano esserci dubbi. Ne parlano antiche cronache, ne parlano poeti come Virgilio e il napoletano Papinio Stazio e, molti secoli dopo, Giovanni Boccaccio; ne parlano i nomi di strade e quartieri della città come l’Arenella, sulla collina, San Carlo all’Arena e l’Arenaccia nella zona orientale, derivanti tutti dalla “rena”, quella specie di sabbia o di terriccio che si può trovare sul greto di fiumi; ne parlano inoltre i “ponti” della Maddalena e di Casanova nella zona orientale della città, che presuppongono il superamento di corsi d’acqua. I dubbi e le domande senza risposte riguardano invece il fatto che non ci sono più, sono spariti chi sa come e perché, si dubita sul loro percorso, da dove nascevano, dove scorrevano e dove finivano. E, perfino sui nomi, ci sono dubbi: Sebeto, Rubeolo o Clanis? Il primo è generalmente il nome più noto e più utilizzato. Viene infatti nominato già riferendosi all’assedio romano alla città, quando il console Publilio Filone, nel 326 a.C., accampò il suo esercito fra Neapolis e Partenope, alla foce del Sebeto. Lo citarono poi Virgilio nel libro VII° dell’Eneide e Stazio nel libro I° delle Silvae. E allora, gli altri nomi? Cosa erano il Rubeolo e il Clanis? Erano altri fiumi? E dove scorrevano? Le teorie sono tante. Il fiume, secondo l’opinione più seguita, nasceva dalle sorgenti della Bolla, sul Vesuvio, poi attraversava le campagne di Casalnuovo, Volla e Ponticelli, e, giunto nell’area napoletana, scorrendo dalle colline di Capodimonte e del Vomero, probabilmente si divideva in due rami principali: uno scorreva impetuoso e dritto verso la pianura che oggi è via Toledo e sfociava nella zona tra piazza del Municipio e Plebiscito; l’altro ramo andava a Oriente per sfociare fuori porta Capuana verso il Ponte della Maddalena.  C. De Seta ritiene che acque “a carattere torrentizio” scendevano dalle colline a valle, defluendo “lungo via Foria che nella zona dell’attuale via Cirillo si divideva in più rami dando origine, con il corso del Rubeolo, a una vasta zona paludosa. Dall’altra parte il limite dalla zona urbana era segnato dal corso del Sebeto, un piccolo fiume dall’andamento abbastanza regolare che scorreva lungo le attuali via Pessina, Sant’Anna dei lombardi, Medina e finalmente sfociava nella piana dove oggi è piazza Municipio”. Altri raccontano che, a occidente, la foce era sotto il promontorio del monte Echia e Pizzofalcone, che allora era circondato dal mare; c’era, secondo questa teoria, una deviazione a monte che girava verso est e si congiungeva con un altro corso d’acqua, detto “Clanis”, sfociando a Oriente, nella palude.  Secondo alcuni storici, il nome “Rubeolo”, più che un vero nome, era solo un diminutivo che indicava un “piccolo rivo”. 

Secondo altri, a Occidente scorreva invece sul percorso già indicato, un corso d’acqua che fu chiamato “Rubeolo”, che poi, solo dopo il XIV secolo, per intervento di Boccaccio, Pontano e Sannazzaro, fu chiamato Sebeto.  Mario Napoli, archeologo, parla di acque sotterranee che “durante tutta la vita di Neapolis” furono chiamate Sebeto e che, quando sparì, fu chiamato così un modesto fiumicello detto Rubeolo che scorreva ai piedi del Vesuvio nella zona orientale di Napoli.

Nella anonima trecentesca Cronaca di Partenope si narra di un fiume che scorreva tra “monte Sant’Erasmo e lo monte di Patruscolo” (oggi S. Elmo e Vomero), che era perfino navigabile. Era il Sebeto? Alcuni dicono che il Sebeto nel massimo del suo splendore era ricco di acque limpide, pescose e anche navigabile, cosi come erano, e sono, il Garigliano, il Tevere ed altri fiumi famosi.

Come si vede le teorie sono tante e girano tutte intorno ai tre nomi. E poi il mitico Sebeto, o Rubeolo, o Clanis, lentamente sparì. Probabilmente le acque dalle colline smisero di alimentarlo, la lenta attività sismica della zona portò alla modifica della linea di costa che interrò la foce occidentale, mentre le paludi orientali furono bonificate in epoca angioina, quando Napoli divenne capitale del Regno. Diventò così leggenda e fu dimenticato. Giovanni Boccaccio, napoletano d’elezione lo cercò inutilmente, così come anche Francesco Petrarca, che trovò solo un rigagnolo che scorreva tra i palazzi.

Probabilmente del Sebeto non si sarebbe più sentito parlare se  non fosse stato cantato dai due massimi esponenti dell’Umanesimo napoletano, Giovanni Pontano che nella prima delle “ Eclogae” ,rifacendosi a modelli classici, canta il matrimonio della sirena Partenope e Sebeto, che rappresenterebbero la città e il fiume; e Jacopo Sannazzaro, che  nell’Arcadia, cita il “ placidissimo Sebeto” che scorre per “ la erbosa campagna e poi, tutto insieme raccolto, passa sotto le volte di un piccolo ponticello e senza strepito  alcuno ricongiungersi col mare”.

Se è vero che il fiume scorreva in due direzioni, una verso occidente e un’altra a oriente, i due alvei di scorrimento e di contenimento delle acque piovane  divennnero fogne a cielo aperto che convogliavano verso il mare  acque reflue che scendevano dalle colline di Capodimonte, della Sanità e del Vomero, raccogliendo rifiuti di ogni tipo. Si erano successivamente prosciugati e quando nel 1532 arrivò a Napoli il Viceré Pedro di Toledo, dei fiumi non c’era più traccia ma solo leggende. Perciò quei percorsi erano pronti per essere trasformati in due strade: una oggi è via Foria e l’altra è la più nota via Toledo.

Il mito del fiume andò sempre più crescendo: a metà del 600’ il viceré de Fonseca commissionò a Cosimo Fanzago una fontana che lo rappresentasse. Oggi si trova a Mergellina, al largo Sermoneta.   Ma, secondo una ulteriore ipotesi, il fiume non è mai scomparso e scorre ancora oggi nelle viscere di Napoli e spesso si mostra in superficie provocando allagamenti.

 

 

domenica 23 maggio 2021

Giustiniano e i Goti

 

Giustiniano e i Goti

 

Nel VI secolo d.C., la penisola italiana fu sconvolta da una “grande” guerra che iniziò nel 535 e durò per più di vent’anni. Fu una guerra di aggressione a uno Stato sovrano riconosciuto dallo stesso Stato aggressore.

L’ Italia non aveva niente che poteva attirare o essere di qualche utilità economica, salvo naturalmente un prestigio politico: la vecchia Roma era solo un ammasso di rovine sulle quali si ingrassavano papi, ecclesiastici e classi aristocratiche.  

Lo Stato aggredito fu il Regno d’Italia, costituito dal 493 d.C. da Teodorico, re dei Goti, con capitale Ravenna: era un Regno cristiano, unitario dalla Sicilia alle Alpi e alla Dalmazia, ormai ben organizzato e con buoni risultati in campo economico. La gestione degli affari civili e diplomatici era generalmente affidata a funzionari romano-italici, mentre la parte militare era organizzata e comandata da ufficiali Goti. Nel 535 si era alla seconda o alla terza generazione gota, nata e educata in Italia secondo la cultura e i sistemi latini ed erano cittadini romani (jus soli?), il Re si chiamava Teodato.

Giustiniano
Lo Stato aggressore era invece l’Impero Romano d’Oriente con capitale Costantinopoli, governato in quell’anno da Giustiniano, “Basileus e Kaisar dei Romei”, ovvero Sovrano e Imperatore dei Romani, il quale si era messo in testa di riprendersi Roma e l’Italia caduta in mano ai barbari. Egli forse non ricordava o ignorava che erano stati i suoi predecessori, come Zenone, a mandare in Italia i barbari Goti di Teodorico e a premettergli di stabilirvisi.

Giustiniano, insieme ai suoi generali, pensava che l’operazione sarebbe stata semplice e di breve durata, che la popolazione latina avrebbe applaudito l’intervento militare e il ritorno dei cugini “romei”.

L’inizio, infatti, non fu niente male: sbarcato in Sicilia nell’autunno del 535, Belisario, il migliore dei generali imperiali, trovò scarsa resistenza, facilmente attraversò lo Stretto e risalì per la Calabria proseguendo verso Napoli. Una vera passeggiata.

Ma non poteva durare.  Davanti alle mura della città partenopea tutto cambiò e niente andò più secondo le previsioni. Davanti a quelle mura, Belisario dovette fermarsi e porre l’assedio. Lì iniziò la vera guerra. Procopio di Cesarea, che aveva preso parte alla spedizione come segretario del generale, scrisse poi la storia di questa guerra fatta di massacri, violenze, distruzioni, crisi economica, migliaia i morti e feriti, carestie e epidemie e, alla fine, dopo circa vent’anni, inconcludenti risultati.

Regni romano-barbarici
 A Napoli iniziò la vera guerra. il grosso dell’esercito aveva posto l’assedio a Oriente, probabilmente davanti a porta Capuana, mentre altri reparti si erano accampati nella vallata sottostante alla Sanità. L’assedio si trascinò per parecchio tempo, la città fu presa per caso, e con l’inganno, attraverso dei pozzi sotterranei che sbucavano poi all’interno delle mura.  Il massacro che ne seguì fu tale da provocare l’intervento del Papa: secondo M. Schipa, il generale Belisario fu aspramente “rampognato a Roma dal pontefice Silverio per gli eccidi commessi nella città”.

 Nel corso della guerra, qualche anno dopo, Napoli fu assediata di nuovo ma questa volta dalla resistenza Gota, che voleva riprenderla, e fu costretta ad arrendersi per fame: alla resa non seguì però alcuna violenza, anzi, il Re Totila risparmiò e sfamò la popolazione e fece anche accompagnare il presidio orientale con cavalli e uomini, senza toccarli, fino a Roma. Che differenza con il massacro compiuto da Belisario e i suoi!

La guerra continuava a mietere vittime tra la popolazione e morti e feriti tra soldati di entrambi gli schieramenti. Buona parte della popolazione italiana fu decimata dagli assedi, dalle carestie e dalla peste.moltissimi – narra Procopio - caddero vittime di ogni specie di malattie... Nel Piceno, si parla di non meno di 50.000 tra i contadini, che perirono di fame, e molti di più ancora furono nelle regioni a nord del golfo Ionico... Taluni, forzati dalla fame, si cibarono di carne umana...”.

I Goti non erano sconfitti, essi difendevano quella che ora era la loro patria da una aggressione straniera, ma la guerra proseguiva tra alti e bassi, tra il Nord e il centro Italia, e diventava sempre più difficile. Totila fu ferito in battaglia e morì, al suo posto fu scelto un giovane ufficiale di nome Teia. La guerra si spostava ora più a sud verso il Vesuvio e i Monti Lattari dove il terreno impervio del luogo, poteva proteggere la resistenza gota dagli attacchi nemici. Ma i Goti erano alla fine, lo sapevano, lo immaginavano, ma non si arresero se non nell'ottobre del 552, dopo una ennesima disperata battaglia che ebbe luogo nel territorio che oggi è tra Angri e S. Antonio Abate. Teia mori in battaglia e fu l’ultimo re dei Goti italiani.

Restavano alcune sacche di resistenza soprattutto nel settentrione dove si verificò una ribellione sostenuta da un esercito franco-alemanno che stava arrivando in soccorso contro l’invasore orientale. La guerra andò perciò avanti fino al 561, quando Widin, il capo della resistenza, fu catturato e messo a morte.

Il regno goto d’Italia era finito, al suo posto nacque una nuova organizzazione amministrativa che metteva la penisola in mano a Costantinopoli e ai suoi funzionari civili e militari con l’istituzione, da nord a sud, dei Ducati.  Ma fu tutto inutile: pochi anni dopo, nel 568, una nuova invasione arrivò da Est, erano i Longobardi che spazzarono via nei territori a nord del Po tutte le difese romano-bizantine. Ne parleremo prossimamente.