Sulla via Casilina, che da Capua porta a Cassino, si incontra da un lato la cittadina di Calvi Risorta, un centro agricolo industriale di prodotti alimentari e, poco più avanti, Calvi vecchia.
Si tratta di un antichissimo centro chiamato, all’epoca romana, CALES; un cartello sbilenco appoggiato su un palo della luce, indica la città vecchia e l’area archeologica..
Come tutte le città antiche, anche Cales ha la sua leggenda di fondazione: fu così chiamata da Calai, che, secondo la mitologia greca, era figlio di una ninfa del luogo, Orizia, e di Borea, uno dei partecipanti alla spedizione degli Argonauti., quelli che insieme a Ercole, Giasone e altri, andarono alla ricerca del vello d’oro.
Nell’ Eneide (VII, 725/729), Virgilio, elencandogli alleati di Turno, il capo dei Rutuli, contro Enea, cita alcuni popoli e città della zona: … mille rapit populos, vertunt felicia Baccho Massica….” e . continuando in italiano,”: … quelli che i padri Aurunci mandarono dagli alti colli e, vicino, le piane Sidicine e quelli che lasciano CALES e i limitrofi del guadabile fiume Volturno……”.
Una visione anche questa leggendaria, poeticamente valida, ma anacronistica e poco storica.
Storicamente parlando, la zona era abitata dall’antico popolo italico degli Aurunci.
Questi erano una popolazione indigena stanziata, da quanto si sa, nel basso Lazio dopo il 1000 a.c., tra le pendici delle montagne sannitiche e il Garigliano e il Volturno, a nord di Capua e a sud di Teano.
I maggiori centri di questo popolo erano Priverno, Terracina, Sinuessa, oggi Sessa Aurunca, e appunto, Cales.
Nel 335 fu ovviamente occupata dai Romani che si stavano dedicando alla conquista delle città della Campania – di lì a poco sarebbe toccato a Neapolis -, e fu trasformata in una colonia. Nel 209, insieme ad altre colonie e città della zona, come Capua, rifiutò aiuti a Roma contro Annibale; per questo motivo, qualche anno dopo, appena cessato il pericolo cartaginese, Roma si vendicò imponendo gravosi tributi.
La città di Cales era famosa per il vino, celebrato, dal poeta Orazio - …nunc est bibendum… -, ma anche da Plinio, Giovenale; Strabone la chiamò “urbs egregia”, mentre Cicerone ne parlava come” civitas magna”.
A Cales inoltre si era sviluppata una industria per la fabbricazione di strumenti agricoli e, soprattutto, la produzione di ceramica artistica : i vasi caleni erano coperti di vernice lucida e nera, decorati con motivi ornamentali e figurati, imitanti quelli di bronzo e d’argento. La tecnica, lo stile e la forma erano di ispirazione ellenistica.
La storia della città fu poi quella di Roma, fino alla caduta dell’impero. Cales fu sede vescovile dal V secolo d.c. Nel 879 fu distrutta da una incursione di pirati saraceni.
La sua storia medievale si confuse con quella delle città vicine più importanti, tra longobardi di Benevento e normanni del ducato di Capua, e dal 1134, entrò a far parte del regno del Sud, fondato da Ruggero II e cosi resterà fino al 1861, anno dell’unità d’Italia.
In quell’anno e anche dopo, anche per la vicinanza al confine con lo stato pontificio, che consentiva un facile passaggio di resti dell’esercito borbonico sconfitto, tutta la zona fu investita prima dalla guerra tra borbonici e piemontesi con la battaglia del Volturno, poi dal lungo assedio di Gaeta e quello alla fortezza di Capua, e poi da lungo periodo della guerriglia anti italiana e del brigantaggio.
Ma ormai Calvi vecchia era stata abbandonata, solo rovine e macerie, poco più avanti fu riedificata la Calvi di oggi, risorta.
E cosa resta oggi di quella antica città? Stando ai cartelli turistici, c’è l’ area archeologica, con l’edificio termale e l’anfiteatro, ci sono le mura difensive preromane, il castello aragonese, l’edificio della cosiddetta dogana borbonica, la cattedrale.
Teoricamente si dovrebbero ritrovare avanzi di un anfiteatro e i ruderi di un edificio termale e delle vere e proprie terme del I° sec a.c.. Più avanti dovevano esserci resti di monumenti sepolcrali romani e di una chiesa del V secolo. Sarebbe prevista la creazione di un vero e proprio parco archeologico con al centro il castello aragonese di Calvi risorta.
Tutto questo si raggiungerebbe attraverso una stradina in discesa che secondo gli studiosi della zona, segue il tracciato dell’antico cardo maximus.
In realtà, quando mi sono addentrato in questa strada, tutto mi sembrava tranne che zona archeologica. Una strada fangosa e buia, coperta da folta vegetazione,- una giungla -, alberi e foglie incolte e non curate, nessuno per strada, se pure c’erano resti archeologici, dovevano essere coperti e nascosti dalla vegetazione, impossibile vedere i resti del teatro.
Tornato indietro, attraversando la strada statale si incontrano resti del castello cosiddetto angioino/ aragonese che viene fatto risalire al sec.XI, la cattedrale romanica del sc.XI, andando avanti le mura difensive di età preromana del IV sec.a.c. e la dogana borbonica del sec.XVIII e in lontananza vediamo il seminario diocesano risalente al sec.XVIII..
Tranne quest’ultimo, tutto appare in uno stato di semi abbandono, tra sentieri sbriciolati e erbacce,
c’è per fortuna una tabella con qualche disegnino e un tentativo di spiegazioni. Ovviamente, non c’è nessuno a cui chiedere informazioni.
Il castello, o meglio, quel che resta, con quattro torri cilindriche tipiche del periodo aragonese, risale al XIV secolo, cioè al periodo tardo angioino; impossibile anche avvicinarsi e tantomeno visitarlo, il portone di ingresso è sbarrato. Secondo gli storici, fu costruito su un preesistente fortilizio di età longobarda; la sua funzione è stata quella di presidio militare di confine,svolta fino a centocinquanta anni fa, alla fine del regno del sud.
Fino al 1861, infatti, lungo la linea della strada per gli Abruzzi, oggi Casilina, tra Arce e Ceprano( oggi in provincia di Frosinone, nel Lazio), correva il confine tra il regno borbonico e lo Stato pontificio.
E proprio a Calvi c’è un piccolo edificio a pianta quadrata, apparentemente restaurato e imbiancato, denominato “dogana borbonica”, che sarebbe stata appunto la dogana di confine, anche se non tutti gli studiosi sono d’accordo.
Per non parlare della cosiddetta grotta dei Santi, che un cartello indica mostrando un dipinto dedicato a S.Barbara. Ma non c’è nessuno a cui chiedere di cosa si tratta e dove si trova e come si arriva. Da quanto si legge in questa grotta dovrebbero esserci degli affreschi votivi. del X e XI sec.
A questo punto viene solo voglia di andarsene. Nulla di nuovo, anche Cales rientra perfettamente nell’attuale quadro di macerie archeologiche, culturali, turistiche e finanziarie di questo paese,.un classico esempio di degrado, di come cultura e storia possono essere nascoste e distrutte.
La Campania, poi, come leggiamo in “Vandali”, di G,A.Stella e S.Rizzo, è “al quintultimo posto per visitatori ai siti antichi, in rapporto al numero degli abitanti, nonostante l’antica Capua, nonostante Velia e Paestum, nonostante Ercolano,Oplontis , Pompei e una miriade di altri siti”, tra i quali posso facilmente inserire l’antica Cales.
Il problema - dicono quegli autori – non sono i siti, che in Italia non mancano, poiché dove scavi trovi reperti di ogni genere, ma la loro tutela. In questo settore” c’è da piangere”.
E il bello, anzi il brutto, è che a nulla serve neanche l’idea che, se ben conservate, queste aree producono ricchezza.
.
Si tratta di un antichissimo centro chiamato, all’epoca romana, CALES; un cartello sbilenco appoggiato su un palo della luce, indica la città vecchia e l’area archeologica..
Come tutte le città antiche, anche Cales ha la sua leggenda di fondazione: fu così chiamata da Calai, che, secondo la mitologia greca, era figlio di una ninfa del luogo, Orizia, e di Borea, uno dei partecipanti alla spedizione degli Argonauti., quelli che insieme a Ercole, Giasone e altri, andarono alla ricerca del vello d’oro.
Nell’ Eneide (VII, 725/729), Virgilio, elencandogli alleati di Turno, il capo dei Rutuli, contro Enea, cita alcuni popoli e città della zona: … mille rapit populos, vertunt felicia Baccho Massica….” e . continuando in italiano,”: … quelli che i padri Aurunci mandarono dagli alti colli e, vicino, le piane Sidicine e quelli che lasciano CALES e i limitrofi del guadabile fiume Volturno……”.
Una visione anche questa leggendaria, poeticamente valida, ma anacronistica e poco storica.
Storicamente parlando, la zona era abitata dall’antico popolo italico degli Aurunci.
Questi erano una popolazione indigena stanziata, da quanto si sa, nel basso Lazio dopo il 1000 a.c., tra le pendici delle montagne sannitiche e il Garigliano e il Volturno, a nord di Capua e a sud di Teano.
I maggiori centri di questo popolo erano Priverno, Terracina, Sinuessa, oggi Sessa Aurunca, e appunto, Cales.
Nel 335 fu ovviamente occupata dai Romani che si stavano dedicando alla conquista delle città della Campania – di lì a poco sarebbe toccato a Neapolis -, e fu trasformata in una colonia. Nel 209, insieme ad altre colonie e città della zona, come Capua, rifiutò aiuti a Roma contro Annibale; per questo motivo, qualche anno dopo, appena cessato il pericolo cartaginese, Roma si vendicò imponendo gravosi tributi.
La città di Cales era famosa per il vino, celebrato, dal poeta Orazio - …nunc est bibendum… -, ma anche da Plinio, Giovenale; Strabone la chiamò “urbs egregia”, mentre Cicerone ne parlava come” civitas magna”.
A Cales inoltre si era sviluppata una industria per la fabbricazione di strumenti agricoli e, soprattutto, la produzione di ceramica artistica : i vasi caleni erano coperti di vernice lucida e nera, decorati con motivi ornamentali e figurati, imitanti quelli di bronzo e d’argento. La tecnica, lo stile e la forma erano di ispirazione ellenistica.
La storia della città fu poi quella di Roma, fino alla caduta dell’impero. Cales fu sede vescovile dal V secolo d.c. Nel 879 fu distrutta da una incursione di pirati saraceni.
La sua storia medievale si confuse con quella delle città vicine più importanti, tra longobardi di Benevento e normanni del ducato di Capua, e dal 1134, entrò a far parte del regno del Sud, fondato da Ruggero II e cosi resterà fino al 1861, anno dell’unità d’Italia.
In quell’anno e anche dopo, anche per la vicinanza al confine con lo stato pontificio, che consentiva un facile passaggio di resti dell’esercito borbonico sconfitto, tutta la zona fu investita prima dalla guerra tra borbonici e piemontesi con la battaglia del Volturno, poi dal lungo assedio di Gaeta e quello alla fortezza di Capua, e poi da lungo periodo della guerriglia anti italiana e del brigantaggio.
Ma ormai Calvi vecchia era stata abbandonata, solo rovine e macerie, poco più avanti fu riedificata la Calvi di oggi, risorta.
E cosa resta oggi di quella antica città? Stando ai cartelli turistici, c’è l’ area archeologica, con l’edificio termale e l’anfiteatro, ci sono le mura difensive preromane, il castello aragonese, l’edificio della cosiddetta dogana borbonica, la cattedrale.
Teoricamente si dovrebbero ritrovare avanzi di un anfiteatro e i ruderi di un edificio termale e delle vere e proprie terme del I° sec a.c.. Più avanti dovevano esserci resti di monumenti sepolcrali romani e di una chiesa del V secolo. Sarebbe prevista la creazione di un vero e proprio parco archeologico con al centro il castello aragonese di Calvi risorta.
Tutto questo si raggiungerebbe attraverso una stradina in discesa che secondo gli studiosi della zona, segue il tracciato dell’antico cardo maximus.
In realtà, quando mi sono addentrato in questa strada, tutto mi sembrava tranne che zona archeologica. Una strada fangosa e buia, coperta da folta vegetazione,- una giungla -, alberi e foglie incolte e non curate, nessuno per strada, se pure c’erano resti archeologici, dovevano essere coperti e nascosti dalla vegetazione, impossibile vedere i resti del teatro.
Tornato indietro, attraversando la strada statale si incontrano resti del castello cosiddetto angioino/ aragonese che viene fatto risalire al sec.XI, la cattedrale romanica del sc.XI, andando avanti le mura difensive di età preromana del IV sec.a.c. e la dogana borbonica del sec.XVIII e in lontananza vediamo il seminario diocesano risalente al sec.XVIII..
Tranne quest’ultimo, tutto appare in uno stato di semi abbandono, tra sentieri sbriciolati e erbacce,
c’è per fortuna una tabella con qualche disegnino e un tentativo di spiegazioni. Ovviamente, non c’è nessuno a cui chiedere informazioni.
Il castello, o meglio, quel che resta, con quattro torri cilindriche tipiche del periodo aragonese, risale al XIV secolo, cioè al periodo tardo angioino; impossibile anche avvicinarsi e tantomeno visitarlo, il portone di ingresso è sbarrato. Secondo gli storici, fu costruito su un preesistente fortilizio di età longobarda; la sua funzione è stata quella di presidio militare di confine,svolta fino a centocinquanta anni fa, alla fine del regno del sud.
Fino al 1861, infatti, lungo la linea della strada per gli Abruzzi, oggi Casilina, tra Arce e Ceprano( oggi in provincia di Frosinone, nel Lazio), correva il confine tra il regno borbonico e lo Stato pontificio.
E proprio a Calvi c’è un piccolo edificio a pianta quadrata, apparentemente restaurato e imbiancato, denominato “dogana borbonica”, che sarebbe stata appunto la dogana di confine, anche se non tutti gli studiosi sono d’accordo.
Per non parlare della cosiddetta grotta dei Santi, che un cartello indica mostrando un dipinto dedicato a S.Barbara. Ma non c’è nessuno a cui chiedere di cosa si tratta e dove si trova e come si arriva. Da quanto si legge in questa grotta dovrebbero esserci degli affreschi votivi. del X e XI sec.
A questo punto viene solo voglia di andarsene. Nulla di nuovo, anche Cales rientra perfettamente nell’attuale quadro di macerie archeologiche, culturali, turistiche e finanziarie di questo paese,.un classico esempio di degrado, di come cultura e storia possono essere nascoste e distrutte.
La Campania, poi, come leggiamo in “Vandali”, di G,A.Stella e S.Rizzo, è “al quintultimo posto per visitatori ai siti antichi, in rapporto al numero degli abitanti, nonostante l’antica Capua, nonostante Velia e Paestum, nonostante Ercolano,Oplontis , Pompei e una miriade di altri siti”, tra i quali posso facilmente inserire l’antica Cales.
Il problema - dicono quegli autori – non sono i siti, che in Italia non mancano, poiché dove scavi trovi reperti di ogni genere, ma la loro tutela. In questo settore” c’è da piangere”.
E il bello, anzi il brutto, è che a nulla serve neanche l’idea che, se ben conservate, queste aree producono ricchezza.
.