martedì 13 dicembre 2011

Storia di una evasione

Questa è la storia di un ventenne straniero, arrestato in gennaio di quest’anno – 2005 – per immigrazione clandestina, passeur di due clandestini.

Appena arrivato, tutti si sono chiesti chi poteva averlo arrestato visto che non era proprio a posto con la testa. Si scoprì che non era la prima volta che veniva arrestato, così la condanna non fu proprio mite: due anni e dieci mesi.

Questo giovane, oltre a essere rimasto a pagina dodici con la testa (?), aveva anche il brutto vizio di tenere sempre le dita nel naso, era sempre “ onto e bisonto”, parlava a vanvera, rideva da solo; insomma, secondo tanti non doveva stare in carcere, ma in tutt’altro istituto.

Lo hanno aiutato tanto i compagni di cella e non. Ha lavorato un paio di volte come scopino( il

lavoro è rotativo, si cambia ogni 15 giorni.(1)

Credo che nessuno mai e poi mai avrebbe pensato che Danilo potesse evadere e anche se lo avesse confidato a qualcuno, chi avrebbe dato ascolto a “ Danilo il matto” ?

Così, con il coraggio e la fortuna dei “matti”(2) , Danilo ha scavato un buco nel muro ( del genere fuga da Alcatraz) e, con due compagni di cella, anche loro stranieri, se ne sono andati, incuranti del rischio e delle conseguenze.

Come tutte le storie, questa dovrebbe essere alla fine,c’è però un ma, da quello che si è visto e sentito alla tv, gli evasi sono ricercati anche in …..(3) senza soldi credo che per loro sarà dura nascondersi a lungo.

Conoscendo Danilo poi combinerà sicuramente qualche disastro dei suoi soliti, e così la storia ricomincerà

Morale della storia: non c’è niente di avventuroso in questa evasione e quelli che sono fuggiti non sono eroi, ma tre disgraziati veri!

Le restrizioni e le conseguenze per gli altri detenuti di….che scontano la propria pena sono notevoli Questi ultimi vorrebbero chiudere i conti con la giustizia e non scapperebbero nemmeno se trovassero le porte spalancate.

Ma questa è un’altra storia !” di F. M.(4)

F.M. non è uno psicologo, né un professionista e neanche un intellettuale, né uno scrittore non è neanche un burocrate, ma, quando scrisse questa storiella, era detenuto nel carcere di una città di confine del nordest.

Egli provò a tracciare, con partecipazione e emozione che si percepiscono, la figura di un ragazzo, questo compagno di cella che una sera dei primi di ottobre 2005, con altri due, pensò di evadere dal carcere.

L ‘ episodio fu narrato in un articolo di fondo su un giornaletto prodotto in un piccolo carcere, a costo zero, e si chiamava – poiché credo che oggi non esiste più – l’ECO, scritto da detenuti e edito con la collaborazione e la responsabilità dell’allora direttore responsabile di un settimanale locale e pubblicato come inserto dello stesso giornale.

Di giornali fatti dentro ce ne sono tanti, è un modo per, come si usa dire, “ dare voce a chi non ha voce”, ma questo presentava una particolarità: come supplemento di un avviato settimanale, andava nelle edicole e quindi letto anche fuori del circuito penitenziario, come invece normalmente avviene per altri.

Ma non sono qui per raccontare la storia del giornale, ma quella dell’evasione.

Ecco perciò parte della nuda cronaca di giornalisti professionisti: “ Sembra un copione cinematografico e invece è cronaca: tre stranieri,ieri,- era il 7 ottobre 2005 – sono riusciti a evadere dal carcere, passando attraverso un buco nel muro, realizzato pazientemente,giorno dopo giorno, scavando soprattutto nelle ore notturne. M.T.,29 anni, R.A. 27, J.M. 19, arrestati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, erano riusciti a nascondere il varco con un armadio.”

Fui avvertito dell’accaduto intorno alle 21,30 dal comandante, mentre ero a far quattro passi dopo cena, rimasi stupito dalla notizia anche se dovevo aspettarmelo: un carcere vecchio e scassato, con muri che si sfaldano da soli e antichi mattoni traballanti, sovraffollato, situato nello stesso antiquato edificio non solo del Tribunale, ma anche di altri uffici: il Demanio, l’Agenzia delle entrate e quella del territorio, al centro della città e vicinissimo al confine, con pochi soldi per ripararlo alla meglio e scarso e scadente personale di sorveglianza.

Ma che città è questa, dove in uno stesso palazzo ci sono tanti uffici e così diversi?

Situata a cavallo del confine, Comune con poco più di ventimila abitanti, piccolo capoluogo di provincia, che abolirei immediatamente, peraltro già abbandonata da uffici come il demanio e la sede della banca d’Italia. Città dove non succede mai niente, edifici vecchi e abbandonati, problematiche legate al confine come in tutti i luoghi di frontiera. L’immobile che ospita il carcere risale alla fine del XIX o agli inizi del XX secolo, sarebbe anche un bell’edificio ma non ha avuto una giusta manutenzione: gli uffici del tribunale e della Procura della repubblica sono in condizioni disastrose,nell’aula delle udienze ci sono infiltrazioni ad ogni pioggia, meno peggio gli altri uffici presenti.

Prima di muovermi cercai di avvertire il mio diretto superiore, ma non avevo il suo numero di cellulare, non me l’aveva mai comunicato, così avvertii il suo vice, che mi rispose: “ma io sto cenando! “almeno dammi il numero che lo chiamo io”, risposi.

Mi misi in macchina – abito a circa 50 Km di distanza - e raggiunsi il carcere.

Non mi era mai capitata una evasione in tanti anni di lavoro, almeno non direttamente; a Capodanno 2001, sostituivo un collega in ferie, quella volta erano cinque, avevano segato le inferriate e con il classico lenzuolo annodato avevano scavalcato il muro di cinta e se ne erano andati. La tragicommedia era iniziata al mattino presto, ma questa storiella non compare ufficialmente: mi raccontarono che un nottambulo, reduce probabilmente dalla festa di fine anno, passando fuori dal carcere aveva notato una specie di corda penzolante e aveva così suonato alla porta avvertendo di questa stranezza; da lì il personale di servizio, mezzo addormentato, aveva scoperto il fatto.

Era stato un bel Capodanno non c’è che dire!

Stavolta erano scappati solo tre. Carabinieri dappertutto,intorno all’edificio, appena entrato trovai il comandante esterrefatto, che mi accompagnò sul posto. Cosa avevano fatto? Sul muro della camera dietro un armadietto, di quelli soliti in uso ai detenuti e che per giunta avrebbe dovuto essere inchiodato al muro, un buco neanche molto grande, forse 70/80 cm di diametro, vecchi mattoni sparsi per la stanza.

Intanto mi chiesi come erano riusciti a passare; da lì erano entrati in una specie di corridoio buio, avevano sfondato una porta, ma si erano trovati sopra l’aula delle udienze del tribunale.

Tornati indietro avevano sfondato un’altra porta ed erano sbucati sulle scale che portano all agenzia del demanio, chiusa solo da una porta a vetri: sfondato il vetro ed entrati nel corridoio, hanno trovato il primo ufficio aperto, hanno aperto la finestra, si sono issati sul cornicione, hanno subito trovato una grondaia e, scivolando su questa si sono ritrovati in strada.

In una piccola città che è vuota anche di giorno, figuriamoci alle nove di sera! Non c’era neanche un passante e neanche una macchina. Da lì al confine in pochi minuti si arriva anche a piedi.

La cosa più seccante fu informare il funzionario di turno al Ministero, a Roma; mi rispose un tale di cui capii a stento il nome, il quale, molto seraficamente, prese la notizia con filosofia e mi augurò anche una buona serata!

Sequestrata la camera e chiusa con i sigilli, nei giorni successivi oltre a dovere scrivere relazioni di ogni tipo, ci fu un andirivieni di carabinieri che dovevano indagare: tre marescialli si piazzarono nel mio ufficio per “indagare”, non avevano evidentemente niente altro da fare, cercavano per forza un responsabile un complice all’interno neanche fosse evaso chi sa chi!

Sicuramente cerano state negligenze e superficialità nei controlli, ma vagli a spiegare che queste sono le normali condizioni di lavoro: non si riesce a far lavorare il personale , non c’è motivazione, se hai bisogno non rispondono neppure al telefono e non si fanno trovare, assenteisti, sindacalisti, . malattie vere e spesso fasulle

Un capitano veniva spesso a trovarmi, perfino il comandante provinciale, mai visti tanti carabinieri da me, e poi i giornalisti, che finalmente potevano scatenarsi a scrivere qualcosa.

L’inchiesta amministrativa interna non potè far altro che prendere atto dell’episodio ma non successe altro, le responsabilità erano si del personale che aveva fatto male il suo dovere di controllo, ma ce ne erano altre, anche molto più in alto, perché non si tiene un carcere in quelle condizioni, o se si tiene, bisogna metterci solo detenuti incapaci di muoversi. L’edificio era stato lesionato nel 1976 con il terremoto, e solo nel 2003! fu riaperta una sezione, per il resto era tutto rotto, muri deboli e vecchi mai ripristinati , mattoni ormai senza malta e facilmente amovibili.

Ma la commedia non finì lì: qualche mese dopo, arrivò una lettera di richiamo, del Capo del dipartimento diretta al suo vice, al provveditore e a me, in cui lamentava di non essere stato informato subito e personalmente.

Chi dovette giustificarsi, indovinate? L’ultima ruota del carro, cioè io.

Risposi, perciò, che avevo informato il Provveditore, il funzionario di turno a Roma, e che il mattino dopo avevo avuto un colloquio telefonico anche il vice-capo, a chi altro dovevo dirlo?

Ha ragione F.M. quando lamentò le conseguenze per gli altri detenuti; ho dovuto interrompere tante iniziative, ma solo perchè non mi fidavo più di quel personale incapace.

La libertà dei tre durò poco, uno alla volta furono ripresi dalla polizia dello Stato confinante e consegnati di nuovo alla giustizia italiana.

Uno dei tre, mi sembra proprio il Danilo, fu riportato nello stesso carcere, mi feci spiegare, tra le altre cose, come erano passati in quel buco così piccolo.

Aveva ragione F.M., Danilo era proprio “matto”!.

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(1) lo ”scopino” è il detenuto che viene addetto alle pulizie; per mancanza di soldi e di posti di lavoro e per consentire a tutti i condannati di guadagnare un minimo indispensabile almeno per le sigarette, si è inventato un lavoro generico a termine, e a rotazione.

(2) “matto” non vuol dire né pazzo né è usato in senso negativo, anzi…, indica soltanto una persona un po’ strana, un po’ suonata, ma in senso quasi affettuoso.

(3 nome dello stato estero e della città sono stati omessi per evitare ogni possibile riconoscimento

(4) le iniziali, del testo originale, sono state cambiate, così come il vero nome del personaggio

descritto


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