Corricella |
Introduzione
Procida è
una delle tre isole del golfo di Napoli, le altre due sono le più note Capri e
Ischia. Poi c’è Vivara collegata da un ponte a Procida, la piccola Nisida da
tempo collegata con la terraferma e, c’erano una volta, Megaride, dove fu
fondata Partenope, oggi c’è il castel dell’Ovo, e l’isolotto di S. Leonardo,
sparito nella Rotonda Diaz di via Caracciolo.
Procida è,
dal punto di vista amministrativo, un Comune della città
metropolitana di Napoli, con un territorio
che comprende anche Vivara.
Antichità
Alcuni
ritrovamenti archeologici su Vivara hanno fatto pensare che l'isola fosse già
abitata intorno al XVI o XV secolo a.C., probabilmente da coloni Micenei che
stabilirono un emporio commerciale. Tanto per inquadrare il periodo storico, i
Micenei furono quelli della guerra di Troia. Con “emporio commerciale” si indica,
nell’antichità, una località marittima adibita allo scarico,
al deposito e alla vendita di merci. Empori commerciali erano disseminati anche su altre isole o lungo le
coste del Mediterraneo, come ad esempio anche nell’Alto Adriatico, dove
mercanti Fenici scambiavano merci con altri mercanti provenienti dal nord
Europa.
In
quell’epoca – secondo lo storico Erodoto - il Mediterraneo era già
da secoli frequentato, sulle coste africane e quelle europee, da Fenici
o comunque mediorientali, Siriani, Egiziani, Cretesi e Micenei, guerrieri,
avventurieri, mercanti e pirati trafficavano e fondavano
basi commerciali e anche città.
Intorno
all'VIII secolo a. C., Procida fu abitata da coloni Calcidesi dell'isola di
Eubea e poi dai Greci di Cuma, gli stessi che fondarono prima Partenope e
poi Neapolis. La loro presenza è confermata sia da rilevamenti archeologici che
dalla toponomastica di diversi luoghi dell'isola.
Durante la
dominazione romana, Procida divenne sede di ville e di insediamenti sparsi; fu
un luogo tranquillo di villeggiatura dei patrizi romani, così come accadeva per
gli altri siti Flegrei, come Baia, Miseno e soprattutto Capri che divenne sede
imperiale con Tiberio. Giovenale, poeta
romano del I° secolo d.C., nella terza delle sue “Satire”, parlando male della vita nella capitale dell’Impero, dice:”ego
vel Prochytam praepono Suburae”, cioè “ io preferisco Procida alla Suburra
“.
Medio Evo
Dopo
la fine dell’impero romano d’Occidente, l'isola subì invasioni e
devastazioni, e fece parte come tutta la penisola del regno d’Italia fondato da
Teodorico, re dei Goti. Successivamente arrivarono i bizantini e poi il Ducato
di Napoli e l’isola ne fu parte.
Era l’epoca
delle incursioni Saracene nell’area flegrea e Procida diventò luogo di rifugio
per profughi ma molti non riuscirono a salvarsi da violenze, massacri e
rapimenti.
Bisognò
aspettare il IX secolo, tra l’846 e l’849 per infliggere una sonora sconfitta
ai Saraceni prima a Gaeta e poi a Ostia in
due scontri navali con la Lega campana composta da Amalfi, di
Napoli, Sorrento e Gaeta, comandata dal napoletano Cesario console.
Il Ducato
napoletano, con i suoi territori, comprese le isole, fu l’ultimo presidio di
indipendenza ad arrendersi a Ruggero II il Normanno, diventato Re di Sicilia.
Dal 1140
tutti i territori meridionali della penisola confluirono nel Regno di Sicilia e
cosi restò fino alla sconfitta di Manfredi Hohenstaufen, figlio di Federico II,
e l’arrivo degli Angioini. Procida seguì quindi le vicende politiche del Regno
di Napoli, subendo le varie dominazioni normanne, sveve, angioine: ricordiamo
Giovanni da Procida consigliere di Federico II e animatore della rivolta dei
Vespri siciliani contro gli Angioini.
Dal
1210, Procida fu considerata un feudo da concedere a nobili che i Re
intendevano premiare e ne fu investito Giovanni da Procida. Secondo una
leggenda, egli si trovò in incognito, a Napoli, il 29 ottobre del 1268, mentre
veniva decapitato Corradino, nipote dell’imperatore Federico II, e riuscì
a raccogliere il "guanto di sfida" che il giustiziato avrebbe
lanciato dal patibolo tra la folla poco prima di morire.
Giovanni in
realtà fu seguace di Manfredi, rimase fedele agli Svevi e quindi a Costanza la
figlia di Manfredi che aveva sposato Pietro d’Aragona. In suo nome fu promotore
della sollevazione dei Vespri siciliani e della cacciata degli Angioini dalla
Sicilia.
Gli
Angioini ebbero il merito di portare la capitale del regno a Napoli: Procida
fu data in feudo a Marino Cossa e la sua famiglia. I Cossa erano una
famiglia aristocratica napoletana iscritta ai seggi di Nido e Capuana (cioè via
Nilo e porta Capuana), perciò, penso, abitante in Napoli nell’area degli
antichi decumani.
La Novella e la
Storia
Verso il
1328, in epoca angioina, si trovò a Napoli il quindicenne Giovanni Boccaccio
che aveva seguito il padre, dipendente dei banchieri Bardi, per impratichirsi
nel commercio e per studiare diritto canonico presso quella Università. A
Giovanni erano assolutamente sgraditi sia il commercio sia lo studio del
diritto canonico.
Napoli era
una città piena di vita, di gente, di cultura e musica, di donne belle e
disponibili e offriva tante occasioni per divertirsi, frequentare amici e belle
donne a fare una vita raffinata e lieta tra amori e cominciare a scrivere.
Egli restò a Napoli circa 12 anni e conservò un gran ricordo di quei tempi, quando scrisse la sua opera più nota, il Decamerone. Tutti sappiamo che Il Decameron” è una raccolta di cento novelle ambientate durante la peste di Firenze del mille trecento48. Sette ragazze e tre ragazzi di famiglie ricche decidono di rinchiudersi in una villa fuori Firenze per scappare dalla peste del 1348. Li trascorreranno i giorni a divertirsi e a raccontarsi dieci novelle al giorno.
Decamerone, V giornata, Pampinea racconta |
Nella
quinta giornata, Boccaccio inserì, nella sesta novella, una storia d’amore che
si svolgeva tra Procida e Ischia. La racconta Pampinea una delle sette
fanciulle che facevano parte della brigata.
Pampinea
raccontava che: “Ischia è una isola assai vicina di Napoli, nella quale fu
già tra l’altre una giovinetta bella e lieta molto, il cui nome fu Restituta, e
figliuola d’un gentil uom dell’isola, che Marin Bolgaro avea nome, la quale un
giovanetto, che d’una isoletta ad Ischia vicina, chiamata Procida, era, e nominato Gianni, amava
sopra la vita sua, ed ella lui. Il quale, non che il giorno da Procida ad usare
ad Ischia per vederla venisse, ma già molte volte di notte, non avendo trovata
barca, da Procida infino ad
Ischia notando era andato, per poter vedere, se altro non potesse, almeno le
mura della sua casa.
E durante questo amore così fervente, avvenne che, essendo la giovane un giorno
di state tutta soletta alla marina, di scoglio in scoglio andando marine conche
con un coltellino dalle pietre spiccando, s’avvenne in un luogo fra gli scogli
riposto, dove sì per l’ombra e sì per lo destro d’una fontana d’acqua
freddissima che v’era, s’erano certi giovani siciliani, che da Napoli venivano,
con una lor fregata raccolti”.
Per farla
breve, Restituta viene rapita dai siciliani, portata a Palermo e data in regalo
al Re Federico. Egli gradisce il regalo e fa portare la giovane nel castello
della “Cuba”. Gianni da Procida cerca la giovane e la ritrova a Palermo nel
castello dove però arriva anche il Re e li trova nudi nel letto. Allora ordina
che siano arrestati e messi a morte. Ma
Gianni
viene riconosciuto da Ruggero di Loria, ammiraglio del Re, al quale rappresenta
che il giovane appartiene alla famiglia che gli ha permesso di regnare in
Sicilia. A questo punto tutto finisce bene, il Re concede la grazia, fa sposare
i due e, con doni ricevuti dallo stesso Re e da altri, fanno ritorno a Procida
e “vissero felici e contenti”.
Un breve
commento al racconto permette di capire che Boccaccio conosceva bene la storia
di Napoli e Sicilia e degli Angiò e degli Aragonesi di Sicilia. Il racconto è
infatti pieno di personaggi e riferimenti storici.
Il Re
menzionato nella novella era Federico III, Re aragonese di Sicilia dal 1295 al
1337; Ruggieri di Loria era Ruggiero di Lauria, ammiraglio al servizio
dei sovrani aragonesi di Sicilia, che aveva vinto molte battaglie contro gli Angiò.
Il Palazzo o castello della Cuba (dall'arabo Qubba,
"cupola") è realmente esistito a Palermo, fu costruito nel 1180 da Guglielmo II. Il nome del giovane “Gianni di Procida” ricorda
Giovanni da Procida, signore dell’isola e come già detto, promotore dei vespri
siciliani che portarono gli Aragonesi in Sicilia nel 1300. Lo stesso “Marin
Bolgaro”, padre di Restituta, potrebbe essere il nome di un personaggio
realmente esistito e conosciuto dal Boccaccio, verso il 1328, nel corso del
soggiorno a Napoli.
Aragonesi e Spagnoli
Dopo gli
Angioini arrivarono anche a Napoli gli Aragonesi che però regnarono soltanto
sessanta anni e dovettero combattere soprattutto con nemici interni, i baroni
del Regno e gli eredi degli Angioini che reclamavano il trono di Napoli. Le
isole di Ischia e Procida furono testimoni di battaglie navali, di
rivalità e ambizioni di personaggi che, cambiavano bandiera secondo il momento
e i propri interessi. Come il caso di un tale Giovanni Torella che non contento
di aver ricevuto in premio il feudo di Ischia, voleva aggiungerci anche Procida.
Ma, questa
apparteneva alla famiglia Cossa, come abbiamo visto, che era fedelissima
agli Aragonesi, e quindi Torella non raggiunse il suo scopo. Allora cambiò
bandiera e si schierò con i nemici del Re, ma non aveva capito chi era il re
Ferrante. Fu sconfitto e dovette fuggire perdendo anche quello che già aveva.
Dal 1503,
gli Spagnoli declassarono i territori del sud Italia e la capitale a
vice-regno.
L’ultimo
Cossa di Procida fu Giovanni Vincenzo a cui, nel 1529, fu tolta la Signoria
dell’isola perché era passato dagli Spagnoli al servizio dei Francesi.
Procida fu,
quindi, data alla famiglia d’Avalos, già signori di Ischia, e fedelissima degli
d’Aragona di Spagna, che dal 1503, diventarono Re di Napoli.
Torri e Terre murate
Era un'epoca
di guerre continue in Europa, e il Mediterraneo era infestato dai pirati
turchi, come Khayr al Din, soprannominato Barbarossa, e Dragut che, nel ’500,
erano protetti da Istanbul.
Le
scorrerie dei pirati Saraceni non erano
una novità, erano iniziate fin dall’ VIII secolo e toccavano tutte le coste e
le isole del Mediterraneo. Gli Arabi avevano conquistato la Sicilia, avevano
preso parte della Spagna, fondando regni e/o insediamenti tra i quali anche
quello fondato, con la complicità e l’assenso dei Duchi napoletani, alla foce
del Garigliano presso Minturno (Traetto), e anche a Bari dove Bisanzio permise
di restarci per circa cinquanta anni.
Le coste
furono costellate da Torri di avvistamento, ricordate oggi dai nomi delle città
di Torre annunziata e Torre del greco, e a Napoli la nota Torretta. A Procida,
gli abitanti iniziarono a rifugiarsi sul promontorio più alto dell’isola e
a fortificarlo. Prima si chiamava Terre “casate” un borgo dove erano state
costruite le case per rifugiarsi in caso di necessità. Sul
promontorio c’era – e c’è - l'Abbazia Di San Michele Arcangelo
fondata come monastero da monaci benedettini nel 1026, distrutta e ricostruita
diverse volte Nell 1534, il pirata Barbarossa, devastò l’isola
facendo anche molti prigionieri deportati come schiavi.
In quegli anni era Viceré a Napoli il famoso don Pedro di Toledo che oltre a costruire strade e Torri, cercò di combattere i pirati ma senza molto successo. Non furono le torri a spaventare i pirati né le navi spagnole, perché le incursioni non diminuirono. Per arrivare a un miglioramento della vita dei paesi isolani e costieri bisognò attendere il 1571 e la vittoria cristiana nella battaglia di Lepanto. Il borgo sul promontorio fu fortificato con una seconda cinta di mura e diventò le Terre murate. L'Abbazia Di San Michele Arcangelo fu ricostruita ancora una volta nel 1563, quando fu costruito anche il Palazzo d’Avalos che, ricordiamo, era il feudatario dell’isola. Fu chiamato castello e adibito a residenza reale.
I Borbone
Nel 1734
arrivarono i Borbone, Procida cessò di essere una proprietà privata,
divenne invece, territorio demaniale del nuovo Stato finalmente indipendente.
L'isola fu quindi una delle riserve di caccia dei Re di Napoli che vi si
trattenevano per il tempo che ritenevano opportuno per la caccia. Il castello
sopra Terre murate fu trasformato e chiamato palazzo reale.
Carlo di
Borbone andò, nel 1759, a Madrid diventando Carlo III di Spagna. A Napoli
rimase il figlio Ferdinando che nel 1799 dovette affrontare la rivoluzione
francese, la Repubblica partenopea e fuggire a Palermo.
Il 17
maggio 1799 si svolse nel Canale di Procida, cioè, sullo specchio di mare che
separa l'isola dalla terra ferma, cioè l’area di capo Miseno, uno scontro
navale tra flotta anglo-borbonica e quella repubblicana comandata d Francesco
Caracciolo.
L’obiettivo
dei repubblicani era quello di tentare uno sbarco a Procida per scacciarne il
presidio inglese, ma il risultato fu scadente. D’altro canto, come si sa, la
Repubblica durò per appena un altro mese, arrendendosi a metà giugno.
La prigione
Le carceri
di Napoli non erano più sufficienti e versavano in uno stato di estremo disagio
a causa del sovraffollamento: la Vicaria, l’antico Castel Capuano ristrutturato
da Pedro di Toledo nel 1540 per ospitare i Tribunali della città e le prigioni,
e anche l’antico monastero di S. Francesco, riadattato già nel 1792, non
bastavano più.
Si cominciò
così a pensare ad altri siti utilizzando, come già accadeva in Inghilterra e
Francia, le isole: dopo aver costruito un carcere sull'isolotto di Santo
Stefano con il sistema più moderno per quell’epoca, chiamato panottico. Dopo
aver provato anche a colonizzare le isole Tremiti e Ventotene, senza buoni
risultati, si pensò alle isole del golfo della capitale.
La prima
scelta fu Procida, seguita poi da Nisida e da Ischia.
Nel 1830
era salito al trono di Napoli il giovane Ferdinando II di Borbone. Egli
rinunziò al palazzo di Terre murate, si fecero interventi di modifica e
ampliamenti necessari per la trasformazione in carcere.
La struttura venne divisa in quattro livelli destinati a diverse categorie di detenuti, in base alla gravità della pena. I piani bassi, umidi ed angusti, ospitavano prigionieri politici o assassini; il piano più alto, chiamato Reclusione, era occupato da condannati al ‘minimo dei ferri”, cioè i detenuti comuni.
Ingresso Carcere |
Nei
sotterranei vi erano, invece, locali interrati utilizzati come celle di rigore.
Come
struttura penitenziaria sollevò molte critiche dagli oppositori politici dei
Borbone. Sicuramente quello di Procida non era un carcere sul quale misurare il
commento di Voltaire relativo alle prigioni: “la civiltà di un paese si
giudica dalle sue carceri”. Ma neanche negli
altri Stati la situazione si adattava a quelle parole.
E’di quell’epoca un libro famoso, “Le mie prigioni”, le memorie della
prigionia scritto da Silvio Pellico che ottenne molto successo presso il
pubblico, soprattutto gli oppositori politici del regime austriaco.
Di carceri
napoletane parlò anche il deputato inglese Gladstone, quando nel 1850/51 si recò
in visita a Napoli dove accompagnava la figlia Mary. Gladstone colse l'occasione per interessarsi
alle prigioni dei Borbone. Si racconta che egli usò dei sotterfugi per visitare
ad esempio Nisida dove era imprigionato il politico Carlo Poerio.
Appena
tornato in Inghilterra pubblicò le sue considerazioni definendo quel sistema
penitenziario borbonico come "la
negazione di Dio eretta a sistema di governo". Su queste
affermazioni si sollevò una grossa polemica che è ancora oggi oggetto di
dibattito. Certo, mister Gladstone avrebbe
forse dovuto visitare le carceri e le case di correzioni del suo paese, che non
erano esempi di civiltà e di rispetto della dignità umana, e forse non avrebbe
osato scrivere quello che scrisse.
Si è appurato dopo che il Gladstone, parente del primo ministro
inglese, scriveva per motivi politici per screditare il Borbone che osava
opporre resistenza al potere inglese.
Luigi
Settembrini, insieme a Carlo Poerio e altri oppositori dei Borbone, definì il
carcere di Procida “la regina delle galere borboniche, la cloaca
massima dove, naturalmente, percola quanto la società ha di più feccioso ed
infame: briganti, assassini, parricidi, grassatori, ladri, falsari…”.
Strano,
perché appena mandati via i Borbone, Settembrini fu addetto proprio alla
vigilanza su quelle carceri che aveva definito pessime e non fece niente per
migliorarle, rimangiandosi tutto quello che aveva detto. Si vede che forse
quella struttura non era poi tanto malmessa e il trattamento dei detenuti non
era così pessimo. Su quel complesso, infatti, furono spesi molti soldi per
ricavare spazi e altro come servizi igienici, lavanderie, infermeria e fu in
funzione fino addirittura al 1988.
Francesco
Torraca racconta in “Notizie su la
vita e gli scritti di Luigi Settembrini, Napoli, 1877” che Settembrini
cosi parlava ai suoi alunni pochi mesi prima di morire, nel 1876, si rimangiò
tutto. Egli infatti confessò che era stato alquanto esagerato nelle
descrizioni: “: “Ho letto in molti libri, ……, di sevizie
patite da noi condannati politici: ciò non è esatto. A me
e ai miei amici non è stato mai torto un capello nel carcere.... la
cuffia del silenzio, le cannucce nelle dita. ec. sono invenzioni.... condannati
politici: ciò non è esatto. Nessuno non ardì mai metterci le mani addosso, né
prima né dopo la condanna.... Una fu la grande sevizia, chiuderci con ladri e
omicidi; i quali, del resto, ebbero sempre grande rispetto per noi”.
Secondo
Renata De Lorenzo in “Borbonia felix”, storica sicuramente poco o niente
filo-borbonica: “il sistema giudiziario tanto criticato da Gladstone
presenta leggi penali tra le migliori d’Europa” anche se poi aggiunge,
“ma a sagge leggi non corrispondono uomini retti”.
Nel 1971
quel Carcere fornì l'ambientazione per il film “Detenuto in attesa di
giudizio”, con Alberto Sordi e la regia di Nanni Loy. La struttura apparì
pessima, contraria ad ogni regola Costituzionale, ma nonostante ciò, fu chiusa
solo nel 1988.
Graziella e Arturo
Nel 1852 fu
pubblicato un romanzo che rese reso Procida famosa in tutta Europa. Il romanzo
si chiamava “Graziella”, l’autore era il francese Alphonse de
Lamartine.
Egli raccontò del suo viaggio in Italia e
della sua permanenza nell’isola di Procida. Alphonse ne ammirò la
particolarità, la semplicità della sua gente e s'innamorò di una giovane
fanciulla dagli occhi neri e dalle lunghe trecce: Graziella, figlia di
pescatori procidani, che corrispose a quell’ amore. Ma ben presto Alphonse
dovette ritornare in Francia e promise di tornare da Graziella. Non mantenne la
promessa, Graziella lo attese invano fino a morirne.
Il romanzo
diventò, nel 1961, uno sceneggiato televisivo con due giovani attori
semisconosciuti all’epoca: Corrado Pani e Ilaria Occhini.
Nel 1957,
Elsa Morante scriveva e pubblicava il romanzo “L'isola di Arturo”, ambientata a
Procida. ll protagonista è
Arturo nato a Procida, ha quattordici anni e non ha mai conosciuto la madre
morta dopo il parto. Ama suo padre che non è invece quello che lui crede.
Questo più un rapporto ambiguo con la giovane matrigna e altre scoperte sul
padre lo allontanano da Procida.
Dal 1994,
cioè da quando uscì il Film “IL POSTINO” con Massimo Troisi e un grande
Philippe Noiret, Procida ha fatto un salto di qualità e di notorietà,
diventando l’isola del Postino. Sull’isola c’è la spiaggia del Postino,
l’abitazione del Postino, la locanda del Postino e così via.
La Corricella con il suo porticciolo turistico è, oggi, il posto più conosciuto dell’isola.E’ un caratteristico e antico borgo di pescatori con le case scavate nel tufo, ammassate le une sulle altre e dipinte a pastello. Vi si accede solo a piedi attraverso scalinate oppure dal mare. Qui sul porto c’è la locanda indicata nel film. Dalla Corricella si può salire a Terre murate.
Marina
Grande e invece il principale porto dell'isola, dove attraccano traghetti e
aliscafi provenienti da Napoli, da Pozzuoli e da Ischia.
La
Chiaiolella invece è una delle spiagge più rinomate dell’isola, oltre a quella
del film. Chiaiolella è un diminutivo che indica la “piccola spiaggia”, da
chiaia che è solo una corruzione linguistica dallo spagnolo “playa”. Con questo
nome sono chiamate altre località come la Riviera di Chiaia a Napoli, la Chiaia
a Forio d’Ischia, ecc....
La presenza dei Limoni nell’area napoletana ha una lunga storia. La loro presenza sulla costiera sorrentina, su quella amalfitana e anche sull’isola di Procida è certificata da documenti del XVI secolo.
Secondo
alcuni studiosi, invece, questo agrume fu portato intorno al X secolo dagli
Arabi in Spagna e in Sicilia quando le occuparono. Dalla Sicilia limoni
sarebbero poi arrivati in Campania dove trovarono terreno fertile per la loro
coltivazione.
Ma gli
scavi di Pompei e Ercolano rivelarono numerosi dipinti, come quelli della casa
del frutteto, raffiguranti limoni molto simili a quelli odierni. E’ quindi
probabile che i Romani antichi li conoscevano perché coltivati già in Campania
o perché importati da altre regioni dell’Impero.
Le caratteristiche di limoni di queste aree sono diverse: chi è più dolce o più aspro, chi e più grande o più piccolo, chi è ovale e chi no, chi ha la scorza più grande o più sottile. Quelli di Procida sono chiamati “limone pane” perché sotto la scorza, hanno una loro caratteristica che riguarda “l'albedo” cioè il bianco. Quel bianco che si trova su tutti gli agrumi, oltre ai limoni, aranci, mandarini, nel limone procidano è molto più spesso e spugnoso, si affetta e si mangia in insalata.
L’insalata
di limone è molto interessante. Gli ingredienti sono, oltre al limone pane, una
mezza cipolla, uno spicchio di aglio, un po’ di peperoncino, e anche un po’ di
menta, olio di extravergine di oliva e sale quanto basta. Chi vuole provare a
farla, può trovarla su Internet. Ma attenzione è necessario il limone-pane e
non altri.
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Bibliografia
Michele Parascandolo, Procida,
dalle origini ai tempi nostri. Ed. Benevento, 1893.
Sergio Zazzera. Procida. Storia, tradizioni e immagini. Ed. Ci.Esse.Ti.,
1984.
Pablo Cossu, Angela Larato,"Procida, insediamento e tradizione".
Ed.Clear, Roma 1986
Filomena Sardella. Procida, isola non isola. Ed. Analisi, Bologna, 1987.
Maria Masucci, Mario Vanacore. La cultura popolare nell'isola di Procida.
Ed. Guida, Napoli, 2002.
Elsa Morante, L'isola di Arturo, Ed.Mondadori 1957
Alphonse de Lamartine, Graziella, 1852.
Giovanni Attinà, Le prigioni
borboniche... la negazione di Dio? Ed.
Stamperia del Valentino 2015.
Renata de Lorenzo, Borbonia felix, Ed.Salerno
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