Seconda parte
Regina
Mentre
al nord infuriava la guerra, il 22 maggio 1859 moriva a Napoli, il re
Ferdinando II di Borbone, e Maria Sofia, a 18 anni, diventava Regina delle due
Sicilie, come consorte di Francesco II°.
Non era il momento adatto per assumere la corona del regno, soprattutto
in quei momenti difficili, con il regno sabaudo che si stava allargando al nord
e soprattutto nel privato, con quella moglie dal temperamento del tutto opposto
al suo. Sofia dovette subire tutto ciò, il carattere fatalista e pio del marito
la spinsero a tentare di prendere la direzione degli affari del regno, entrando
così in aperto contrasto con la matrigna del re, la regina madre, l’austriaca
Maria Teresa. Come la sorella
Elisabetta, Sofia era solita uscire da sola, cavalcare, tirare di scherma.
Praticava il nuoto, la danza e il tiro con la carabina. E amava fumare
sigaretti. E continuò a farlo anche a Napoli, scandalizzando la Corte
borbonica, soprattutto la regina madre. Dal padre aveva ereditato l’amore per
gli animali: in particolare cavalli, cani e pappagalli, riempendo la reggia di
tutti questi animali. Rinnovò tutto il guardaroba, cambiando toeletta almeno
quattro volte al giorno e si fece fotografare nelle pose più diverse: a cavallo
e a piedi, seduta, con il marito o con i cognati, sul trono e con la corona in
testa. Ma ciò che scandalizzò più di
tutto fu “ ‘o zumpo” ( il salto), il
bagno a mare, osò tuffarsi nelle acque, all’epoca pulitissime, del porto
militare, sotto gli occhi di marinai e soldati.
Tuttavia, Sofia non era solo questo, ma nei pochi mesi del soggiorno
napoletano, seppe anche imporre la sua
personalità e dimostrare risolutezza e
determinazione, che compensavano la debolezza e le incertezze del Re.
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G.Fattori: Magenta, campo piemontese |
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Palazzo reale di Napoli |
Nel
nord della penisola intanto, l’esercito austriaco stava subendo una serie di
sconfitte in battaglie cruente, che portarono all’armistizio di Villafranca, il
12 luglio, alla cessione della Lombardia e alla ribellione e alla successiva
annessione al regno sardo dei ducati di Toscana, Parma e Modena, e della
Romagna pontificia.
A Napoli queste notizie producevano per i
liberali piacere e manifestazioni di gioia, per la Corte preoccupazione e
problemi; Sofia era in ansia anche per
la sorella che sapeva essere caduta in un profondo stato di disperazione. Elisabetta, infatti, piangeva in continuazione, aveva chiesto
all'imperatore di poterlo raggiungere in Italia, ma le era stato negato il
permesso; si dedicò a drastiche cure
dimagranti e a sfiancanti cavalcate; disertò tutti gli impegni sociali
organizzati dalla suocera, l'arciduchessa Sofia, attirandosi le critiche della
Corte. Stava crollando tutto il sistema
imperiale austriaco voluto a suo tempo dal Congresso di Vienna, la crisi non
era solo politica ma si allargò anche alla vita privata della coppia imperiale.
Quello
che accadeva nel Nord Italia avrebbe dovuto indurre il governo napoletano a
serie riflessioni sulle alleanza con gli Asburgo d’Austria, e a qualche
concessione in senso liberale, onde togliere agli oppositori ogni possibilità di lamentela e di protesta.
Ma non ci fu verso, né a Napoli c’erano politici come Cavour, ma solo vecchi ministri ormai
sorpassati. L’unico poteva essere Carlo Filangieri, ( a lato), generale dei tempi di Murat,
liberale ma fedele, per giuramento di soldato, ai Borbone. Il
sovrano borbonico aveva in precedenza ricevuto offerte da parte di Cavour, per la costituzione di un'Italia
federale, offerte da lui rigettate per non far torto al papa, al quale avrebbe
dovuto essere tolto una parte del territorio di sua pertinenza, ma soprattutto
perché del ministro piemontese non c’era da fidarsi. All’interno del regno,
malgrado la situazione italiana, Francesco II favorì alcune piccole riforme, come ad
esempio una maggiore autonomia ai comuni, emanò amnistie, nominò commissioni
aventi lo scopo di migliorare le condizioni dei carcerati nei luoghi di
detenzione, dimezzò l'imposta sul macinato, ridusse le tasse doganali. Fece
inoltre ripartire i progetti di ampliamento della rete ferroviaria, che si
interruppero però nel 1860. Non ne volle sapere però, di appoggiare e approvare
un progetto di Statuto predisposto dal primo ministro Filangieri.
Il
regno però era ormai già condannato dalla politica internazionale; isolato
dalle maggiori potenze, chiuso nel suo piccolo mondo, senza alcuna capacità e
anche volontà di inserirsi nel gioco politico europeo, per un falso e superato
senso autonomistico, e facile preda di
politiche più esuberanti e attive, in
linea con i tempi, come quelle di Cavour. Si avvicinava il fatidico 1860: i Borbone
erano informati fin dall'inizio dell'impresa dei Mille, sia sul giorno che sul
luogo della loro partenza, nonché su quello del presunto sbarco. Intanto,
mentre il cugino Vittorio Emanuele II ( a fianco) giurava amicizia a Francesco II e
condannava formalmente l'impresa di Garibaldi, di nascosto l’appoggiava. In politica estera la situazione era
difficile, l’ Austria era da poco stata sconfitta, anche se avrebbe voluto
intervenire militarmente contro i piemontesi dal nord, la Russia le aveva prese
in Crimea nel 1855, mentre il regno era isolato diplomaticamente. L’unica
potenza reale dell’epoca l’Inghilterra
aveva grossi interessi economici in Sicilia e nel Mediterraneo ed era contro i
Borbone; Napoleone III in Francia si comportava come sempre in maniera ambigua
e doppiogiochista e non capiva assolutamente cosa stava accadendo, che Cavour
lo stava prendendo in giro, da una parte conservava una guarnigione francese a
Roma a tutela del papa, da un’altra aiutava il regno sardo contro l’Austria
convinto di poter gestire la situazione italiana, istituendo un ipotetico regno
dell’Italia centrale con a capo un napoleonide, e ancora verso i Borbone agiva
formalmente come amico ma sottobanco
nulla faceva per impedire gli avvenimenti siciliani.
La
conquista
A
maggio 1860, Garibaldi sbarcò a Marsala, protetto dalle navi inglesi nel porto
e ignorato dalle navi borboniche, e diede inizio alla conquista che sappiamo.
La Sicilia era la spina nel fianco del regno, e lo era sempre stata fin dai
tempi antichi, dagli Angioini e dai Vespri siciliani, con le secolari mire
autonomiste e secessioniste dal continente.
Per questo motivo fu scelta l’ isola
per attaccare il regno e perché l’Inghilterra era interessata a
impossessarsene, per i suoi commerci.
Pur disponendo di una flotta di 14 navi
militari che incrociavano lungo le coste del Regno, i Mille non furono fermati.
Probabilmente il re si illudeva di poter fermare a terra quella che considerava
una banda di avventurieri, ma sappiamo come andò a finire. Tanto per fare un
esempio, a Calatafimi ben 3.000 soldati borbonici si ritirarono inspiegabilmente,
dopo un'accanita battaglia che li aveva quasi condotti a rigettare i
garibaldini in mare, a causa degli ordini del generale Landi, di anni
settantadue, che andava in battaglia con la carrozza. Landi, dopo Calatafimi,
fu accusato di tradimento e corruzione, e soprattutto incapacità, (si racconta
che gli furono promessi 15.000 o 20.000 ducati da pagarsi a guerra conclusa, ma
quando andò ad esigerli, ricevette solo un rifiuto e così restò “ cornuto e
mazziato”), fu degradato e condannato all’esilio.
Sofia
reagiva diversamente dalla sorella Elisabetta, non andò in depressione né si
perse in piagnistei; come racconta R. De Cesare:” continuava la sua vita di prima, e faceva i suoi bagni, e relativo
“zumpo” nelle acque del porto militare. Alcuni anni dopo, donna
Nina Rizzo ( la marchesa Rizzo, dama di compagnia della Regina), diceva ai suoi
intimi che la sola a non aver paura in
quei momenti fu la regina”.
”Tra le regine del periodo – sostiene
Renata de Lorenzo, in "Borbonia Felix", Salerno editrice, 2013) – è la sola, anche per la delicata fase che
gestisce, ad avere un ruolo politico da reale
protagonista”. Ella non si stancava di
incitare il Re a mettersi a capo dell'esercito e passare all'azione, sicura che
tutto il popolo l'avrebbe sostenuto e seguito.
Dopo la perdita della Sicilia e la
dissoluzione dell'esercito in Calabria, tutti infatti, a Napoli furono presi
dallo scoramento. Si sperava
nell’appoggio della Russia, della Prussia e soprattutto nell’intervento armato
dell’Austria, che avrebbe potuto bloccare l’esercito piemontese in Lombardia.
Ma Francesco Giuseppe, cognato di Sofia, era stato sconfitto pesantemente
l’anno prima e aveva altri problemi da affrontare in casa; si era per questo
attirato le ire della moglie Elisabetta. La
tragedia era ormai incombente, e il Re non riusciva a prendere l’unica
decisione possibile cioè quella di prendere il comando e combattere. “ Se il re avesse il temperamento di sua
moglie, venderebbe più cara la pelle” dice A. Ghirelli ( Storia di Napoli,
ed. Einaudi,1973). Sofia, con pochi
altri, incitava inutilmente il marito a “ montare a cavallo” e a dirigere
personalmente le operazioni, ma non ci fu verso di convincerlo. Francesco non
era fatto per la guerra, nella sua educazione non era stata contemplata l’
ipotesi di fare il condottiero militare: si sarebbe svegliato solo più tardi,
come vedremo, quando ormai aveva abbandonato la capitale. Per Garibaldi, in Calabria, e fino a Napoli
fu una passeggiata, mentre alcuni generali borbonici si arrendevano senza
neanche provare a combattere, tanto che in alcuni casi - come a Mileto, in
Calabria, il generale Briganti - la truppa si ribellò e ammazzò il proprio
comandante. Il 6 settembre 1860, Francesco e Sofia abbandonarono la capitale, senza neanche portare via neanche i depositi
personali, né opere d’arte, né denaro, che
subito furono sequestrati e incamerati da Garibaldi e poi dai Savoia. Il
banco di Napoli aveva depositi per centinaia di milioni che fecero comodo al
Piemonte per risanare il proprio debito pubblico: il regno di Sardegna
infatti era indebitato fino al collo con
banche di mezza Europa e non disponeva che di qualche migliaio di lire.
Secondo
me fu un grande errore abbandonare Napoli, Francesco avrebbe dovuto e potuto difendere
la città e bombardare il nemico dai castelli, invece di ritirarsi sul Volturno;
avrebbe anche potuto attestarsi a sud della città, verso Salerno e sul Sarno. La storia insegna che difficilmente un re che
ha abbandonato la propria capitale, poi ritorna; ne sapranno qualcosa anche i Savoia
dopo ottantanni, quando fuggiranno davanti ai tedeschi.
La fine
La
notizia del crollo del regno delle due
Sicilie, intanto, era arrivata a anche a Vienna e a Monaco. Nessuno Stato intervenne. I governi di Prussia, Austria e Russia fecero solo pressioni
sull'imperatore Napoleone III per
aiutare il re Francesco, mentre il governo inglese faceva esattamente il
contrario. Napoleone III si comportava, come al solito, in modo ambiguo e
imprevedibile, da una parte proteggeva il Borbone così come proteggeva il Papa
subendo l’influenza della moglie, supercattolica e legittimista,
dall’altra, segretamente si faceva
convincere da Cavour, ma soprattutto dalla bella Virginia Oldoini, più nota
come contessa di Castiglione ( a fianco), a favorire l’intervento del Piemonte, anche
attaccando i territori papali. La
preoccupazione per la sorella Sofia ebbe
su Sissi un'influenza negativa, rovinando anche i suoi rapporti col marito.
Elisabetta lasciò improvvisamente Vienna e si diresse a Possenhofen in
Baviera, a casa sua Nell'ottobre del 1860,, mentre sul Volturno
sui combatteva la battaglia decisiva per il regno delle due Sicilie, la salute
dell'imperatrice subì un tracollo, dovuto a numerose crisi nervose e cure
dimagranti. I medici interpellati non ci capivano molto, qualcuno consigliò una
cura presso un paese dal clima caldo: a suo parere la sovrana non sarebbe
riuscita a superare l'inverno a Vienna.
A sud intanto Sofia e Francesco, abbandonata Napoli il 6
settembre, si erano rifugiati a Gaeta, mentre le truppe rimaste fedeli,
prendevano posizione intorno alla fortezza e sulla piana del Volturno, secondo
una precisa strategia che prevedeva una linea di difesa sul fiume, con il
supporto delle due fortezze di Capua e Gaeta. Resistevano inoltre le fortezze
di Messina e di Civitella del Tronto. La
maggior parte della flotta borbonica, al comando della quale era Luigi di
Borbone, conte di Aquila e zio di Francesco II, presente all'ancora nella rada
di Napoli, rifiutò di seguire il re.. Ma molti dei semplici marinai delle navi
ammutinate, visto l'atteggiamento dei loro ufficiali, si tuffarono in mare per
raggiungere il re, rifiutando di partecipare al tradimento. Così, due sole navi
seguirono il re a Gaeta, insieme a una nave spagnola con a bordo l’
ambasciatore di Spagna, Bermudez de Castro.
Francesco finalmente si era svegliato e deciso a “montare a cavallo” come da tempo
gli aveva suggerito la regina, e a partecipare alle operazioni militari,
assistito dal meglio dell’esercito rimasto e da generali meno incapaci.
Sul Volturno, la situazione si presentò subito diversa e
più difficile allo stesso Garibaldi: i garibaldini si trovarono davanti a un
esercito regolare di gente arrabbiata e pronta a tutto, e non c’erano quei
comandanti che si erano arresi al primo sparo.
La battaglia, infatti, volgeva a favore dell’ esercito
borbonico e si narra che lo stesso Garibaldi stesse per finire prigioniero
nella zona di S. Angelo in Formis (vedi su questo blog: S.Angelo in Formis ). Si
racconta, infatti, che egli, mentre cercava di raggiungere le sue linee,
percorrendo in carrozza la strada tra S.
Maria Capua Vetere e S. Angelo, fu attaccato dai soldati borbonici che
abbatterono cocchiere e cavallo. A stento
era riuscito a salvarsi, correndo a piedi verso le proprie linee. “ ….L’esercito borbonico, composto da circa
50.000 uomini, si batté strenuamente e nella località di Caiazzo costrinse i
garibaldini a ritirarsi…” (Lucio Villari, Bella e perduta, Ed. Laterza),
tanto per smentire le malelingue che sparlarono e ancora oggi sparlano, con
disprezzo dell’esercito di Franceschiello.
L’arrivo di rinforzi freschi e delle truppe sarde dal nord,
capovolsero le sorti della battaglia, e
quello che restava dell’esercito si ritirò nella fortezza di Gaeta. Poiché
non entravano tutti nella fortezza, alcuni reggimenti furono sciolti, i soldati
furono mandati oltre il confine dello stato pontificio mentre altri si prepararono alla estrema difesa. Dal
lato mare Gaeta era protetta da poche navi rimaste fedeli e da alcune navi
spagnole e francesi.
Gaeta
Oggi Gaeta è un Comune di circa 20.000 abitanti della provincia di
latina, nel basso Lazio, subito dopo Formia, per chi viene da Napoli, da cui
dista circa 80 km.
Nel 1860 Gaeta era parte dell'antica provincia di Terra di lavoro del regno
delle due Sicilie. Città antica, sulla cui origine si sono espressi il geografo Strabone,
ma più conosciuto di lui, Virgilio, nell’Eneide (Eneide, VII, 1-4), che
diede una sua spiegazione del origine del nome: “Caieta”, dal nome della
nutrice di Enea, da lui sepolta in quel sito durante il suo viaggio verso le
coste laziali. “Ed ancor tu, d’Enea fida
nutrice Caieta, ai nostri liti eterna fama desti morendo; ed essi anco a te
diero sede onorata…..”.
La
città, dopo la fine dell'impero romano, subì vari saccheggi e dominazioni. Per la sua posizione su una penisola
naturale, facilmente difendibile, fu
fortificata con cinte murarie e sulle pendici di Monte Orlando, sulla zona alta
dell'antico borgo medioevale sorse il castello di Gaeta a difesa dell'abitato,
e le popolazioni delle zone limitrofe si trasferirono all'interno delle mura
per trovare ospitalità, rifugio e protezione.
Le prime notizie del castello risalgono al VI secolo d.c., ma notizie
certe della sua esistenza si hanno nel XIII, durante la dominazione Sveva. Alla nascita del regno normanno, con Ruggero II, Gaeta divenne città di
confine con lo Stato della Chiesa.
Durante il periodi successivi furono costruite aggiunte al castello e nuovissime
fortificazioni, aggiornate contro le ultime e più potenti armi da fuoco. L'ala angioina fino a pochi anni fa è stata
sede del Carcere Militare di Gaeta, attualmente è di proprietà del Comune. La fortezza aveva subito nei secoli molti
assedi, gli ultimi erano stati nel 1806,
da parte delle truppe napoleoniche comandate dal generale Massena, e aveva
resistito per 5 mesi, e nel 1815 il generale
Begani tenne testa agli Austriaci coi resti dell'esercito di Gioacchino Murat.
L'assedio
ebbe inizio il 13 novembre 1860 e fu condotto in modo aspro, e contro ogni
convenzione militare , dalle truppe dell'esercito sardo, guidate dal generale Enrico
Cialdini( a lato). Da sottolineare che nessuna
dichiarazione di guerra era stata effettuata dal governo piemontese a quello delle due Sicilie, contro
ogni legge internazionale. Oggi
l’aggressione a uno stato sovrano da parte di un altro, avrebbe provocato
l’intervento dell’ONU, della Nato, e i
capi dello Stato aggressore sarebbero stati ricercati, arrestati e giudicati
dal tribunale internazionale dell’Aia.
L’esercito
sardo si stava ammassando intorno alla fortezza, oltre il Borgo della città,
oltre Mola (oggi Formia), sui monti e i colli circostanti. ” Da Monte Cristo ai colli di Tortano –
(Gigi di Fiore, Gli ultimi giorni di Gaeta, ed. Rizzoli) - , Lombone, Sant’Agata e i Cappuccini, per arrivare alla spiaggia di Serapo (
bellissima e con un mare caraibico ancora negli anni ’60 del XX sec.), sul lato sinistro della piazzaforte; ma anche tra la valle Arzano e Monte Conca
sulla destra”. Una tenaglia formidabile e uno schieramento incredibile di
truppe e artiglierie.
Fine seconda parte, continua…