domenica 11 luglio 2021

 


 

Alla ricerca del fiume perduto  

Sulla presenza a Napoli, in epoche antiche, di corsi d’acqua, non sembrano esserci dubbi. Ne parlano antiche cronache, ne parlano poeti come Virgilio e il napoletano Papinio Stazio e, molti secoli dopo, Giovanni Boccaccio; ne parlano i nomi di strade e quartieri della città come l’Arenella, sulla collina, San Carlo all’Arena e l’Arenaccia nella zona orientale, derivanti tutti dalla “rena”, quella specie di sabbia o di terriccio che si può trovare sul greto di fiumi; ne parlano inoltre i “ponti” della Maddalena e di Casanova nella zona orientale della città, che presuppongono il superamento di corsi d’acqua. I dubbi e le domande senza risposte riguardano invece il fatto che non ci sono più, sono spariti chi sa come e perché, si dubita sul loro percorso, da dove nascevano, dove scorrevano e dove finivano. E, perfino sui nomi, ci sono dubbi: Sebeto, Rubeolo o Clanis? Il primo è generalmente il nome più noto e più utilizzato. Viene infatti nominato già riferendosi all’assedio romano alla città, quando il console Publilio Filone, nel 326 a.C., accampò il suo esercito fra Neapolis e Partenope, alla foce del Sebeto. Lo citarono poi Virgilio nel libro VII° dell’Eneide e Stazio nel libro I° delle Silvae. E allora, gli altri nomi? Cosa erano il Rubeolo e il Clanis? Erano altri fiumi? E dove scorrevano? Le teorie sono tante. Il fiume, secondo l’opinione più seguita, nasceva dalle sorgenti della Bolla, sul Vesuvio, poi attraversava le campagne di Casalnuovo, Volla e Ponticelli, e, giunto nell’area napoletana, scorrendo dalle colline di Capodimonte e del Vomero, probabilmente si divideva in due rami principali: uno scorreva impetuoso e dritto verso la pianura che oggi è via Toledo e sfociava nella zona tra piazza del Municipio e Plebiscito; l’altro ramo andava a Oriente per sfociare fuori porta Capuana verso il Ponte della Maddalena.  C. De Seta ritiene che acque “a carattere torrentizio” scendevano dalle colline a valle, defluendo “lungo via Foria che nella zona dell’attuale via Cirillo si divideva in più rami dando origine, con il corso del Rubeolo, a una vasta zona paludosa. Dall’altra parte il limite dalla zona urbana era segnato dal corso del Sebeto, un piccolo fiume dall’andamento abbastanza regolare che scorreva lungo le attuali via Pessina, Sant’Anna dei lombardi, Medina e finalmente sfociava nella piana dove oggi è piazza Municipio”. Altri raccontano che, a occidente, la foce era sotto il promontorio del monte Echia e Pizzofalcone, che allora era circondato dal mare; c’era, secondo questa teoria, una deviazione a monte che girava verso est e si congiungeva con un altro corso d’acqua, detto “Clanis”, sfociando a Oriente, nella palude.  Secondo alcuni storici, il nome “Rubeolo”, più che un vero nome, era solo un diminutivo che indicava un “piccolo rivo”. 

Secondo altri, a Occidente scorreva invece sul percorso già indicato, un corso d’acqua che fu chiamato “Rubeolo”, che poi, solo dopo il XIV secolo, per intervento di Boccaccio, Pontano e Sannazzaro, fu chiamato Sebeto.  Mario Napoli, archeologo, parla di acque sotterranee che “durante tutta la vita di Neapolis” furono chiamate Sebeto e che, quando sparì, fu chiamato così un modesto fiumicello detto Rubeolo che scorreva ai piedi del Vesuvio nella zona orientale di Napoli.

Nella anonima trecentesca Cronaca di Partenope si narra di un fiume che scorreva tra “monte Sant’Erasmo e lo monte di Patruscolo” (oggi S. Elmo e Vomero), che era perfino navigabile. Era il Sebeto? Alcuni dicono che il Sebeto nel massimo del suo splendore era ricco di acque limpide, pescose e anche navigabile, cosi come erano, e sono, il Garigliano, il Tevere ed altri fiumi famosi.

Come si vede le teorie sono tante e girano tutte intorno ai tre nomi. E poi il mitico Sebeto, o Rubeolo, o Clanis, lentamente sparì. Probabilmente le acque dalle colline smisero di alimentarlo, la lenta attività sismica della zona portò alla modifica della linea di costa che interrò la foce occidentale, mentre le paludi orientali furono bonificate in epoca angioina, quando Napoli divenne capitale del Regno. Diventò così leggenda e fu dimenticato. Giovanni Boccaccio, napoletano d’elezione lo cercò inutilmente, così come anche Francesco Petrarca, che trovò solo un rigagnolo che scorreva tra i palazzi.

Probabilmente del Sebeto non si sarebbe più sentito parlare se  non fosse stato cantato dai due massimi esponenti dell’Umanesimo napoletano, Giovanni Pontano che nella prima delle “ Eclogae” ,rifacendosi a modelli classici, canta il matrimonio della sirena Partenope e Sebeto, che rappresenterebbero la città e il fiume; e Jacopo Sannazzaro, che  nell’Arcadia, cita il “ placidissimo Sebeto” che scorre per “ la erbosa campagna e poi, tutto insieme raccolto, passa sotto le volte di un piccolo ponticello e senza strepito  alcuno ricongiungersi col mare”.

Se è vero che il fiume scorreva in due direzioni, una verso occidente e un’altra a oriente, i due alvei di scorrimento e di contenimento delle acque piovane  divennnero fogne a cielo aperto che convogliavano verso il mare  acque reflue che scendevano dalle colline di Capodimonte, della Sanità e del Vomero, raccogliendo rifiuti di ogni tipo. Si erano successivamente prosciugati e quando nel 1532 arrivò a Napoli il Viceré Pedro di Toledo, dei fiumi non c’era più traccia ma solo leggende. Perciò quei percorsi erano pronti per essere trasformati in due strade: una oggi è via Foria e l’altra è la più nota via Toledo.

Il mito del fiume andò sempre più crescendo: a metà del 600’ il viceré de Fonseca commissionò a Cosimo Fanzago una fontana che lo rappresentasse. Oggi si trova a Mergellina, al largo Sermoneta.   Ma, secondo una ulteriore ipotesi, il fiume non è mai scomparso e scorre ancora oggi nelle viscere di Napoli e spesso si mostra in superficie provocando allagamenti.