La Torretta a Chiaia, di G.van Wittel |
Una strana parola che non esiste nella lingua italiana,
ma ha una sua storia. “Monzù” nacque - e
visse - a Napoli, e in tutto il regno di Napoli e di Sicilia, dopo il 1768,
presso la Corte borbonica.
Arrivò quell’anno, a Napoli, l’aristocratica e
altezzosa sedicenne Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, figlia di Maria Teresa
d’Austria.
Maria Carolina |
Era la sposa del giovane – 17 anni – Ferdinando, diventato Re “per caso”, (perché appena terzo nella linea di successione), a 8 anni, quando il padre, Carlo, nel 1759, se ne andò a Madrid per diventare Carlo III. A Napoli Carolina, abituata a un rigido protocollo e a una tradizione culinaria di croissant, zuppette e gnocchetti dal sapore “delicato”, fu costretta a vedere e a mangiare cibi con quei sapori marcati e schietti, piuttosto pesanti, della cucina napoletana. Fu poi fu disgustata dal marito che mangiava gli spaghetti con le mani – ma non era il solo -, uso non proprio consono a un sovrano, specialmente durante pranzi o cene con ministri e ospiti stranieri. Ma a Ferdinando piaceva quella cucina e la pasta.
Proprio in quel periodo, tra l’altro, fu
scoperta l’unione della pasta con
il pomodoro, proveniente dalle Americhe ma impiantato nelle terre del Regno,
con un clima idoneo e vicino a quello di origine.
Ferdinando cercava
di accontentare la moglie, ma con molte difficoltà. Carolina non cambiava idea
e perciò decise che doveva non solo salvare palato e stomaco,
ma anche la dignità sua e della Corte.
Chiese, perciò, aiuto alla sorella Maria
Antonietta, Regina di Francia, altra aristocratica figlia di
Maria Teresa d’Austria.
La Francia, fin
dai tempi di Luigi XIV, il re Sole, era diventata il punto di riferimento della
moda, della musica, dell’arte e della cultura, e così anche nella gastronomia.
Maria Antonietta,
il cui destino la portò poi alla ghigliottina, pensò di mandare a Napoli alcuni
fra i migliori cuochi francesi per educare i colleghi napoletani e siciliani, a
gusti più raffinati e adatti a una Corte regale.
I francesi
arrivarono a palazzo reale, portando salse e intingoli in uso in Francia, raffinatezze
come zuppette, crostate di tagliolini, soufflés, mousses, choux e bigné, ecc.
Mentre in lingua italiana si adoperava, e
si adopera, il termine “Signore” seguito dal cognome o dal nome in segno di
rispetto, in francese si traduceva – e si traduce - Monsieur. Lo stesso termine veniva
usato per i cuochi arrivati a Napoli, che I napoletani fecero presto a
deformare in “Monzù” o “Monsiù”.
I francesi ci
provarono, e si misero d’impegno a insegnare ai colleghi partenopei la cucina
richiesta dalla Regina.
Ma, come tutti gli
stranieri che arrivavano a Napoli con idee di governare e di cambiare, anche i “messieurs”
finirono per napoletanizzarsi: la cucina napoletana, così particolare, non
poteva essere assorbita da quella d’oltralpe, e avvenne l’esatto contrario. I
cuochi napoletani, e siciliani, istruiti dai francesi, crearono una cucina
completamente nuova, mischiando quella tradizionale con quella francese.
Nasceva il “gattò”, una torta di patate
derivata dal “gateau” con ingredienti locali che sostituirono quelli francesi;
nacque il “sartù” di riso, derivato da ““sur tout” (letteralmente “copri
tutto”), un timballo di riso ricoperto da un mantello di pangrattato, nel
cui interno furono aggiunti sugo di pomodoro, piselli, uova sode, fior di
latte, polpettine e salsicce,
E non dimentichiamo “ ‘o Babbà”, dal francese babà, e ancora i “crocché” di patate, da Croquette.
Ci fu anche, tra i monzù napoletani, il Monzù Gennaro che, su richiesta del Re Ferdinando, inventò la forchetta a 4 rebbi, con la quale anche a Corte si potevano gustare maccheroni e spaghetti, evitando di prenderli con le mani.
Ferdinando I due Sicilie |
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