lunedì 23 gennaio 2012

A Roma, quando erano a tavola


Allora vediamo, su un vassoio che stava sotto, pollame ingrassato,ventresche di scrofa e, nel mezzo, una lepre con le ali in modo da raffigurare Pegaso. Agli angoli del trionfo si vedevano inoltre quattro satiri armati di piccoli otri, intenti a versare salsa piccante sopra alcuni pesci che vi nuotavano come nello stretto di Euripo. Ci mettiamo tutti ad applaudire, a cominciare dai servi, e attacchiamo allegramente queste vivande prelibate”( Petronio, Satyricon, 36).

Chi ha letto la descrizione della cena in casa dell’ arricchito e ignorante liberto Trimalcione, chi pensa a Lucullo – ai cibi detti appunto “luculliani -, chi semplicemente ha solo visto qualche film su Roma antica e i Romani, si è fatto l’idea che, all’epoca, c’erano solo lusso e raffinatezze particolari, distesi su triclini, ubriachi, schiavi e schiave che si prestano a tutti i servizi, vassoi esagerati di carni e pesci, frutta e vino a fiumi.

Le rappresentazioni di questo tipo, che si riferiscono all’età imperiale, quando Roma aveva ormai conquistato tutto il Mediterraneo, anche se esagerate, e un po’ ridicole, sono, almeno in parte, rispondenti alla realtà dei ricchi dell’epoca

L’alimentazione quotidiana di gran parte della popolazione era, invece estremamente frugale, veloce, e ai limiti della pura e semplice sussistenza.

I Romani primitivi non avevano neanche il pane, la cui apparizione e uso generale – secondo gli storici - risalirebbe appena al II secolo a.C. Prima essi mangiavano la “puls”, una specie di pappa di frumento,una specie di farinata di farro – secondo Marco Terenzio Varrone (116/27 a.c.) è il prodotto più antico - , cotta in acqua e sale, insieme a ortaggi, verdure e frutta, mentre la carne e il pesce non erano alimenti molto diffusi e comparivano sulle ricche tavole , solo nei giorni festivi.

Teniamo presente che non c’erano pomodori, patate, agrumi, zucchero, caffè e thè, c’erano invece piselli, cavoli, porro, fagioli, aglio, mele e pere, uva, noci e castagne, il latte non aveva alcuna importanza, mentre l’unica bevanda inebriante era il vino, bevuto anche allungato con acqua, mischiato al miele, e anche caldo. ( K. W. Weeber, Vita quotidiana nell’antica Roma ).

Si cambiò quando Roma escì dai propri stretti confini laziali, e andò alla conquista prima dell’Italia, della Magna Grecia, poi del Mediterraneo e dell’Oriente: i rozzi legionari entravano in contatto con civiltà antiche e superiori, assaggiavano quello che offriva il paese occupato, portando con sé nuove conoscenze, e nuovi cibi.

I gusti perciò cambiavano, come si dice oggi si “ globalizzano”, la cucina cominciò ad usare altri ingredienti, come spezie provenenti dall’Oriente e carni di animali, che al nostro palato e alla nostra mentalità suonano non solo disgustosi ma anche immorali, i fenicotteri e le gru, i pavoni, i pappagalli.

Ci meravigliano certi gusti, ma è un po’ quello che è successo in tempi più vicini a noi, basta pensare agli alimenti arrivati dopo la scoperta delle Americhe, basta pensare alle varietà di cucine esotiche alle quali ci siamo abituati negli ultimi 40 anni, basta pensare alle diversità che comunque ancora sussistono tra gusti e pietanze tra Occidente e Oriente e anche negli stessi paesi europei.

Mangiamo oggi piatti cinesi o indiani dal gusto esotico, agrodolce, ma dimentichiamo che nella cucina siciliana, di derivazione araba, l’agrodolce era ed è normale e accettato, così come le verdure alla scapece, in cui si unisce menta e aceto.

Era usuale, 2000 anni fa, nella cucina romana mescolare sapori nella stessa pietanza, come menta e aceto con miele e mosto cotto.

Ma quello che veramente può farci inorridire è quel particolare condimento – che chiamerò Salsa per una più facile comprensione – che i Romani , e per romani intendo tutti quei popoli conquistati, spalmavano su tutto, dal pesce al formaggio , dalla carne alle uova.

La Salsa aveva vari nomi a seconda della qualità: “garum”, “murìa”, “liquamen”, e se pensiamo al significato odierno della parola “liquame”, possiamo già disgustarci.

Si trattava di una salsa di pesce, ottenuta con un miscuglio di interiora di pesci di varia grandezza, rivoltata più volte per ricavarne una poltiglia che poi veniva esposta al sole, per farla fermentare.

Immaginiamo l’ odore!

Fatto ciò, questa poltiglia veniva filtrata attraverso un cestino, ottenendo così la Salsa da condimento.

Il “garum” costituiva la parte nobile della salsa e richiedeva molte cure, lavoro e spese; era perciò molto costosa: il migliore, raccontano gli autori, proveniva dalla Spagna, ma in Italia era famoso anche quello prodotto a Pompei.

Le altre salse erano costituite dagli avanzi, erano perciò meno buone, e più a buon mercato.

Oggi non possiamo sapere che sapore avessero queste salse, ma lo immaginiamo acuto e acido e un odore un po’ forte, secondo qualcuno potrebbe avvicinarsi a quella che oggi è la pasta di acciughe o le stesse acciughe salate.

La codificazione di quel che ho finora detto, dalle fantasie di carni e pesci all’incredibile modo di preparare certe pietanze, per certi banchetti, vien fatta risalire al cuoco più famoso dell’impero romano, Apicio, il Carnacina, il Vissani, dell’epoca.

Di quest’ uomo non ci sono notizie certe: secondo alcuni studiosi un certo Marco Gavio Apicio visse sotto Augusto e Tiberio ( I° sec.d.C.) e dovrebbe essere l’autore della prima stesura del libro” De Re coquinaria”. Successivamente ci fu un Claudio o Celio Apicio che visse sotto Traiano(53/117 d.C.), e sembra che ampliò il testo di quel libro aggiungendo le proprie conoscenze in materia.

Poiché Claudio era nome romano e Celso nome etrusco, qualcuno ha ritenuto che fossero due persone diverse e che entrambi abbiano ampliato il trattato secondo le proprie esperienze.

Nel Rinascimento, Apicio era considerato un famoso ghiottone, un buongustaio che mangiava “ calcagni di cammello e creste strappate a galli vivi, lingue di pavone e di usignolo…”.

Di ipotesi gli studiosi ne hanno fate tante, come anche quella che “Apicio” sia solo uno pseudonimo, ma restano appunto, ipotesi: l’unica cosa certa è che un cuoco, che si faceva chiamare o si chiamava Apicio, vissuto tra il I° sec. a.C,. e il IV° sec.d.C. , mise per iscritto le sue ricette..

De re coquinaria”è un libro di cucina, contenente centinaia di pietanze originali e particolari, varie ricette e spiegazioni. Chi lo scrisse si rivolgeva sicuramente a palati raffinati dell’epoca , a nobili annoiati e ai nuovi ricchi, con piatti fantasiosi e salse sofisticate che, come già detto, al nostro gusto odierno possono sembrare quanto meno stravaganti..

A proposito delle salse, riporto un consiglio di Apicio per correggere il liquamen: “se la salsa di pesce manda cattivo odore, capovolgi il barattolo dopo averlo vuotato e mettilo sopra il fumo di foglie di alloro e di cipresso; fallo stare all’aria e poi riempilo di salsa. Se questa ti sembrerà salata, aggiungi un quartino di miele e mescola con gambi di lavanda.

Così avrai migliorato il profumo della salsa. Anche col mosto recente otterrai lo stesso effetto.”

Per conservare la frutta come i fichi freschi, mele, pere e prugne, Apicio consigliava di cogliere tutta la frutta con i piccioli e di metterla nel miele, “badando bene che non si tocchi”.

La lettura di questi consigli e delle ricette è non solo interessante e istruttiva, ma anche divertente, c’è ad esempio la preparazione di una salsa acida ( oxygarum) per digerire,: “ 15 gr. Di pepe, 3,5 di segallica Seli ( dovrebbe essere un’erba ),6,5 di cardamomo,6,5 di cumino,1,5 di nardo e 6 di menta.Pesta tutto e, appena seccato, impastalo con il miele. Dopo aggiungici e mescola con la salsa ( liquamen o garum) e l’aceto”. Altro che amaro o limoncello, quel miscuglio lì doveva essere meglio dell’idraulico liquido!

Riporto ancora qualche ricetta che oggi ci sembra quanto meno strana, come il piatto di Rose:

“ Prendi delle rose e sfogliale: togli il bianco dai petali che metterai nel mortaio, bagna di Salsa e lavora. Aggiungi, dopo, una tazza e mezza di Salsa e passa il sugo al colino. Prendi quattro cervella, snervale e tritaci 20 chicchi di pepe. Bagna con il sugo e mescola. Dopo rompi otto uova, aggiungi una tazza e mezzo di vino una tazza di passito,poco olio. Poi ungi una padella e mettila sulla brace calda versandoci ciò che abbiamo detto. Quando arriverà a cottura cospargi di polvere di pepe e porta in tavola”.

Per le stravaganze, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Prendiamo ancora l’inizio del libro VII° . che inizia con: “ vagine sterili, callo, lombo, cotenna ecc. “Per fare la vagina arrostita avvolgila nella crusca e dopo mettila in salamoia e così cuocila”.

Poi, una semplicissima frittura di alici, che tanto ci piace ancora oggi, la “ patina de apua fricta”: “lava le alici, rompi delle uova e sbattile con poca acqua, aggiungi la Salsa ( il solito garum o liquamen),il vino e l’olio; metti al fuoco e quando bollirà gettaci le alici. Quando tutto sarà incorporato, rivoltalo con delicatezza. Fai prendere colore e bagna con Salsa acida semplice (?). cospargi di pepe e porta in tavola”.

E la poppa di scrofa? Impossibile non assaggiarla! “Bisogna lessarla e infilzarla con stecchi, cospargerla di sale e metterla o in forno o su una graticola, aggiungere pepe, ligustico, Salsa ( al solito), vino puro e passito, addensare con amido e ricoprire la poppa”.

La gru bisogna prima lessarla con pepe , cipolla .sedano, mosto aceto e la solita salsa: ”quando la metterai a cuocere, la sua testa non deve toccare l’acqua, ma deve rimanere fuori, quando sarà cotta, avvolgi la gru in un tovagliolo caldo e strappale la testa che si tirerà dietro i nervi e rimarranno la carne e le ossa; cum nervis, enim, manducare non potes”.

Tutto era innaffiato da vini di ogni tipo, il rosso e ”ardente” Falerno, il bianco Vitis Apiana (Fiano d’Avellino) e il Phalanx ( Falanghina), e altri provenienti dalle provincie, come il gallico Cardonnacum( chardonnay) o il Borgogna e il Pinot noir, anch’essi provenienti dalla Gallia ( Roma caput vini, di G.Negri e E. Petrini, ed.Mondadori).

Per gustare tali “raffinatezze”, i ricchi romani organizzavano banchetti ( cene), cominciando a sdraiarsi sul triclinium, già all’ ora IX, (circa le quattro pomeridiane). Il triclinio, il cui uso era stato importato dalla Grecia, non era altro che un letto a tre piazze, e ce ne potevano essere più di uno, intorno a uno o più tavoli, dove ci si stendeva nella massima libertà e rilassatezza sul lato sinistro generalmente, per prendere i cibi , già prima tagliati e fatte a pezzi, con la mano destra.

Le donne, nei primi tempi della Repubblica, non potevano distendersi, ma mangiavano sedute, e non potevano bere vino; poi le cose cambiarono, le donne conquistarono il loro diritto di partecipare alla “dolce vita”, al piacere del cibo e del bere, e anche altro.

Non mancavano “cene e feste eleganti”, con “escort” dell’epoca: dopo aver abbondantemente mangiato e soprattutto bevuto:”….ci lasciavamo andare a piacevoli giochetti al cospetto di Dioniso. Una baciava il compagno reclinandosi all’indietro (Alcifrone, scrittore greco del II° sec.., da “Lettere di cortigiane”), e gli lasciava toccare il seno, mentre, fingendo di guardare altrove,gli strofinava le natiche sull’inguine. In noi donne si risvegliavano ormai i desideri…..”.

Ma c’era anche qualcosa di diverso: “ Per l’uomo il nutrimento più vantaggioso è costituito da alimenti semplici: l’accumulo dei sapori è funesto, ancor più se li si accompagna con un condimento……..Tutto ciò che è eccessivo risulta dannoso in ogni aspetto della vita, ma soprattutto nell’alimentazione: così non vi è nulla di più utile che ridurre il superfluo”.

Non è un dietologo di oggi che prescrive una dieta, ma è il consiglio espresso, duemila anni fa, da Plinio il vecchio ( 23/79 d.C.), nella Naturalis Historia, libro XI, che evidentemente i ricchi e gaudenti Romani, non tenevano in alcuna considerazione.

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