“ Jesce sole, jesce
sole, nun te fa cchiù suspirà, siente maje che li’ figliole hanno tanto da
prià”
( Canto
delle lavandaie del Vomero: una
preghiera al Sole – esci Sole, esci….non farti pregare tanto.. ) Secondo alcuni
risalirebbe al XIII° secolo.
Ci
si riferisce ai lavatoi pubblici e alle lavandaie, che sembra fossero di casa al Vomero. Il loro compito,secondo
una testimonianza del XVIII° sec. ” è di
lavare i panni, ciò che fanno con tanta esattezza e religione che a rendergli
belli e bianchi, invece del venefico sapone, usano la schietta calce viva
finamente spolverizzata”. Lavatoi
pubblici esistevano ancora a fine ‘800. .
“Non vi è altro luogo
in città, come quello degli spalti di castel S.Elmo, da cui si possa avere la
visione generale dell’intero golfo di Napoli, del Vesuvio, delle isole, delle
catene di monti che formano l’orizzonte, ed avere allo stesso tempo la
sensazione meravigliosa di librarsi quasi in aria e cogliere d’un colpo la
vista della grande metropoli”. ( M.Rosi, Napoli entro e fuori le mura,N.C.
Editori 2003).
S.Elmo è la parte più alta della collina del Vòmero. La collina fa parte di un più vasto sistema che va da
Capodimonte, all’Arenella, ai Camaldoli, fino a Posillipo, e che circonda tutta
la città.
Il Vòmero, oggi, è un rione della città, grande e popoloso,
insieme all’Arenella e al Vòmero alto, ed è il più giovane, essendo stato
fondato appena nel 1885; per questo alcuni sostengono che è soltanto un
quartiere residenziale, e soprattutto “ senza storia”. Certo, non è Toledo, né la Vicarìa, non è la città
vecchia, ma che sia senza storia mi sembra, come vedremo, una affermazione quanto
meno azzardata.
Il Vòmero prende probabilmente il suo nome, secondo gli
storici, dal “vòmere”, l’organo
principale dell’aratro, e dovrebbe far riferimento alla natura antica del
luogo, dove c’erano poderi e masserie, campi coltivati e quindi contadini.
Del Vomero – secondo gli storici - si inizia a parlare appena
nel medio-evo, poiché in epoca romana, la collina veniva chiamata “Paturcium”, e in epoca ancora più antica
veniva indicata, insieme a tutto il sistema collinare, “Pausilipon”,(Posillipo), - pausilipon
-, parola del greco antico che significa pausa, che acquieta, il dolore,
che libera dagli affanni.
Tutta la zona era indicata, infatti, per l’aria buona e per
l’ ”otium”- il riposo dalla vita pubblica, e la meditazione -: al villaggio del
Vomero ci si andava, da sempre e fino agli inizi del XX secolo, per la
villeggiatura nei poderi e nelle case di campagna, ma anche per gite
giornaliere e per mangiare nelle trattorie paesane..“ Maggio. Na’ tavernella ncopp’Antignano” così scriveva Salvatore di
Giacomo, ai primi del ‘900, cosi anche Rocco Galdieri nel “Vommero
sulitario: “ mmiez’a friscura, a ‘o Vommero p’è strate ‘e S.Martino”.
Ma già alla fine
dell’800, all’inaugurazione del nuovo rione, erano iniziati i danni al
paesaggio, sia con la costruzione delle funicolari – Montesanto e Chiaia -, poi con quella “centrale”, e con la costruzione delle Vie Scarlatti e via
Luca Giordano e le strade vicine; furono costruiti quei palazzi e quelle
abitazioni, che oggi definiamo d’epoca, e che ancora vediamo fino a piazza
Vanvitelli e oltre, mentre l’Arenella era ancora un villaggio, e la piazza
Medaglie d’oro era solo un’ idea.
E’ del dopoguerra, dalla fine degli anni ’50 in poi,
l’assalto alle colline, l ‘ occupazione di zone ancora rurali e la costruzione
di condomini sempre più grandi, e un vero e proprio esodo di intere famiglie che, dal centro storico,
andarono a popolare, quasi novelli coloni, i nuovi rioni.
La conseguenza fu che, insieme ai nuovi residenti,
sorsero tutti i servizi e le
varie attività commerciali, e perciò scuole, banche, negozi, bar,uffici
comunali, uffici postali, ospedali ed altro..
Come non ricordare il bar “Sangiuliano” a piazza Vanvitelli,
e poi anche a piazza Medaglie d’oro, e “Imperatore”, friggitoria, bar e
trattoria, in via Scarlatti prima del ponte di via Cilea, luoghi di ritrovo
della gioventù dell’epoca, e il bar
Daniele a via Scarlatti, .la famosa pizzeria “al Ragno d’oro”. Non ci sono più,
e resistono soltanto l’antica pizzeria ”Gorizia” e la friggitoria “Vomero”, meta
degli studenti delle vicine scuole, di impiegati e casalinghe.
Di dieci sale
cinematografiche, oggi se ne sono salvate quattro, il Vittoria a piazza
Arenella, l’Arcobaleno in via L.Giordano, il Plaza in via Kerbaker, e
l’America su a S.:Martino. Diventato
oggi “America hall”. L’Ideal, in via Scarlatti, fu il primo a sparire sostituito da un grande
magazzino, seguito poi dagli altri; mentre un paio, Diana e l’Acacia si sono
trasformati in teatri.
Il Vomero voleva diventare il “quartiere bene” della città,
e chi andava ad abitarvi riteneva di avere quasi un titolo si superiorità: il “
vomerese” credeva - e ancora oggi crede - di distinguersi dai residenti di
altri quartieri, e raramente “scende” a
Napoli. Oggi il rione è una città con una popolazione di circa 700/800 mila
residenti, collegata con il centro storico non solo con le funicolari e gli
autobus, ma da qualche anno, con la Metropolitana. Le vie Luca Giordano e
Scarlatti costituiscono ancora il centro del Vomero, sono diventate zone
pedonali frequentatissime, con le loro
boutique e i caffè.
E miracolosamente, ancora esiste e, soprattutto, resiste
agli assalti della “civiltà”, uno spazio verde: è la villa ”Floridiana”, uno dei posti più belli non
solo del Vomero, ma della città..
Entrare dall’ingresso di via Cimarosa – ce n’è un altro
dalla via Aniello Falcone – significa lasciarsi alle spalle grida, rumori e
traffico, e immergersi in un’altra dimensione: piante, prati inglesi ben curati, e viali alberati degradanti, nel silenzio
interrotto soltanto dal canto degli uccelli e dalle voci dei bambini che
giocano e delle madri che li accompagnano. Si va giù per la collina fino ad
arrivare a una terrazza panoramica da dove si gode lo spettacolo di tutto il
golfo, dalla punta della Campanella al Vesuvio, a Capri di fronte, e fino a
Posillipo.
Oggi, però, i visitatori
– in verità da un paio d’anni almeno –, sono stati privati di questa
visione. Non si può arrivare alla terrazza perché è tutto transennato: “ è
vietato oltrepassare le transenne per
pericolo di crollo alberi”.
Perché si chiama “Floridiana”? E’ presto detto: si chiama così dal titolo della duchessa di “Floridia”,
la siciliana Lucia Migliaccio, che ne fu la proprietaria.
Ferdinando di Borbone
( 1751/1826), re di Napoli dal 1759, soprannominato “ il re Nasone” o il re “
lazzarone “ era sempre stato molto sensibile al fascino femminile e non si
lasciava scappare occasione per portarsi a letto tutte le donne che voleva,
senza alcuna distinzione sociale,
popolane, nobili, borghesi. Basti pensare che ebbe 17 figli, di cui 10 però
morti ancora bambini. Aveva sposato Maria Carolina d’Austria, figlia di Maria
Teresa l’imperatrice, e sorella di Maria Antonietta, la regina di Francia
ghigliottinata, insieme al marito Luigi XVI, durante la rivoluzione.
Tra le altre amanti, Ferdinando fu però particolarmente
preso dalla signora Migliaccio, duchessa di Floridia, già vedova di un principe
e madre di ben cinque figli, e nel 1814, alla morte della regina, egli a 63
anni, volle sposarla morganaticamente.
Il matrimonio morganatico era quella forma matrimoniale,
utilizzata a quell’epoca da nobili ma soprattutto da regnanti, con donne di
diversa estrazione sociale o comunque non nobili né di livello reale, che non
dava diritto né al titolo né alla successione, neanche per i figli.
.Come regalo di nozze, Ferdinando regalò alla sposa una
villa posta sulla collina del Vomero, poco più di una casa di campagna, e ne
affidò la ristrutturazione all’architetto toscano Antonio Niccolini ( 1772/1850).
Niccolini faceva parte di quella folta schiera di artisti
che venivano a lavorare alla Corte napoletana, come erano stato Vanvitelli, Hackert, e Van Pitloo e
altri. Egli aveva lavorato nella natia Toscana e quindi si era trasferito a Napoli
dove, tra gli altri lavori, ristrutturò anche la facciata del teatro S.Carlo
dopo l’incendio del 1816..
L’edificio fu rifatto in maniera eccellente: “ la facciata dell ‘edificio si apre – a
dirla con C.De Seta - su uno dei più bei panorami della città, la
grande scalinata di marmo s’adagia sul crinale della collina e diviene essa stessa parte del paesaggio”.
Si racconta che Ferdinando, quando tutto fu pronto, come un qualsiasi innamorato,
“ per il suo compleanno invitò la duchessa a far colazione alla villa, e nel
tovagliolo le mise l’atto di donazione”( H.Acton, I Borbonr di Napoli).
La villa restò in proprietà privata degli eredi della
duchessa fino a quando, nel 1919, fu definitivamente acquistata dallo Stato: il
palazzo fu destinato nel 1920 ad accogliere le collezioni di ceramiche, porcellane, maioliche e
produzioni minori in vetro, smalti, coralli e avori di Placido di Sangro, duca
di Martina.
Oggi la villa è ancora proprietà dello Stato – stranamente
nessun ministro “creativo” ha pensato ancora di vendersela – ed è aperta al
pubblico gratuitamente, fino al tramonto.
Quel che sembra essere immutabile è “Antignano”. Da quanto mi ricordo non è cambiato il reticolo
stradale, c’é la stessa pavimentazione in basoli - lastroni squadrati di pietra
vulcanica-, con i suoi negozi di alimentari, macellerie, pescherie, salumerie e
panetterie, con un vecchio chiosco di acqua e bibite nel largo omonimo – oggi definitivamente chiuso –, e soprattutto
per il suo mercato ortofrutticolo.
Antignano, tanto per smentire quelli che parlano del Vomero
come di un luogo senza storia, ha
invece una storia antichissima.
Fin dai tempi della
fondazione e poi in epoca romana, dalla città
alla collina, e viceversa, si andava a piedi o a dorso di mulo per vari sentieri: dalla
salita del Petraio, o dalle rampe di S.Antonio a Posillipo e da lì,
attraverso sentieri si arrivava al Vomero, o dai Ventaglieri dietro Montesanto,
o dall’Infrascata ( oggi Via Salvator Rosa e Conte della Cerra), o dalla
cosiddetta “pedemontana “ che arriva fino a S.Martino , o per la calata
S.Franncesco, che scende dalla via Belvedere e arriva fino a Chiaia.
Dalla collina, si poteva proseguire verso Agnano, per poi raggiungere Pozzuoli e Cuma. La via più frequentata era quella
dell’Infrascata, ed era detta “ via per montes”: fu utilizzata, dicono gli studiosi, come unica strada fino alla scavo della “crypta neapolitana – oggi la galleria
di Piedigrotta – che consenti di arrivare a Fuorigrotta e quindi immettersi
sulla strada costiera di Pozzuoli e successivamente sulla Domiziana , costruita
poi nel 95 d.c.dal nome dell’imperatore Domiziano che si originava da Sinuessa (
Mondragone),dalla antica via Appia.
Sulla base di ritrovamenti archeologici, gli studiosi hanno
tracciato il percorso “ per montes”: partendo da Neapolis, dalla porta sita più
o meno nella zona tra piazza Dante e lo Spirito Santo, il sentiero,
costeggiando corsi d’acqua e tra pini e
querce, si inerpicava su per i Ventaglieri o il Cavone giungendo nella zona di
piazza Mazzini. Da qui si saliva per l Infrascata, - via Salvator Rosa e via
Conte della Cerra - per arrivare nell’ area di piazza Artisti e quindi attraverso
Antignano, raggiungeva probabilmente la via Case puntellate – il cui nome è
tutto un programma –, e quindi iniziava
la discesa all’altezza della Pigna, per giungere verso la Loggetta, e quindi
dirigersi verso Agnano.
Intorno alla strada, sorsero sicuramente case e casali
rustici, poderi e masserie, ma anche un mercato, “cauponae”, taverne e luoghi
di ristoro per mercanti e
viaggiatori, militari e corrieri e
almeno un villaggio. La strada, dopo qualche tempo, cominciò ad essere chiamata
“Antiniana” e così il villaggio “Antignano”:
sull’ origine di questo appellativo sono
state fatte molte ipotesi che qui non cito, per brevità. Ma concordo con quella
che mi sembra l’unica accettabile, e cioè che la parola Antignano, sulla strada
che va ad Agnano deriverebbe da “ ante Agnanum” cioè prima di…Agnano...
Da qui, si racconta, passò, nell’anno 305 d.c., il corteo che
portava il corpo del Santo patrono di Napoli, Gennaro, decapitato a Pozzuoli, per
deporlo nelle catacombe omonime, e si racconta anche che il famoso miracolo
della liquefazione del sangue sia avvenuto qui per la prima volta.. Per questo
motivo sorse nella zona una “ecclesia S.Ianuarii” poi demolita, e per questo
motivo esiste oggi la chiesa di S.Gennaro a Antignano.
Tra bancarelle di frutta e verdure, un occhio attento riesce
a vedere un antico edificio con un bel cortile interno. Sulla parete dell’ingresso
una lapide costruita dall’architetto regio Antonio de Simone per ordine di Ferdinando I re delle due Sicilie nel 1818, è dedicata
a Giovanni Pontano, poeta, letterato
e umanista. Questa era la sua villa, costruita nel 1472. Era nato in Umbria, a
Cerreto di Spoleto nel 1429, si trasferì a Napoli, dove oltre all’interesse per
la letteratura e la poesia, fu ministro del re Ferrante d’Aragona, e soldato e precettore
dell’erede Alfonso. Nel 1494 si ritirò a vivere qui a Antignano, e vi morì nel 1503.
Poco distante dalla villa fu posto il dazio del regno; ancora oggi,
sul muro dell’ antico edificio doganale, dove oggi c’è una tabaccheria, c’è una vecchia e scolorita lapide che dice :
“Qui si paga per gli regj censali “
Lasciata Antignano, dopo aver percorso, via Luca Giordano e
via Scarlatti, superata la piazza Vanvitelli, arriviamo alla funicolare di
Montesanto. Siamo in una delle zone più tranquille di questo rione, e la strada
che percorriamo – via Morghen e via Tito Angelini – ci porta lì dove avevo
iniziato questo racconto, al castello di S.Elmo,
e alla Certosa di S.Martino.
“ A Napoli non c’è
angolo di via che non ti sorprenda con un colpo d’occhio originale su monte S. Elmo,
su Posillipo, sul Vesuvio. In fondo a qualunque strada della città si scorge a
mezzogiorno il Vesuvio e a tramontana S.Elmo”, così nel 1816 Stendhal – nel
suo diario di viaggio” Roma,Napoli e Firenze” -, descriveva una classica cartolina di Napoli, dove appunto
appare in alto sulla collina, visibile da ogni parte, S.Elmo, cosi come già appariva nella tavola Strozzi,
dipinta nel 1472.
Nel 1325, sotto il regno di Roberto d’Angiò, era iniziata la costruzione del monastero dei frati Certosini, quella che oggi
è la Certosa
di S.Martino, con il suo magnifico chiostro.
Proprio a fianco del monastero, sulla parte più alta della
collina, detta allora di Belforte, sulle
rovine di un vecchio torrione di vedetta , d’epoca normanna, ma forse anche più
antica, il re, considerata la posizione strategica del luogo, dispose
l’edificazione di un “ palatium sive
castrum”, cioè non solo un castello di osservazione e difesa, ma anche un palazzo
per abitarvi.
Oltre al castello, sulle pendici della collina, sorgevano già ville e casali, e alcuni palazzi immersi nel verde.
Insieme a Castel
nuovo –o Maschio Angioino -, a Castel Capuano e Castel dell’Ovo, al castello
del Carmine, e ai Forti di Ischia e Baia da un lato e ai Torrioni di vedetta di
Torre Annunziata e Torre del greco e di Stabia dall’altro, il sistema difensivo
del golfo era completo.
Come dal nome di
Belforte si sia giunti a Sant’Elmo è difficile dirlo, e anche qui tra gli
studiosi si è accesa una discussione, peraltro stucchevole, sul nome “Elmo” dal
momento che non esiste come nome proprio, né esiste alcun santo con lo stesso
nome: sembra che nel posto esistesse una
antica chiesa dedicata a S.Erasmo,
ed il luogo veniva probabilmente già indicato
comunemente con questo nome.
Da Erasmo, probabilmente, si arrivò presto a una deformazione
nel linguaggio comune, passando prima a Ermo e poi a Elmo.
Ovviamente il castello subì nel corso dei secoli varie
ristrutturazioni e, da abitazione e castello, come era stato progettato,
diventò una vera e propria imponente fortezza, un esempio di ingegneria e
architettura militare cinquecentesca, voluta dal solito Don Pedro di Toledo, l’unico vicerè che invece di sfruttare le ricchezze della città e di mangiarsi
tutto, pose mano a una seria ristrutturazione di tutta la città, non per niente
ancora oggi c’è la via Toledo.
Don Pedro fece allargare tutta la murazione della città,
salendo anche sulle colline e raggiungendo S.Elmo. Il castello fu munito di
quei bastioni altissimi che vediamo ancora oggi e intorno furono creati fossati
e altre fortificazioni e postazioni di artiglieria. Per accedere al piazzale
dove oggi c’è l’ingresso della certosa
si doveva attraversare una porta che era inserita nelle nuove murazioni
appena erette.
Il castello, così sistemato, risultò assolutamente
imprendibile anche in tempi più recenti.
S.Elmo fu ovviamente, fino a qualche anno fa, in uso alle
autorità militari, mentre oggi è aperto al pubblico ed è sede di manifestazioni
culturali.
Intorno al castello, sulla stradina che porta alla
Funicolare, oltre a bei palazzi d’epoca e meravigliose ville, sorgono anche i “
bassi “, quelle tipiche abitazioni napoletane site al piano stradale.
Alla fine di questo breve excursus, non resta altro che
affacciarsi dal piazzale antistante l’ingresso della Certosa e ammirare la
sottostante città vecchia, distinguere sulla sinistra Capodimonte e la Reggia, riconoscere
Spaccanapoli e il tetto verde di S.Chiara, e allungare lo sguardo verso la Stazione e poi lungo la
costa, e infine sul Vesuvio, il “ formidabil monte Sterminator Vesevo” ( G.
Leopardi, La ginestra). .
Nessun commento:
Posta un commento