martedì 6 settembre 2011

DAP( seconda parte)



La foto è tratta da “Sorvegliare e punire-nascita della prigione-“ di Foucault, e mostra il sistema panottico di un penitenziario, ideato da J.Bentham (1748/1832), filosofo ed economista inglese.

Nel 1975, con la legge n. 354, venne finalmente varata la riforma penitenziaria, di cui si era iniziato a parlare già nell’immediato dopoguerra: erano passati quasi trentanni e non si contavano più le rivolte nelle carceri e morti e feriti tra detenuti e operatori.Veniva sancito il rispetto dei diritti previsti dalla Costituzione e il principio della funzione rieducativa della pena, venivano istituite le misure alternative e i permessi, veniva creato il ruolo dell’educatore e dei servizi sociali.

Ma nulla veniva detto per la Direzione Generale. Qualcosa però, era già cambiato, nella forma, come succede spesso: non era più la Direzione delle carceri, ma degli “istituti di prevenzione e di pena”.

La mia vicenda professionale iniziò sostanzialmente con questa legge: all’epoca la Direzione generale era lì, a Roma, in via Arenula, al 1° piano, retta dal direttore generale Giuseppe Altavista. Collaboravano con lui altri magistrati e funzionari, tra i quali soprattutto voglio ricordare Minervini, capo della segreteria, poi assassinato dalle brigate rosse, e De Gennaro, l’autore della riforma, anche lui sequestrato dalle stesse brigate. Erano uomini d’altri tempi, con i quali bastava una telefonata per chiarirsi e trovare soluzioni, persone per bene,…che ti fregavano lo stesso, ma con discrezione e con eleganza, quello che li salvava era la correttezza e la buona educazione. La Direzione generale si componeva di 10 uffici, da quello del personale e quello degli agenti di custodia, a quello dei detenuti, da quello dei minori, a quello del servizio sanitario, dall’edilizia alla acquisizione di beni e servizi. La Direzione generale, all’epoca e fino ai primi anni ’80, costituiva la casa comune, dove tutti potevano accedere, anche senza preventiva e specifica autorizzazione, e ti capitava di incontrare nei corridoi e di fermarti a parlare in maniera informale con il direttore generale.Presso la Direzione generale trovavi di tutto, personale amministrativo penitenziario, educatori, direttori, contabili, operai,perfino agronomi, tutti romani o comunque felicemente distaccati a Roma, agenti di custodia che facevano gli impiegati, personale giudiziario, cancellieri, segretari giudiziari, gli inutili ufficiali degli agenti di custodia.Gestire il passaggio tra il vecchio e nuovo sistema penitenziario non era facile, anche dopo l’emanazione del regolamento del 1976, la Direzione generale provava con continue circolari a fornire interpretazioni e risposte ai vari quesiti, spesso emanando provvedimenti anche “ anomali”. E’ dei primi anni’80 quello emesso in occasione di uno sciopero dei direttori – erano i primi scioperi di questa categoria – con il quali li si sostituiva con i… marescialli! Per non parlare dell’obbligo della reperibilità imposto, senza alcun compenso, ma solo perchè insito nel ruolo, con un fonogramma- così all’epoca si chiamavano i messaggi trasmessi per telefono, oggi nell’epoca di internet fanno ridere, – dal singolare contenuto, del 9 ottobre 1979 n.57.

Si avvicinavano tempi difficili, terrorismo, criminalità organizzata, oltre alle croniche emergenze del sovraffollamento e il fenomeno dei suicidi – che non è un fatto di oggi -, e la Direzione generale emetteva le solite circolari, raccomandava attenzione,emanava disposizioni spesso inapplicabili, e in generale, non sapeva come risolvere i problemi.Nei periodi bui del terrorismo, della criminalità organizzata, delle morti e delle evasioni continue, si è pensato alla sicurezza, sono arrivati provvedimenti e fondi per la costruzione di nuove carceri, con i relativi scandali ( chi ricorda le carceri d’oro ?), e, per le emergenze, il solito ricorso a quello che oggi si chiama “commissario straordinario “, da trovarsi fuori dalla organizzazione. Quella volta,i signori magistrati della direzione generale dovettero accettare e imporre ai direttori le carceri speciali, affidate ai carabinieri del generale Dalla Chiesa, che, a sorpresa e senza preavviso, in una notte, prelevarono e trasferirono detenuti da un posto all’altro in spregio ad ogni elementare diritto umano e legale. Presso la Direzione generale nulla cambiò, salvo due cose: il trasferimento degli uffici presso una struttura distaccata, alla periferia di Roma, allora quasi irraggiungibile, dove è ancora oggi, e nel 1983, dopo la uscita di scena di Altavista e il rapido passaggio di un tale Sisti, già contestato procuratore della repubblica a Bologna nell’anno della strage alla stazione, l’insediamento di un nuovo direttore generale, Niccolò Amato.

Siciliano, P.M. in uno dei tanti processi per l’omicidio di Aldo Moro, personaggio egocentrico, esagerato, carrierista e arrogante, gran comunicatore e approfittatore del ruolo assegnatogli, protetto dalla politica del tempo, e in particolare dal PSI di Craxi, riuscì a portare le carceri al centro dell’attenzione dei giornali, della società e della politica. Egli durò in carica 10 anni. Con lui cambiarono quasi tutti i magistrati della direzione generale, e non in meglio: chi non era d’accordo - ed erano tanti - dovette andarsene, e finì l’epoca del contatto diretto tra centro e periferia, diventò difficile non solo l’accesso agli uffici romani, ma perfino telefonare e avere una risposta. Ci furono cambiamenti anche a livello di personale addetto, con una particolare predilezione per l’elemento femminile, naturalmente quello esteticamente migliore e più disponibile, di cui Amato amava la compagnia anche durante le sue trasferte e i convegni. Ricordo la telefonata di una collega che lasciava un numero telefonico ai direttori, al quale chiamare per riferire su eventuali problemi non affrontati e non risolti da altri uffici, in sostanza si trattava di far la spia.Il mutamento lo si vide anche dalla forma delle circolari, fino ad allora erano state impersonali, parlava la Direzione generale, dopo invece, con Amato, parlava lui..” io ho disposto, io ho detto, io ho fatto…ecc…”. Questione di stile!

E si accentuò la mentalità inquisitoria contro i direttori e venne incentivato il ricorso alle lettere anonime e alle Procure chiamate a indagare su ogni cosa: non porto esempi personali, ma a quale collega non è capitato di essere denunziato da chi invece avrebbe dovuto proteggerti. E quando non si riusciva a trovare responsabilità, si ricorreva a un trasferimento o a un tentativo di trasferimento, perché questi signori, sapendo di non poterlo imporre e avendo paura di ricorsi al TAR, agivano subdolamente senza avere il coraggio di dire apertamente che devi andartene perché l’ambiente non è più favorevole, scegliti una sede e vai. Quando voleva trasferirmi per forza, inserendomi in un giro con altri colleghi, fui chiamato a Roma dal capo del personale,Luigi Daga, al quale poi fu intitolato il largo davanti all’ingresso, che attesi dalle nove di mattina alle due del pomeriggio, e mi fu ambiguamente proposta, senza spiegarmi almeno il perché, una sede in Lombardia, che educatamente rifiutai. Come se non avessi parlato! Con un fax si disponeva l’immediato movimento a tre: solo che di immediato non c’era niente, nessun collega voleva muoversi, e nessuno volle sentire le mie ragioni. A quel punto dovetti far intervenire la politica: prima i politici locali e perfino un ambasciatore, poi il sottosegretario alla giustizia, che pose fine alla questione. Gli anni ’80 erano pieni di progetti, convegni e interventi sulle carceri. Ci si era accorti che: “ i problemi del carcere non si risolvono solo dalla parte dei detenuti; una delle ragioni della mancata attuazione della riforma del 1975, sta proprio nell’aver omesso di considerare il ruolo del personale, dagli agenti di custodia ai direttori …,.. è sbagliato ogni approccio al carcere che trascuri gli altrettanto gravi problemi del personale …”.(L.Violante). Qualcuno ipotizzò anche un eventuale ritorno alla situazione prefascista, al Ministero degli interni.

Nel 1986 fu approvata la legge Gozzini, che allargava le possibilità di alternative al carcere. Anche allora c’era il sovraffollamento, che non è una emergenza di oggi. Era, ed è, una costante periodica e le varie amnstie e indulti non hanno mai avuto alcun effetto, le nuove carceri costruite qua e là, spesso sono rimaste inutilizzate e chiuse perché senza personale da mandare. Fui mandato ad “aprire” un nuovo istituto in una città del sud, arrivai sul posto ma era ancora tutto in costruzione, anche se i magazzini erano già pieni di materiale; lavori affidati direttamente senza appalti, dieci agenti a sorvegliare i lavori e le mura, fu assunto anche un medico, regolarmente retribuito, che però non faceva visite poiché non c’era nessuno da visitare. Soldi buttati. Lasciai l’incarico appena possibile. Nel 1987, fu approvata la legge del 27ottobre, n. 436, con la quale al personale direttivo della Amm.ne penitenziaria, venne fatto il regalo di equipararli, come trattamento economico, ai funzionari pari grado della Polizia di Stato, con un salto significativo negli stipendi. Bisognò attendere altri tre anni, il 1990 e la legge 395, che aboliva il corpo degli agenti di custodia e faceva nascere la polizia penitenziaria, per una mini-riforma della Amministrazione; l’art.40 allargava anche al trattamento giuridico, l’equiparazione del personale direttivo e dirigente a quello parigrado della polizia di stato.

L ‘ art. 30 di questa legge sanzionava la fine della Direzione generale degli istituti di prevenzione e di pena e la contemporanea nascita del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il DAP.

Con la stessa legge veniva aumentato il numero dei dirigenti amministrativi, ciò gettava le basi per quello che i direttori aspettavano da cinquanta anni: la direzione degli uffici ministeriali.Si dette il via a una nuova organizzazione del DAP, diminuendo gli uffici centrali, trasformando quelli rimasti in Direzioni generali, e al posto del direttore generale, il responsabile del DAP venne chiamato “CAPO”.

In periferia, gli ispettorati distrettuali furono sostituiti dai Provveditorati regionali, con a capo dirigenti superiori e/o generali, cessava finalmente la dipendenza gerarchica di direttori dalle Procure della repubblica, si cominciava a pensare a una organizzazione per Aree. Amato venne sostituito appena dopo l’uscita di scena del suo protettore, nel 1993.

Da allora, un tourbillon di magistrati a capo del DAP, segno di tempi politici poco stabili e incerti, alcuni appoggiati provvisoriamente lì perché non si sa dove metterli, durano si e no un anno, il tempo di trovargli un posto diverso, si alternano magistrati noti e illustri sconosciuti, Coiro, Caselli, Margara, Cianci, Capriotti( che già conoscevo), Tinebra, Ferrara, per arrivare all’attuale dott. Ionta. C’è comunque una costante che, – tranne uno –, li accomuna: da Amato ad oggi, essi provenivano e provengono tutti dalle Procure. Infatti la mentalità inquisitoria non li ha mai abbandonati, quasi tutti hanno ragionato con il codice penale a portata di mano. Capitò una volta che durante una telefonata con un magistrato della direzione generale, questi mi faceva presente che quello che stavo facendo poteva costituire reato, al che gli risposi che i direttori, per mandare avanti la baracca, tutti i giorni commettono reati o illeciti. Il soggetto rimase sconvolto. Ebbi poi modo di rifarmi: capitò infatti che egli dovette venire da me e pretendeva la macchina di servizio con relativo autista per recarsi fuori città a una distanza di un centinaio di Km. Per motivi di lavoro. Al che gli feci presente che il direttore non può autorizzare viaggi fuori dal territorio comunale, altrimenti commette reati e illeciti amministrativi. Per queste cose, ci vuole una autorizzazione o della Direzione generale o forse dell’ispettore distrettuale. Lo vidi chiaramente sulle spine. Po, quando fu cotto abbastanza, telefonai all’isp.distr. Giuseppe Zoppi, un grande,che non amava questi personaggi, al quale chiesi l’autorizzazione. E’ lì davanti a te?mi chiese. Si, risposi, e mi diede l’autorizzazione.

Tutti i nuovi Capi del DAP, appena insediati, hanno fatto una sola cosa: un bel giro turistico - uno solo - nelle periferie, per farsi vedere dai direttori. Poi o andavano in pensione, per raggiunti limiti di età, o scappavano ad occupare altre poltrone, o venivano allontanati dal cambio del ministro in carica.

Dieci, ne ho conosciuti, di cui ben sette dal 1994 al 2007, prima di andare in pensione.

(la foto ritrae un murales- sono quattro - dipinto da detenuti con la guida di un artista).

Le riforme, si sa, procedono molto lentamente soprattutto presso il Ministero, dove tuttavia qualche magistrato ha già ceduto il posto a dirigenti amministrativi, come ad es. alla direzione del personale e come vice-capo del Dipartimento, facendo però, qualche volta, rimpiangere quelli che c’erano prima..... Nel cambio,infatti, non si è guadagnato, la mentalità e il modo di lavorare è sempre lo stesso, ma almeno i nuovi dirigenti, provenendo dalle fila del personale direttivo, portano avanti alla politica antiche istanze irrisolte e promuovono iniziative per la loro soluzione. E’ rimasta comunque una ignoranza della geografia della penisola, nel senso che da Roma ti mandano da Trieste a Trento, ad esempio, pensando che sono vicinissime e ignorano che tra le due città ci sono circa 4oo Km., oppure che quando dissi a un collega che avrei gradito una sede vicino Napoli, mi propose di andare a ….Matera!

Nel 1998 si faceva strada una ipotesi di assegnare a quei direttori, più anziani, che già percepiscono stipendi dirigenziali, in base ala legge dell’87 e all’art.40 della 395/90, qualifica e funzioni dirigenziali e attuare una forma di mobilità di questi, verso istituti di maggiore livello. L’ipotesi era da condividere, dal momento che avrebbe risolto almeno in parte quelle confusioni di ruolo e di funzioni, ma soprattutto sarebbe avvenuta a costo zero. Ovviamente le riforme a costo zero trovano consensi solo a parola, ma scontentano molti e perciò non se ne fece nulla, anzi, nel 1999 l’art 40 della legge 395/1990 fu abrogato con la legge finanziaria, e il personale direttivo e dirigente rientrò nel comparto statali e quindi contrattualizzato, pur mantenendo quegli stipendi maturati. I tempi tuttavia sembravano maturi per una riforma globale che partendo dal basso e coinvolgendo tutto il personale sia di polizia penitenziaria , sia amministrativo, potesse arrivare a una conclusione, i nuovi contratti nazionali prevedevano anche scivolamenti verso livelli superiori e quindi altre spese.

Si susseguono perciò provvedimenti urgenti tesi a migliorare e modificare l’assetto organizzativo e amministrativo del Dipartimento, dal 1999 il D.Lgs del 30 luglio, nel 2000, il n. 146 del 21 maggio, i D.M. 22/1/2002, la Legge, cosiddetta Meduri, n.154 del 27/7/2005, che fa rientrare tutto il personale direttivo nell’ambito pubblico e li parifica di nuovo alla P.S.: la creazione del ruolo dei commissari della polizia penitenziaria, corsi di riqualificazione e passaggio a livelli superiori per tutto il personale fermo al 7° e 8° livello, con relativi aumenti di stipendio. Per buttare via soldi, inoltre, e trovare posto a qualche funzionario, vene inventata una rivista mensile: “Le due città”, alla quale era fatto obbligo al personale di sottoscrivere l’ abbonamento. La rivista celebrava, e continua a farlo, il DAP e mostra galere bellissime, dove tutti appaiono motivati e felici, compresi i detenuti.

Nel 2000 , con il governo di centrosinistra, veniva emanato un decreto ministeriale che prevedeva l’istituzione di sedi dirigenziale di 1° livello, mentre il successivo governo di centro destra, dovendo dimostrare di essere migliore, estendeva a tutti gli istituti la qualifica di sede dirigenziale.

Nel 2005, la politica di centrodestra regalava la legge n.154 del 27 luglio , che è veramente un regalo ed anche molto costoso, perché tutti, ma proprio tutti, venivano promossi dirigenti di primo o secondo livello, anche quelli che non hanno mai diretto niente. Le conseguenze di questa legge sono quelle di parificare tutti i dirigenti penitenziari ai funzionari delle prefetture e della polizia di stato sia nel trattamento economico sia giuridico, con contratto separato. Va bene lo stipendio e gli straordinari, va bene anche i giorni di ferie, di più rispetto agli altri statali, ma quando si è trattato di applicare la norma che prevede il trasferimento per i funzionari che si presentano alle elezioni, e non sono eletti, il DAP ci ha solo provato facendo marcia indietro alla prima protesta.

Attualmente il DAP è organizzato in appena 5 Direzioni generali, oltre all’ufficio del Capo e all’istituto superiore di studi penitenziari, poi le Scuole della polizia penitenziaria – in via di Brava-, tutte strutture per le quali sono stati ricevuti e spesi miliardi - a capo delle direzioni generali vengono posti dirigenti generali o magistrati, i quali non intendono ancora rinunziare a incarichi dirigenziali. Magistrato è ancora il capo del Dipartimento, mentre dei due vice capi, uno è dirigente amministrativo. L’attuale capo del DAP è anche commissario per le emergenze, che non mi sembra siano risolte. Si era fatta l’ipotesi delle carceri galleggianti, ma a mio parere, è una vera cavolata. Sembra comunque che ci sia un “piano carceri” che prevede la chiusura di alcuni istituti piccoli, fatiscenti e inutilmente costosi.

La verità, a conclusione di questo intervento, è che le galere sono state e continuano ad essere, salvo brevi periodi, le cenerentole dello Stato. I fondi destinati alla giustizia sono stati sempre gli avanzi, in particolare poi, quelli per l’area penitenziaria sono gli avanzi degli avanzi. L’amministrazione penitenziaria ha dovuto e deve fare i conti con l’ opinione comune delle persone cosiddette per bene, che ragionano con la pancia , che vogliono stare tranquilli e “ chi se ne frega di quelli che se stanno dentro hanno fatto qualcosa e che hanno anche la televisione, e guadagnano soldi, mentre fuori ci sono i disoccupati”. Le stesse persone ci hanno ripensato quando in galera ci sono finiti , e ci finiscono ancora, loro, i politici, gli imprenditori, i colletti bianchi, sia ai tempi di tangentopoli sia oggi, quando questi, che mai si erano occupati di carcere, hanno cominciato a scrivere le lettere e hanno illustrato come si sta.

Oggi il DAP è chiamato a risolvere il problema del sovraffollamento, di cui si parla, ma solo d’estate quando la politica è in ferie, e solo per merito dei soliti radicali. Il sovraffollamento non è una novità, ma una costante periodica, risolta spesso con amnstie e indulti, l’ ultima del 2006 se non sbaglio e ha, come per il passato, solo alleggerito provvisoriamente il problema. Forse non è ancora chiaro che, da punto di vista tecnico, il sovraffollamento dipende dal funzionamento della giustizia penale, che come è noto, è lento e farraginoso: più del 50% dei detenuti presenti è in attesa di giudizio e non è chiaro, per anni, se saranno condannati a una pena definitiva. Altri, molti, invece di essere associati alle carceri, dovrebbero essere trattenuti, al momento dell’arresto, in camere di sicurezza presso questure e comandi di forze dell’ordine, che spesso non ci sono. La commistione, poi, nella stessa casa circondariale, di detenuti in attesa di giudizio e condannati, crea affollamento e soprattutto disparità di trattamento: sarebbe perciò necessario una netta separazione tra le due categorie. Parlare infine di nuove carceri- quando ce ne sono tante da chiudere e altre nuove e mai utilizzate -, e addirittura di quelle “galleggianti”, non risolverebbe nulla, la soluzione spetta alla politica e a un serio programma di interventi legislativi.

Ma l’argomento richiede più spazio e non rientra in questo intervento, forse se ne potrà parlare un’altra volta.

lunedì 29 agosto 2011

La Fondazione







L’alba del V° secolo a.C. vede il Mediterraneo occidentale diviso tra varie potenze: in Africa, Cartagine era una grande potenza marittima, in Sicilia si scontrava in una guerra continua con i Greci di Siracusa per i controllo del territorio e dei mari circostanti; nella penisola iberica e nella Francia meridionale c’erano basi e colonie fenicie, greche e cartaginesi, che si dividevano commerci e territori.

Secondo lo storico Erodoto,(libro I, 163), “furono i Focesi i primi Elleni che abbiano compiuto lunghe navigazioni e furono essi che aprirono la via per il golfo di Adria, il Tirreno, l’Iberia e Tartesso (mitica città situata oltre lo stretto di Gibilterra). Essi navigavano non su navi rotonde, ma su pentecontere”.

I Focesi provenivano da lontano, dalla Ionia, (Turchia). La navigazione non era facile, anzi era molto pericolosa sia per le rotte marine sconosciute e eventuali tempeste sia per incontri con pirati o comunque navi nemiche. Essi, come i Fenici e altri popoli, per i lunghi viaggi, utilizzavano non navi mercantili “ a scafo rotondo “, ma navi da guerra, le pentecontere, lunghe circa 38 metri, con 50 vogatori – 25 per parte più vele, con scafo piatto e rostro, utilizzabili anche per scopi mercantili e utili anche per difendersi da eventuali attacchi. Avevano coraggio, la navigazione era difficile, si faceva soprattutto di giorno e sottocosta.

In realtà, si raccontava già a quell’epoca che i primi viaggiatori erano fenici o comunque mediorientali; il Mediterraneo era già da secoli frequentato, sulle coste africane e quelle europee, da fenici o comunque mediorientali, Siriani,Egiziani, Cretesi e Micenei, guerrieri, avventurieri, mercanti e pirati trafficavano e fondavano bai commerciali e anche città, ma tutto era avvolto in storie ormai leggendarie.

In Italia, la potenza dominante erano gli Etruschi: essi disponevano di un forte esercito e di una flotta imponente che consentiva di spadroneggiare per terra e sul mare: padroni della Corsica e delle isole toscane, dall’Elba traevano la materia importante per l’epoca, il ferro, si erano spinti verso nord, sul Po, incrociandosi con i Celti, in Umbria, Marche e in Lazio, perfino a Roma con i re Tarquini, poi ancora più a sud con Capua e Pontecagnano, a Nocera e forse anche a Pompei.

A Roma, poco più che un villaggio, si era da poco instaurata la repubblica, mentre altri popoli indigeni, Piceni, Dauni, quelli del Massico, gli Aurunci, gli Osci, i bellicosi Sanniti si muovevano e si scontravano per la conquista di territori.

In Campania era Cuma, fondata agli inizi del 700 a.c. da Eubei e Pithecusani, alla fine del VI sec., la maggiore e più potente colonia greca in Italia, temuta e rispettata anche dagli Etruschi, che tentavano di toglierla di mezzo.

La città dominava tutto il golfo, detto appunto cumano( poi diventerà di Napoli) fino a Sorrento, le isole di Pithecusa (Ischia), Procida e forse anche Capri ; aveva già sbaragliato un grande esercito di Etruschi, Dauni e Celti alleatisi contro; a Cuma si era rifugiato, dopo la cacciata da Roma , l’ultimo re della città, Tarquinio detto il superbo.

Cuma era governata da una oligarchia composta da una classe media di cavalieri e mercanti, che però, proprio agli inizi del V° sec., fu tolta di mezzo da un colpo di stato di Aristodemo, l’ufficiale che aveva sbaragliato l’esercito dei nemici alleati, appoggiato dalle sue truppe.

Diventatone signore assoluto, Aristodemo governò la città per circa vent’anni, eliminando ogni possibile opposizione, molti scapparono in esilio nelle città vicine, soprattutto nella etrusca Capua, e cominciarono a tramargli contro.

Verso il 480 circa, un gruppo di congiurati, esuli o figli di esuli, appoggiati anche da Etruschi e altre città, riuscirono a rientrare a Cuma con uno stratagemma, uccisero Aristodemo e provarono a ricostituire il vecchio governo oligarchico.

Ma i tempi erano profondamente cambiati: la situazione economica e sociale era diversa da una volta, nuovi ceti produttivi e politici si erano affermati in quei vent’anni di regime, la città a livello internazionale stava perdendo terreno.

Di questa situazione ne approfittavano i popoli e le città vicine e dipendenti, soprattutto i soliti Etruschi che assolutamente volevano impadronirsi del golfo e delle fertili pianure campane. Dalla madre patria non ci si poteva aspettare alcun aiuto: Atene e Sparta, erano a terra dopo che avevano da poco respinto i Persiani sia , a Maratone, con Milziade, sia sul mare, a Salamina, con Temistocle, ad Atene cominciava ad affermarsi con Cimone una parvenza di democrazia, presto arriverà Pericle.

A chi rivolgersi, quindi? La risposta poteva essere una sola.

Al più vicino e ambizioso signore greco-siciliano, Ierone di Siracusa. Già padrone di mezza Sicilia e in perenne guerra con i Cartaginesi, padroni dell’altra metà dell’isola, Gerone colse a volo la richiesta di aiuto dei Cumani, per estendere i suoi domini nel medio- alto Tirreno a spese degli Etruschi.

Nel 474, questi, nelle acque di Pithecusa, subirono una sonora sconfitta navale, i Siracusani si installarono non solo sull’isola.e sui territori circostanti , ma anche in città, a protezione delle rotte e del golfo, attuando una vera e propria occupazione militare..

I congiurati, quelli che avevano eliminato Aristodemo e avevano provato a impadronirsi del potere, dovevano trovare altre strade: vivere in una città decadente che non li voleva, andare a vivere da esuli rimuginando sulla sconfitta e magari aspettando un’altra occasione, chiedere e cercare una nuova terra e creare una nuova città dove vivere.

Non erano pochi e non erano solo Cumani, ma anche Pitecusani, stanchi di vivere su un isola soggetta a terremoti, eruzioni, acque bollenti, Procidani e altri, erano in maggioranza giovani, uomini e donne, bambini, famiglie intere; forse un migliaio di persone, guidati dai giovani Cleomene e Policrito, e dal più anziano Aristone.

La decisione era difficile, i tre avevano manifestato le loro intenzioni allo stesso governo di Cuma, che li aveva incoraggiati ad andarsene, pur di liberarsene …..e in primo luogo li aveva indirizzati a Partenope, sempre comunque a immediato contatto o comunque all’interno della “chora”, il territorio sotto controllo cumano.

Avevano sentito parlare di Partenope: doveva essere una città situata poco più a sud, nel golfo, oltre le colline fumanti, oltre i campi di fuoco ,oltre l’Averno e il capo intitolato a Miseno e dopo il centro abitato di Dicearchia (Pozzuoli).La sua fondazione si perdeva nel tempo passato, forse ai tempi dei Micenei dispersi dopo Troia, forse da Enea o Ulisse, o anche dai Fenici, quell’antico popolo di mercanti e navigatori.

“Leggende, – diceva qualcuno –, la verità è, invece, che Partenope, che era il nome di una sirena il cui corpo era stato trovato su quelle spiagge, è stata opera di abitanti di Rodi, famosi non solo come navigatori, ma anche perchè devoti al culto delle Sirene”.

I Rodii – secondo questa teoria - approdarono su un isolotto (di Megaride, oggi castel dell’Ovo) e sulla vicina spiaggia, nella insenatura creata dalla foce di un fiume. Il villaggio sorse su un promontorio (Pizzofalcone) a picco sul mare, isolato anche dall’interno e difficilmente raggiungibile da una via di accesso interna, circondato da colline e valloni.

All’inizio era una base commerciale, ma dopo la conquista da parte di Cuma era diventata anche un grande porto militare. Dopo non ha avuto più storia, ha seguito le sorti di Cuma, era abitata anche da Osci e Sanniti.

Cleomene, Aristone e Policrito si incaricarono di andare a vedere quel che restava dell’abitato e se le storie che si raccontavano era vere.

Ma, come andarci? Per terra o per mare?

La presenza sul mare, nel golfo e sulle isole degli alleati Siracusani consigliavano quella strada; al contrario, per terra, la presenza di bande etrusche ancora in guerra, di banditi, e di boschi e di sentieri non facilmente percorribili, non facilitavano gli spostamenti, se non accompagnati da un forte contingente militare.

Il mare perciò, soprattutto in quella stagione, era la soluzione più sicura.

Con una piccola barca rimediata da un pescatore, e una vela, aiutandosi anche con i remi, in un pomeriggio assolato, essi si misero per mare, navigando sottocosta attraverso il canale di Pitecusa, che era sulla loro destra e poi Vivara e Procida, proprio davanti al capo detto di Miseno, il pilota di Enea che cadde a mare proprio qui.

Sopra Pithecusa, la montagna emetteva fumi ma non si sentivano rimbombi, né altri rumori, come ricordava Omero, nel 2° canto dell’Iliade, che la chiamò con un altro suo nome, Inarime,,quando dopo avere elencato tutte le forze achee in campo, diceva che quando esse si muovono il terreno rimbomba” come quando il fulminante irato Giove, Inarime flagella…”.

Pithecusa, l’isola delle scimmie, detta anche Inarime, di cui si raccontava che Giove avesse rinchiuso sotto la montagna il gigante Tifeo che ogni tanto si muove e da origine a i sommovimenti della terra, era abitata da una tranquilla popolazione indigena: intorno all’VIII sec. vi sbarcarono greci dell’isola Eubea e vi si installarono, creando una fiorente civiltà e una industria di vasi di terracotta e ceramica.

Molti di questi, si raccontava, terrorizzati dai continui terremoti e eruzioni, si allontanarono dall’isola e andarono poi a fondare Cuma, sulla terraferma.

“Guardate- disse Cleomene che teneva il remo come un timone – guardate su quello scoglio…”.

Su uno scoglio altissimo,forse più di 100 metri, videro, tra le rocce, persone che si arrampicavano, salivano su scale scavate nella roccia e tiravano su, con funi, blocchi di tufo giallo da una nave da carico, ancorata sotto, e altro materiale, mentre sopra si intravedevano sentinelle armate, come se controllassero i lavori: “sembra stiano costruendo qualcosa, .. forse un posto di guardia.”( castello aragonese).

Due triremi da guerra navigavano lentamente al largo.

A sinistra la costa, oltre Miseno, la spiaggia fumante, fumarole e odore di zolfo, l’Averno dove si diceva che Ulisse fosse sceso per incontrare Tiresia, l’indovino cieco; si era fatta sera, la paura e il timore li rallentavano, videro un piccolo abitato, ( Pozzuoli), accostarono a riva, e sostarono per la notte.

La mattina dopo, con il sole già alto, continuarono la navigazione: tutto il golfo appariva circondato da montagne e colline, da capo Miseno fino alla altra punta estrema (Punta campanella) e l’isola di Capri.

Colline verdeggianti, rocce sporgenti sul mare, grandi alberi, querce, pini marittimi, arbusti di mirto e lecci e in lontananza il Vesuvio fumante; dal mare vedevano scendere a valle dalle colline, fiumi impetuosi simili a cascate.

Superato un altro promontorio e un isolotto, seguendo le spiagge scorsero una ampia foce di un fiume, a poca distanza l’isola di Megaride, poco più di uno scoglio disabitato, di fronte, il molo di un piccolo porto e sopra la collina a picco, una muraglia giallastra, con torri di guardia.

All’ancora, nel porto, piccole navi panciute, da trasporto e una veloce trireme militare, che inalberava un vessillo di Siracusa, pescatori che scaricavano la loro mercanzia, marinai e soldati che ripulivano le navi e andavano e venivano dalla rocca.

“Siamo a Partenope, lì si può vedere quel che resta del sepolcro di Partenope”, la Sirena, solo una grande testa di marmo, il resto è tutto malandato e semidistrutto.

La leggenda raccontava che il culto di Partenope preesisteva all’arrivo dei coloni; si raccontava di Cassandra, la figlia di Priamo di Troia, che aveva predetto a Ulisse la vittoria sulle sirene e il culto di una di queste sui lidi del golfo dove il mare farà giungere il suo corpo. Sul suo sepolcro, ogni anno, vergini sacrificavano buoi in suo onore.

Il piccolo centro abitato appariva quasi deserto, solo le sentinelle sulle torri e alla porta che va verso il porto, le case malandate e in rovina, da una taverna uscivano effluvi di carni cotte e si udivano voci di avventori. Sulla porta era apparsa una ragazza, avvolta in una veste semitrasparente, che li aveva invitati ad entrare.

Stazzi per animali erano accostati alle case, galline e pecore chiuse nei recinti, e un tale stava dandogli da mangiare, gli chiesero dove trovare il demarco, il governatore della città.

“L’avete trovato, sono io. Mi chiamo Ceculo”. Completamente calvo, tarchiato, con addosso una specie di tunica gialla, sporca e unta, dall’accento si capiva che non era né greco né di Cuma, ..ma probabilmente essere osco o dell’interno.

Egli non li fece neanche finire: “Qui sta andando tutto in rovina, il porto si sta insabbiando, stiamo andando via tutti, tra poco qui ci sarà solo una necropoli”.(che è stata scoperta in via Nicotera, sopra Pizzofalcone)

“Andremo poco più avanti, verso oriente, oltre il fiume”, dalla rocca indicava con la mano un altopiano degradante verso il mare, “ il Sebeto che sfocia qui davanti, a oriente ce n’è un altro, che costeggia a nord quell’altopiano, e più avanti ancora il Clanis, tutti e due vanno in una grande palude a oriente e poi sfociano a mare”.

“Lì potete esserci anche voi, fare la vostra città, la posizione è ottima e c’è spazio sufficiente per una vera e propria città. Ma, prima, come si faceva una volta, dovreste interpellare gli Dei, andare a Delfi e avere il responso di Febo/Helios, il dio del sole.C’è qui una di quelle piccole navi, la Cassiopea, che tra due giorni parte per la Grecia, potete chiedere un passaggio e andare a Delfi”.

“Non è necessario, noi non fonderemo una nuova città, ma solo un proseguimento di Partenope”, diceva il saggio Aristone,” cioè trasferiamo le persone e l’abitato un po’ più avanti, e la chiameremo soltanto nuova città, Nea polis, nuova rispetto a Partenope, che chiameremo Palepoli- città vecchia- ma non diversa o opposta”.

Il ragionamento sembrava giusto, senza alcun dispendio di tempo e soldi, si convinsero presto e tornarono indietro, chi a Cuma, chi a Pitecusa, per riferire e organizzare la partenza e la fondazione. La notizia si sparge rapidamente anche fuori dai territori cumani e in breve tempo arrivava anche ad Atene.

Il governo fu subito favorevole alla loro partenza, più presto vanno via e meglio è per tutti, ma si sbagliava, poiché non erano queste le intenzioni degli esuli, e se ne accorgerà presto.

Ora però si trattava di organizzare un migliaio di persone, donne, bambini, vecchi, uomini, animali e altro, bisognava procurare imbarcazioni, carri, e materiale vario.

Ma per il momento sarebbero andati solo uomini, divisi in squadre ognuno con un responsabile, secondo le attività da svolgere.

Partirono, perciò, per prendere possesso del territorio, solo un gruppo di marnai, contadini, schiavi falegnami e muratori con un architetto, e tecnici per costruzioni edilizie e un gruppo di guerrieri mercenari , per garantire la sicurezza del’insediamento.

Imbarcarono con loro, alcuni cavalli , una coppia di buoi e gli aratri, oltre agli arnesi per tagliare alberi e per edilizia, per costruire gru di legno per sollevare blocchi di pietra, e capanne.

Sapevano già che avrebbero trovato il materiale giusto scavando nella terra, il tufo, materiale vulcanico, resistente e facile da tagliare a blocchi per le mura esterne, che devono essere robuste e insuperabili..

Per le case, al momento possono essere anche di legno o di mattoni di fango, mentre su in alto sarà necessario costruire il tempio del Sole.

Arrivando dal mare, essi videro, oltre la spiaggia, un “ grande pianoro, in gran parte costituito da un banco di tufo giallo misto ad altri prodotti vulcanici,detto Pendino, scendeva dall’entro terra con lieve pendio fino al mare dove, con un salto di circa otto metri, raggiungeva la spiaggia”(M.Napoli)

Dalle verdi colline circostanti, lecci , querce,pini marittimi, arbusti di mirto, piante e fiori di ogni genere, scendevano a valle fiumi e torrenti, cascate che coprivano grotte e cave, uno il Sebeto che arrivava sotto Partenope,( probabilmente nella zona compresa tra piazza Municipio e Plebiscito), gli altri nella zona orientale dove si stendeva una vasta zona paludosa,

Il luogo non è completamente disabitato, si scorgevano alcune capanne tra la vegetazione, probabilmente contadini o anche pescatori, poiché si vedevano barche tirate in secco sulla spiaggia.

Lo sbarco avvenne in piena tranquillità, sulla spiaggia arrivarono un paio di pescatori per vedere cosa succedeva e si fermano a dovuta distanza.

Si radunarono uomini e animali e materiale in una bellissima pineta, oltre la quale iniziava la pendenza verso l’entroterra, e vicino una insenatura del fiume., dove poterono essere protette le navi.

“Per ora ci accamperemo qui, controlleremo le navi e potremo andare verso l’interno per vedere, abbiamo da bere per noi e gli animali, abbiamo frutta, e si può andare a caccia…”..

Lasciati a guardia dell’accampamento alcuni mercenari e altri operai, altri incaricati della caccia,,tutti gli altri divisi in squadre, chi a piedi e chi a cavallo cercarono di visitare il territorio.

Non c’erano strade ma solo piccoli e stretti sentieri tra i boschi, era difficoltoso superare la salita, bisognava tracciare anche una mappa del terreno per costruire le mura.

In effetti non occorreva molto, perchè la città appariva già naturalmente pronta: da un lato la zona era già naturalmente protetta dalle colline, grande spazio sufficiente per lo sviluppo di una città, sia per il porto, sia per le abitazioni, sia in alto per i templi religiosi. La città appariva già delimitata dai fiumi e dal loro tracciato: uno, il Sebeto che va giù dritto verso occidente fino alla foce, un prolungamento di questo corso d’acqua gira verso est e va a congiungersi con il Clanis dando luogo alla palude che chiude naturalmente la città; dall’altro lato c’è il mare. Il tracciato delle mura avrebbe necessariamente seguito le indicazioni e le irregolarità del terreno, costruendo le mura parallelamente ai fiumi. Il porto sarebbe stato fuori dal perimetro, li dove ora erano approdati( piazza Borsa). L’interno verrà dopo, ma come per altre città, ci saranno strade dritte e larghe est/ovest e altre più piccole, ma sempre dritte, nord/sud, come una griglia. ( Ippodamo di Mileto, urbanista del V° sec.).

Bisognerà solo individuare le cave per prendere i blocchi di tufo e sistemarle, ma per ora si farà una palizzata con il legno degli alberi.

Le mura saranno a secco, altissime, a doppia cortina, ci saranno torri di guardia e le porte saranno sistemate al termine di ogni strada, sia grande sia piccola, e saranno attentamente vigilate.(°)

Depositi alimentari, magazzini e stazzi per animali saranno costruiti presso le mura.

Sulla parte più alta della città, l’Acropoli, ci saranno gli edifici della Autorità civile e il tempio dedicato a Febo,il dio del Sole, con bianche colonne corinzie e un frontone sul quale sarà dipinto il dio del sole con il suo carro, e ci sarà un bel sentiero ombreggiato da pini e querce, per arrivarci, e per questo sarà chiamato la via del Sole.

Più giù, verso il centro della città, vicino all’agora (agorà), costruiremo altri edifici, uno dedicato a Artemide e un altro più avanti ai Gemelli divini, Castore e Polluce, Naturalmente ci sarà un gimnasium ( una palestra, ginnasium ) e un teatro.

La città crescerà , sarà governata da un demarco,un magistrato annuale, e sarà abitata da un miscuglio di popolazioni locali e greche e quelle cumane dei fondatori.

Come primo gesto ufficiale, per vendicarsi di Cuma, essi si impadroniranno di Pithecusa e del porto di capo Miseno, appena i presidi siracusani se ne saranno andati.

Tra pochi anni, quella piccola repubblica posta tra i sette colli si affaccerà sulle colline e conquisterà la città, ma apprenderà l’arte di navigare, una cultura e un diverso modo di vivere.

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(°) Le mura, dicono gli studiosi, si prolungavano lungo l’attuale via Costantinopoli, giravano a destra verso la via Foria, dove c’è la porta S.Gennaro, e deviavano a via S.Giovanni a Carbonara verso la zona di Forcella, dove ci sono tracce ancora visibili in piazza Calenda; da qui scendevano verso la spiaggia che all’epoca si stendeva lungo il corso Umberto, la strada detta il Rettifilo, risalivano il dislivello di via Mezzocannone, e, lungo la direttrice di P.za S.Domenico e via S.Sebastiano, si ricongiungevano a piazza Bellini. Il porto doveva trovarsi nella zona di piazza Borsa.

domenica 14 agosto 2011

Giustizia ordinaria


Questo che sto per raccontare non è l’unico procedimento penale aperto nei miei confronti, perché a chi fa il mio mestiere - direttore penitenziario -, ne capitano di tutti i colori. Tutti gli altri, iniziati o sulla base di lettere anonime o da parte dei sindacati del personale, quasi mai da parte degli “utenti”, si sono esauriti in fase istruttoria, con l’archiviazione. In questo caso, invece, il P.M., un giovanotto scapigliato e arrogante, unitamente al G.I. dell’epoca, un siciliano presuntuoso, fece un pronostico di condanna.Comincerò dalla fine, cioè il 24 febbraio 1994: si chiudeva, dopo appena 6 anni, tempi rapidi per la nostra giustizia, - ma solo perché il processo fu fatto su mia richiesta pressante per la necessità di portarlo a termine, altrimenti sarebbe andato prescritto -, con una sentenza di piena assoluzione un procedimento penale per falso ideologico a carico del sottoscritto e di due contabili.In particolare il sottoscritto fu assolto da un lato perché il fatto non costituisce reato e dall’altro per non aver commesso il fatto.Contro la sentenza non fu proposto appello neanche da parte del P.M. - che in aula, aveva chiesto l’assoluzione di tutti gli imputati; era la stessa persona che, all’inizio del procedimento, aveva pronosticato la loro colpevolezza e quindi la condanna.L’accusa riguardava atti amministrativi-contabili, che, secondo l’accusa, erano viziati da falsità ideologica: in parole povere, si trattava di verbali che descrivevano lo svolgimento di determinate attività – conteggio e verifica soldi esistenti in cassa -, che secondo il P.M. e il G.I., non sarebbero state realmente svolte, per cui falsati” intenzionalmente”,cioè con dolo, per ingannare le autorità addette ai controlli.E’ impossibile fare un racconto particolareggiato delle procedure, ci vorrebbero pagine e pagine e spiegazioni tecniche giuridiche e amministrative. Ridurrò perciò la storia ai momenti e ai passaggi che credo essenziali.

Tutto era iniziato nel 1988.La situazione amministrativa era molto disordinata e a nulla erano serviti inviti e ordini ai contabili di affrontarla e risolverla. Ovviamente gli uffici ispettivi addetti al controllo di queste attività, erano in allarme.In quel periodo avevo dovuto anche assentarmi per problemi di salute, e la situazione amministrativa non aveva ancora trovato soluzione.Proprio durante la mia assenza, nel mese di marzo di quell’anno, nel corso di una ispezione fu rilevato che i soldi - liquidi- esistenti nella cassa, non corrispondevano a quello che invece era scritto nei verbali. Tralascio per brevità i particolari e soprattutto la demenziale lettera che l’ispettore verificante aveva scritto al Ministero, in particolare si affermava che i soldi in cassa erano di più di quelli risultanti dagli atti : “ normalmente….si tratta di danaro che dovrebbe esserci e non c’è, mentre qui è per denaro che doveva non esserci e c’era…”. Già da questo doveva essere evidente il solo e semplice disordine. I contabili, messi sotto pressione, trovarono l’errore che aveva provocato le differenze e i conti tornavano con quanto risultava dai verbali, ma il soggetto scriveva: “Feci personalmente anche io la verifica e riscontrai una differenza di L.5.682 quale eccedenza di danaro, piccola cosa, in confronto alla grossa questione che si prospettava” .Il dott. I.I., un toscano già conosciuto in altre sedi per sue manìe e intemperanze, e non volendo chiudere la questione perché aveva tutta l’intenzione di danneggiare il direttore, scriveva:” Eppure una spiegazione ci deve essere e io purtroppo non la so dare…”, con ragionamenti sconclusionati in cui ipotizzava che in quella situazione ” nulla non può starci dal nulla a qualcosa di ignoto, ma il spiega l’assurdo e l’ignoto può essere anche illecito…” , prima venne a trovarmi, perché ero in malattia post intervento chirurgico e poi si recò in Procura della repubblica per denunziare me e altri.. .Seguirono immediatamente sequestro di registi e scritture di cassa e comunicazione giudiziaria.Seguì, dopo più di un anno, settembre 1989, un mandato di comparizione avanti al giudice istruttore, dott. F. G., perché:”.. emergono sufficienti indizi di colpevolezza dalla relazione del 29/6/88 dell’ispettore distrettuale, confermata giudizialmente, nonché dal rapporto del nucleo regionale P.T. della G.d.F.”. Le imputazioni erano cose da pazzi: io per omissione d’atti d’ufficio, perché, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, indebitamente omettevo di effettuare le verifiche trimestrali di cassa prevedute dal vigente regolamento, reato commesso dalì’aprile 1985 al giugno 1987, e unitamente ai contabili imputati tutti in base all’ art.110 c.p. e 479 c.p. in relazione a art. 476 e 493 c.p. perché in concorso tra loro, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in qualità di pubblici ufficiali, formando il verbali di verifica di cassa, attestavano falsamente di aver compiuto la verifica e/o che la verifica era avvenuta in loro presenza e/o comunque attestavano falsamente la corrispondenza fra le risultanze contabili e le risultanze di cassa, reato commesso il 15/4/85 ,il 9/7/85 ,il 5/10/85 ,il 14/1/86 .Gli stessi di cui sopra , per l’ art. 81 cpv, 110 c.p. –48-479 c.p. perché , sempre in concorso e con più azioni , inducevano in errore con inganno il funzionario della ragioneria regionale dott. M.H., inganno consistito nell’integrare con danaro estraneo, quello realmente esistente in cassa.Nell’interrogatorio del 7 ottobre 1989, ci si aspettava che, vista l’accusa relativa a documenti, e di false attestazioni negli stessi, venissero almeno mostrati gli atti in questione: ma nulla di tutto ciò, e tutti dichiararono la propria estraneità alle accuse.Dopo quel giorno di ottobre 1989, non si ebbero più notizie sulla vicenda, anzi quando a giugno 1990, lasciai l’incarico, me ne ero completamente dimenticato.La notizia del rinvio a giudizio arrivò a febbraio 1991, dall’avvocato, che a sua volta l’aveva saputo, e… da chi ? Dalla stampa, anzi dal giornalista, che gli aveva telefonato per informazioni.Lo stesso giornalista, con un comportamento di serietà professionale, mi aveva poi telefonato quasi per chieder scusa della notizia che doveva pubblicare.Al contrario, un altro giornale locale aveva pubblicato la notizia , distorcendo i fatti, e si beccò una querela per diffamazione, e fu costretto al patteggiamento della pena.Due giorni dopo, per provocazione, presentai domanda per rientrare nell’Amministrazione .Ma anche questa questione non fu semplice: al Ministero avevano assicurato la immediata riassunzione, ma nel C.d.A, si verificarono problemi con un sindacalista – all’epoca i sindacati erano presenti nel cda e se non eri nelle loro grazie, non potevi far nulla -, della CISL, tale S.B., queste le iniziali, che sollevò il problema del procedimento penale pendente, oltre a dipingermi come un mostro di abusi e varie infamità. A quel punto il dirigente del Ministero. presente, tale C., non ebbe coraggio, e sospese la riammissione in attesa della definizione del processo.Ricevuta questa bella notizia, era il 1992, non restava altro da fare che chiedere l’immediata celebrazione del processo. Ma non fu facile neanche questa, a causa di svariati rinvii per diversi motivi, sui quali sorvolo per brevità del discorso.

L’ordinanza di rinvio a giudizio faceva acqua da tutte le parti, e prestò facilmente il fianco a una dettagliata relazione difensiva predisposta da me stesso, per la quale che ricevetti i complimenti non solo del difensore ma anche della Accusa.Peraltro, gli atti presunti falsi non risultavano NEANCHE nel fascicolo processuale, fu una sorpresa anche per l’avvocato non trovarli, devo pensare che qualcuno non voleva farli vedere. Ne richiesi copia alla Direzione del carcere, ma il caro collega – E.Sb. - me li negò, e fu necessario l’ordine del presidente del Tribunale- ecco uno dei motivi di rinvio - per averle, e su quelli, tutta l’accusa, cadde: le firme del direttore non c’erano , in alcune date risultò che egli era assente per ferie o altro.L’illustrazione del ruolo del direttore, i suoi molteplici compiti e relative varie responsabilità, la contestualizzazione degli episodi, la più attenta lettura degli stessi verbali, le testimonianze di quelli che, secondo l’accusa, sarebbero stati ingannati e dello stesso ispettore denunziante, l’assenza di dolo e di qualsiasi interesse o profitto, smontarono completamente tutte le accuse anche quelle a carico dei contabili, e lo stesso P.M., che all’inizio aveva pronosticato la condanna di tutti, nel marzo 1994 chiese l’assoluzione.Ad agosto 1994, venivo riammesso in servizio, con grande scorno di chi aveva fatto di tutto per ostacolarlo, compreso quel direttore che mi aveva negato le copie degli atti per la difesa. Questa la verità reale e la verità giudiziaria. Ma ci sono altre verità: una indagine, e una istruttoria più seria e approfondita, avrebbe evitato spreco di energie, soldi e tempo: non si possono affidare indagini in un settore così delicato come la contabilità pubblica e quella penitenziaria in particolare, prima a un pur bravo maresciallo della GdF, e poi a uno che di mestiere fa il commercialista; non si fa una indagine senza sentire testimoni, o gli stessi imputati, ai quali non fu mai fatta una specifica o dettagliata contestazione, né furono mostrati verbali, documenti e altro, e soprattutto fu confuso il ruolo dei contabili, responsabili tecnici di quell’area, con quello del dirigente.Nessun dirigente, specialmente in un settore così particolare, preso da molteplici impegni in campi così diversi: sicurezza, trattamento socio-psicologico, sanitario, gestione del personale, amministrazione e contabilità, può svolgere, e, di fatto non svolge di persona , – immaginiamo il dirigente di un grosso istituto come S.Vittore a Milano o Poggioreale a Napoli - , certe attività contabili, sulla base di un regolamento di contabilità del 1923, così come non svolge direttamente le funzioni di sicurezza, affidate al Corpo della polizia penitenziaria, o le altre funzioni. La sua è una funzione di coordinamento e organizzazione dei vari servizi e le responsabilità sono relative al fatto di essere il capo dell’istituto, mentre come è noto anche a uno studente del primo anno di giurisprudenza, la responsabilità penale è personale.

sabato 18 giugno 2011

Cales







Sulla via Casilina, che da Capua porta a Cassino, si incontra da un lato la cittadina di Calvi Risorta, un centro agricolo industriale di prodotti alimentari e, poco più avanti, Calvi vecchia.
Si tratta di un antichissimo centro chiamato, all’epoca romana, CALES; un cartello sbilenco appoggiato su un palo della luce, indica la città vecchia e l’area archeologica..
Come tutte le città antiche, anche Cales ha la sua leggenda di fondazione: fu così chiamata da Calai, che, secondo la mitologia greca, era figlio di una ninfa del luogo, Orizia, e di Borea, uno dei partecipanti alla spedizione degli Argonauti., quelli che insieme a Ercole, Giasone e altri, andarono alla ricerca del vello d’oro.
Nell’ Eneide (VII, 725/729), Virgilio, elencandogli alleati di Turno, il capo dei Rutuli, contro Enea, cita alcuni popoli e città della zona: … mille rapit populos, vertunt felicia Baccho Massica….” e . continuando in italiano,”: … quelli che i padri Aurunci mandarono dagli alti colli e, vicino, le piane Sidicine e quelli che lasciano CALES e i limitrofi del guadabile fiume Volturno……”.
Una visione anche questa leggendaria, poeticamente valida, ma anacronistica e poco storica.
Storicamente parlando, la zona era abitata dall’antico popolo italico degli Aurunci.
Questi erano una popolazione indigena stanziata, da quanto si sa, nel basso Lazio dopo il 1000 a.c., tra le pendici delle montagne sannitiche e il Garigliano e il Volturno, a nord di Capua e a sud di Teano.
I maggiori centri di questo popolo erano Priverno, Terracina, Sinuessa, oggi Sessa Aurunca, e appunto, Cales.
Nel 335 fu ovviamente occupata dai Romani che si stavano dedicando alla conquista delle città della Campania – di lì a poco sarebbe toccato a Neapolis -, e fu trasformata in una colonia. Nel 209, insieme ad altre colonie e città della zona, come Capua, rifiutò aiuti a Roma contro Annibale; per questo motivo, qualche anno dopo, appena cessato il pericolo cartaginese, Roma si vendicò imponendo gravosi tributi.
La città di Cales era famosa per il vino, celebrato, dal poeta Orazio - …nunc est bibendum… -, ma anche da Plinio, Giovenale; Strabone la chiamò “urbs egregia”, mentre Cicerone ne parlava come” civitas magna”.
A Cales inoltre si era sviluppata una industria per la fabbricazione di strumenti agricoli e, soprattutto, la produzione di ceramica artistica : i vasi caleni erano coperti di vernice lucida e nera, decorati con motivi ornamentali e figurati, imitanti quelli di bronzo e d’argento. La tecnica, lo stile e la forma erano di ispirazione ellenistica.
La storia della città fu poi quella di Roma, fino alla caduta dell’impero. Cales fu sede vescovile dal V secolo d.c. Nel 879 fu distrutta da una incursione di pirati saraceni.
La sua storia medievale si confuse con quella delle città vicine più importanti, tra longobardi di Benevento e normanni del ducato di Capua, e dal 1134, entrò a far parte del regno del Sud, fondato da Ruggero II e cosi resterà fino al 1861, anno dell’unità d’Italia.
In quell’anno e anche dopo, anche per la vicinanza al confine con lo stato pontificio, che consentiva un facile passaggio di resti dell’esercito borbonico sconfitto, tutta la zona fu investita prima dalla guerra tra borbonici e piemontesi con la battaglia del Volturno, poi dal lungo assedio di Gaeta e quello alla fortezza di Capua, e poi da lungo periodo della guerriglia anti italiana e del brigantaggio.
Ma ormai Calvi vecchia era stata abbandonata, solo rovine e macerie, poco più avanti fu riedificata la Calvi di oggi, risorta.
E cosa resta oggi di quella antica città? Stando ai cartelli turistici, c’è l’ area archeologica, con l’edificio termale e l’anfiteatro, ci sono le mura difensive preromane, il castello aragonese, l’edificio della cosiddetta dogana borbonica, la cattedrale.
Teoricamente si dovrebbero ritrovare avanzi di un anfiteatro e i ruderi di un edificio termale e delle vere e proprie terme del I° sec a.c.. Più avanti dovevano esserci resti di monumenti sepolcrali romani e di una chiesa del V secolo. Sarebbe prevista la creazione di un vero e proprio parco archeologico con al centro il castello aragonese di Calvi risorta.
Tutto questo si raggiungerebbe attraverso una stradina in discesa che secondo gli studiosi della zona, segue il tracciato dell’antico cardo maximus.
In realtà, quando mi sono addentrato in questa strada, tutto mi sembrava tranne che zona archeologica. Una strada fangosa e buia, coperta da folta vegetazione,- una giungla -, alberi e foglie incolte e non curate, nessuno per strada, se pure c’erano resti archeologici, dovevano essere coperti e nascosti dalla vegetazione, impossibile vedere i resti del teatro.
Tornato indietro, attraversando la strada statale si incontrano resti del castello cosiddetto angioino/ aragonese che viene fatto risalire al sec.XI, la cattedrale romanica del sc.XI, andando avanti le mura difensive di età preromana del IV sec.a.c. e la dogana borbonica del sec.XVIII e in lontananza vediamo il seminario diocesano risalente al sec.XVIII..
Tranne quest’ultimo, tutto appare in uno stato di semi abbandono, tra sentieri sbriciolati e erbacce,
c’è per fortuna una tabella con qualche disegnino e un tentativo di spiegazioni. Ovviamente, non c’è nessuno a cui chiedere informazioni.
Il castello, o meglio, quel che resta, con quattro torri cilindriche tipiche del periodo aragonese, risale al XIV secolo, cioè al periodo tardo angioino; impossibile anche avvicinarsi e tantomeno visitarlo, il portone di ingresso è sbarrato. Secondo gli storici, fu costruito su un preesistente fortilizio di età longobarda; la sua funzione è stata quella di presidio militare di confine,svolta fino a centocinquanta anni fa, alla fine del regno del sud.
Fino al 1861, infatti, lungo la linea della strada per gli Abruzzi, oggi Casilina, tra Arce e Ceprano( oggi in provincia di Frosinone, nel Lazio), correva il confine tra il regno borbonico e lo Stato pontificio.
E proprio a Calvi c’è un piccolo edificio a pianta quadrata, apparentemente restaurato e imbiancato, denominato “dogana borbonica”, che sarebbe stata appunto la dogana di confine, anche se non tutti gli studiosi sono d’accordo.
Per non parlare della cosiddetta grotta dei Santi, che un cartello indica mostrando un dipinto dedicato a S.Barbara. Ma non c’è nessuno a cui chiedere di cosa si tratta e dove si trova e come si arriva. Da quanto si legge in questa grotta dovrebbero esserci degli affreschi votivi. del X e XI sec.
A questo punto viene solo voglia di andarsene. Nulla di nuovo, anche Cales rientra perfettamente nell’attuale quadro di macerie archeologiche, culturali, turistiche e finanziarie di questo paese,.un classico esempio di degrado, di come cultura e storia possono essere nascoste e distrutte.
La Campania, poi, come leggiamo in “Vandali”, di G,A.Stella e S.Rizzo, è “al quintultimo posto per visitatori ai siti antichi, in rapporto al numero degli abitanti, nonostante l’antica Capua, nonostante Velia e Paestum, nonostante Ercolano,Oplontis , Pompei e una miriade di altri siti”, tra i quali posso facilmente inserire l’antica Cales.
Il problema - dicono quegli autori – non sono i siti, che in Italia non mancano, poiché dove scavi trovi reperti di ogni genere, ma la loro tutela. In questo settore” c’è da piangere”.
E il bello, anzi il brutto, è che a nulla serve neanche l’idea che, se ben conservate, queste aree producono ricchezza.

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martedì 7 giugno 2011

DAP





D.A.P.


Il DAP, acronimo di Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria, incardinato nel Ministero della Giustizia (una volta c’era anche la Grazia), è nato alla fine del 1990, con la legge n.395 del 15 dicembre.
La legge costituiva il punto di arrivo delle molte proposte politiche e sindacali per la riforma del personale di custodia operante nelle carceri, ed infatti essa è intitolata e ricordata solo per la istituzione del “Corpo della polizia penitenziaria”. Generalmente si tace, o perché non interessa o perché è meglio star zitti, su alcuni articoli dal 30 al 40, che non solo rivoluzionavano l’Amministrazione centrale e periferica, creando il DAP e i Provveditorati regionali, ma aumentando considerevolmente il numero dei dirigenti e dando grossi vantaggi economici e giuridici a tutto il personale direttivo, parificato ai funzionari di P.S. In verità già esisteva una disposizione analoga del 1987 e concedeva al personale direttivo, un migliore trattamento economico allo scadere dei 15 e dei 25 di servizio.
Contemporaneamente alla nascita del DAP, cessava di esistere la Direzione Generale degli Istituti di prevenzione e di pena.
Prima di proseguire, un pò di storia, partendo dall’ unità d’Italia, visto che se ne celebrano i 150 anni.
Tralasciandola pena di morte, il sistema carcerario del nuovo regno non era mutato molto da quello degli stati preunitari: oltre alle carceri ordinarie e le case di pena dove si scontavano le pene della reclusione e dell’ergastolo, c’erano anche i cosiddetti “bagni penali” , cioè quei stabilimenti, sia di terra sia sulle isole, dove si doveva scontare la pena dei lavori forzati. L’amministrazione e la gestione di questi stabilimenti era affidata al Ministero della Marina ( risalendo questa pena alla antichissima “condanna al remo” da scontarsi sulle galee o galere, antiche navi a remi,dalle quali derivano poi i termini ad es. di galera e galeotti e altro...). Tutto il sistema sociale non pensava a possibilità di riabilitazione e di reinserimento sociale.
Dal 1861, al momento dell’unità d’Italia, come avvenne in tutti i settori economici, sociali e amministrativi, anche nel campo penale e penitenziario fu estesa, negli stati annessi al regno sardo, la legislazione piemontese, con un “Regolamento generale delle case di pena del Regno”, del 1862.
E’ nel 1866, l’anno della cosiddetta III terza guerra d’indipendenza, della sconfitta di Custoza e di Lissa e dell’annessione del Veneto, che tutto l’apparato penitenziario fu trasferito al Ministero dell’Interno e nacque la “Direzione generale delle carceri”.
Alla Direzione generale vennero addetti prefetti o comunque funzionari delle Prefetture, che in periferia curavano la parte amministrativa, e il direttore del carcere aveva il grado di sotto/prefetto onorario.
Nel 1891 si arrivò a una prima sistemazione della materia, con la riforma Zanardelli, sia del codice penale sia del regolamento penitenziario, con l’abolizione dei bagni penali.
La Direzione generale delle carceri fece parte del Ministero degli Interni fino al 1922.
Dal 1923, il regime fascista cambiò tutto: la Direzione generale delle carceri, secondo un principio di giurisdizionalizzazione della pena, per cui chi irrogava la pena doveva anche gestirne e controllarne l’esecuzione, passò al Ministero della Giustizia, tutte le attribuzioni amministrative di competenza delle Prefetture, furono trasferite alle segreterie giudiziarie delle Procure del Re, che diventarono così organi amministrativi periferici del ministero, tutte le carceri prive di direzione autonoma potevano essere dirette dal procuratore del re o dal pretore per le carceri mandamentali. Dietro questa manovra si nascondeva sicuramente qualcosa altro, poiché, per attuare quel principio, sarebbe stato sufficiente la magistratura di sorveglianza, così come avviene oggi. Naturalmente bisognava sostituire i dirigenti con magistrati.
Questo avvenne nel 1927, il personale direttivo che ancora gestiva la Direzione generale, fu sottoposto gerarchicamente a magistrati distaccati presso gli uffici centrali per assumerne la direzione.(che è rimasta fino al 1990 ed è tuttora in vigore per molti uffici del Dipartimento, ivi compresa la figura del Capo che è sempre un magistrato).
Nel 1931 fu varato un regolamento carcerario, che indicava anche la figura e i poteri del giudice di sorveglianza. In quello stesso regolamento, come parte accessoria e secondaria, solo nell’ultima parte, dall’art.293 al 322, si accennava all’ordinamento del personale e alle sue attribuzioni.
Nel 1940 con R.D. n. 2041 del 30 luglio, fu emanato un regolamento per il personale – l’Italia è già in guerra -: l’art 79 sanzionava definitivamente il processo di dequalificazione della Direzione generale nelle sedi periferiche, con la subordinazione “gerarchica” del direttore penitenziario al procuratore del re.
Con questa organizzazione, tutto il sistema penitenziario, dalla Direzione Generale al direttore periferico e al restante personale, pur avendone lasciato inalterate tutte le attività e responsabilità amministrative e quelle di sicurezza, era stato blindato e controllato dall ‘ordine giudiziario.
Non fu una bella mossa! I magistrati distaccati presso il Ministero, generalmente provenienti, chissà perché, dalle Procure, oltre ai propri collaboratori, cancellieri, segretari e altri, portarono una completa, abissale ignoranza amministrativa e di gestione del personale e delle risorse economiche, e una mentalità inquisitoria con cui hanno permeato tutta l ‘Amministrazione e che, malgrado il ricambio e il tempo trascorso, dura ancora oggi.
Caduto il fascismo e cessata la guerra, già nel 1947 si iniziò a pensare alla riforma penitenziaria, mentre due anni prima era stato militarizzato il corpo degli agenti di custodia; nel 1948 veniva promulgata la Costituzione repubblicana, che stabiliva la funzione rieducativa della pena, ma nulla sulla Direzione generale e sul personale.
Si cominciò a parlare di decentramento in tutta l’amministrazione statale, e nel 1955, con D.P.R. 28/6/ n. 1538, venivano istituiti gli ispettorati distrettuali, (gli antenati degli odierni provveditorati): ma, dove venivano istituiti ?... “ presso ogni Procura generale di corte di appello, e inoltre, l’ispettore doveva esercitare le funzioni di vigilanza e controllo, ma “ …sotto la vigilanza del competente procuratore generale “, il quale inoltre, o direttamente o su richiesta del Ministero, poteva intervenire direttamente per la trattazione di “ casi di particolare importanza “ (art. 9).
Ciò significava chiaramente che i dirigenti non erano considerati all’altezza di istruire e risolvere casi di particolare importanza, e la assoluta mancanza di fiducia della politica e della Direzione generale nei confronti dei propri funzionari.
Per non parlare del direttore del carcere che, – classico vaso di coccio tra vasi di ferro di manzoniana memoria – era subordinato gerarchicamente :1°) al procuratore della repubblica, per cui a lui doveva riferire su ogni affare, e da lui dipendeva per le classifiche annuali e addirittura per la autentica della firma da depositare presso la tesoreria della banca d’Italia, per tutte le attività contabili; 2°) all’ispettore distrettuale ,e doveva riferire anche a lui , come organo superiore e di controllo, ma questi, a sua volta, era subordinato e controllato dal procuratore generale e da lui dipendeva; 3°) alla Direzione generale presso il Ministero,alla quale pure doveva riferire..
E non dimentichiamo il magistrato di sorveglianza, che pur non essendo un superiore gerarchico, aveva e ha tra i compiti assegnatigli anche quello di vigilare sulla esecuzione delle pene e ogni cosa accade in carcere e poteva riferire direttamente al collega della Direzione generale. Insomma, un bell’esempio di funzionalità e di efficienza e di decentramento amministrativo.
Anche il DPR n. 748 del 1972 del 30 giugno , sulla disciplina delle funzioni dirigenziali non mutò nulla,
confermando il distacco di magistrati presso gli uffici centrali della Direzione Generale , escludendo l’accesso alle più alte qualifiche dirigenziali per il personale direttivo penitenziario.
Ovviamente tutto questo conveniva ai magistrati, per i quali erano aumentati gli incarichi direttivi, con relative carriere e stipendi.
Poiché l’argomento è lungo e complesso, termino qui la prima parte di questo racconto e ricomincerò più avanti dalla riforma penitenziaria del 1975.

FINE PRIMA PARTE